IL MODO ITALIANO:
PRIMI PASSI E SVILUPPI
TRA ACCADEMIA E INNOVAZIONE

Il primo manifesto illustrato stampato in Italia a scopi pubblicitari venne realizzato nel 1863 per la rappresentazione del Faust di Goethe, musicato da Gounod, al teatro alla Scala di Milano.

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ur non mancando altri precoci esempi di carattere più strettamente commerciale, furono infatti gli avvisi d’opera a tentare per primi la commistione tra immagini e tipografia; ma le dimensioni modeste e l’assoluta subordinazione delle figure alle parole conferivano loro un aspetto da pagina d’albo piuttosto che da cartellone.
In realtà, ci vollero almeno altri vent’anni perché la produzione di affissi, nel nostro paese, si facesse sistematica; e ancora nel 1894 - quando nell’ambito delle Esposizioni riunite di Milano si dedicò una mostra alla pubblicità, nel settore delle Arti grafiche - il ritardo dell’Italia rispetto al resto dell’Europa, non meno che agli Stati Uniti e al Giappone, si palesava chiaramente. Mentre a Parigi l’“âge d’or” del cartellonismo stava già quasi declinando, i muri delle nostre città cominciavano appena, davvero assai timidamente, a colorarsi e a parlare.

Lì, nella Ville lumière, c’era già stato Jules Chéret, il primo e per questo il più grande; maestro per Grasset, Ibels, Steinlen e anche per Toulouse-Lautrec, certamente geniale nella sua rara ma celeberrima grafica pubblicitaria e tuttavia non progenitore, come fama vorrebbe. Sfruttando le nuove risorse fornite dalla tecnica cromolitografica - appresa durante un soggiorno a Londra - Chéret aveva costruito, pezzo su pezzo, l’identità dell’” affiche”, vero oggetto di culto della Parigi “fin de siècle”: ben 567 dei 2233 manifesti illustrati pubblicati dal libraio Edmond Sagot nel catalogo di vendita per l’anno 1891 erano creazioni sue, realizzate in poco più di vent’anni di frenetico lavoro. Il suo indimenticabile campionario iconografico di ballerine, di femmine civettuole ed eleganti, di pattinatrici disinvolte ed emancipate, di clown, reinterpretava con moderno disincanto le grazie pittoriche di Watteau e di Fragonard, esprimendo perfettamente la gaiezza, da seducente a parossistica, di un’epoca nevrotica per eccellenza; euforica ed esagerata anche nella smania collezionistica - l’“affichomanie” - con cui finiva implicitamente per riconoscere proprio al cartellone pubblicitario lo status di ingrediente imprescindibile della Belle époque.

Jules Chéret, Palais de Glace. Champs Elysées (1894).


Adolf Hohenstein, Iris (1898).

Tardiva eco del progressismo parigino, l’unico caso nazionale di “affichomanie” - rivelatosi poi peraltro, nei decenni, tutt’altro che una folgorazione estemporanea - fu quello del trevigiano Nando Salce; ma la passione del giovane diciottenne si accese grazie al primo vero nuovo manifesto italiano, ed era già il 1895. Vittorio Pica, il geniale critico napoletano che dalle pagine della rivista “Emporium” fissò per primo i caratteri della grafica illustrata nazionale, così si esprimeva sull’invenzione del romano Giovanni Maria Mataloni per Società anonima per la incandescenza a gas, brevetto Auer, forse suggestionando l’imberbe collezionista: «Questo cartellone, che ci mostra una vaga fanciulla, il cui formoso corpo ignudo traspare dentro un sottile velo nero e che voluttuosamente ride sotto una radiante corona di fiammelle a gas, è il primo cartellone italiano che, per concezione, per fattura e per tiraggio, sia degno di stare a confronto coi cartelloni bellissimi, che, a Parigi, a Londra, a New York, consolano in qualche modo le pupille degli aristocratici amatori d’arte, offese di continuo dalle grossolane ed anti-estetiche sagome degli enormi ed utilitari caseggiati moderni»(*). Era il segno tangibile di un innesco: tutto italiano nella forma - per la commistione di retaggi classicisti e innovazioni moderniste - e universalmente moderno nei contenuti pubblicitari; i quali, come spesso sullo scorcio del secolo, parlavano di illuminazione artificiale accendendo, finalmente, i primi veri lumi di progresso comunicativo.

Nelle sue brevi ma preziose lezioni critiche, giusto all’esordio del XX secolo, Vittorio Pica individuava senza esitazione in Mataloni e in Adolf Hohenstein i nostri migliori cartellonisti, intuendo con acume che, in questo tipo di grafica, armonia ed efficacia dell’esito contavano più di qualunque coerenza stilistica.


Giovanni Maria Mataloni, Il Mattino (1896).

(*) In “Emporium”, vol. III, n. 13, 1986.

Adolf Hohenstein, Bitter Campari (prima del 1899).


Adolf Hohenstein, Tosca (1899).


Adolf Hohenstein, Cordial Campari (1901).

Mataloni, dal canto suo, continuava a sperimentare la possibilità di conciliare la resa integra e sensuale di giovani corpi femminili con apparati decorativi, spesso floreali, semplificati in chiave linearistica (così per esempio per i periodici “Il Mattino” di Napoli, “L’ora” di Palermo, “La Tribuna” di Roma); mentre Hohenstein, assai più originale per campionario iconografico, si cimentava in impaginati che ripartivano lo spazio con sinuosi arabeschi e lettering appositamente disegnato. Nato in Russia da genitori tedeschi ma cresciuto e formatosi a Vienna, Hohenstein visse a Milano per circa vent’anni - dagli anni Ottanta del XIX secolo fino al 1905, quando si trasferì definitivamente in Germania -, arrivandovi, pregno di cultura mitteleuropea, come scenografo e disegnatore di costumi teatrali. Il rapporto professionale che lo legò fin da subito a Casa Ricordi, editore musicale dal 1808, ne fece presto un protagonista imprescindibile della scena creativa italiana; e, per una serie di fortunate contingenze, fu proprio all’ambito del cartellonismo pubblicitario che finì per elargire la sua dirompente, pionieristica inventiva.

Lungimirante e iperattiva nell’estensione dei suoi campi d’attività, la Ricordi si era infatti dotata di aggiornatissime attrezzature per ogni tipo di stampa: nel nuovo stabilimento di viale Porta Vittoria, aperto nel 1884, si praticavano contestualmente cromolitografia, cromotipografia, incisione, tachigrafia, calcografia, stampa litografica e zincografica, stereotipia, galvanoplastica, fotoincisione, legatoria; e, accanto alla carta per musica, si producevano annualmente ben centomila fogli di carta per “affiches”. Il settore grafico divenne presto così importante da suggerire l’autonomia aziendale di quelle che furono allora battezzate Officine grafiche Ricordi: uno degli stabilimenti litografici che avrebbero espresso l’eccellenza della pubblicità illustrata del nostro paese; e fu proprio Adolf Hohenstein, nel 1889, a esserne nominato primo direttore artistico.

Mentre lui stesso realizzava manifesti-capolavoro per l’Iris di Mascagni (1898), per la Tosca di Puccini (1899), per il Cordial e per il Bitter Campari (1900), un variegato manipolo di giovani epigoni si metteva alla prova presso Ricordi adottando analoga disinvoltura linguistica, tra spunti fotografici, stilemi modernisti e retaggi accademici. C’era il romano Mataloni, il già rammentato autore del “primo” manifesto italiano; e il palermitano Aleardo Terzi, raffinatissimo autore anche di cartoline e di spartiti musicali; c’era Aleardo Villa, sempre in bilico tra pittoricismo accademico e innovazione grafica, con escursioni palesi verso la Francia di Chéret e l’Inghilterra di Beardsley; e il polacco Laskoff, che dagli esempi inglesi desumeva un linguaggio straordinariamente sintetico e moderno; c’era il giovane Dudovich, arrivato per un apprendistato da cromista ma presto già così abile da esser chiamato altrove - Bologna in particolare, e poi Genova - passando da un premio all’altro; e, ancora, il milanese Aldo Mazza, formatosi a Brera e dotato come pochi nel variare il tono delle sue creazioni, da umoristiche a caricaturali a narrative.


Adolf Hohenstein, Cesare Urtis e Co. Torino (1899 circa). Primo direttore artistico delle Officine Grafiche Ricordi di Milano, Adolf Hohenstein sarà tra gli indiscussi protagonisti della prima aurea stagione della grafica pubblicitaria italiana. Tanto abile nel disegno tradizionale quanto capace di innovazioni audaci, non disdegnerà di servirsi di strumenti nuovi come la fotografia: il suo indimenticabile manifesto per la Tosca deriva da una foto di scena di Sarah Bernhardt.

Franz Laskoff, E & A Mele & C. Cappelli Paglie (1900).


Aleardo Terzi, Mele & C. Napoli (1909-1912).


Aleardo Terzi, Mele & C. Napoli (1913).

Aleardo Villa, E & A Mele & C. Napoli. Guanti (1898 circa).


Franz Laskoff, E & A Mele & C. Napoli Paletots per uomo (1902).

E c’era anche Leopoldo Metlicovitz, prima direttore tecnico addetto alla trasposizione su pietra litografica delle creazioni altrui e poi disegnatore in proprio; paradigmatico nella capacità di adottare registri linguistici diversificati in funzione dell’esigenza comunicativa: dal classicismo, a nudi michelangioleschi, delle immagini celebrative - Inaugurazione del Sempione, 1906; Esposizione internazionale di Torino, 1911 - all’enfasi melodrammatica delle illustrazioni operistiche - vero suo ambito di specializzazione, per manifesti ma anche per avvisi teatrali, libretti, spartiti, riviste e scenografie - al realismo descrittivo delle pubblicità di moda, cui vanno innanzitutto ascritti i numerosi manifesti per i Grandi magazzini Mele di Napoli. Prestigiosa committenza, quest’ultima, cui qualunque storia della grafica pubblicitaria è senz’altro obbligata a rendere omaggio.

Nati nel 1889, sul modello degli empori francesi Lafayette e Bon Marché, per iniziativa dei fratelli Emiddio e Alfonso Mele, i Magazzini napoletani incarnarono, per almeno due decenni, la cultura commerciale più emancipata, vocata all’universalità dell’offerta non meno che a quella della fruizione. Come i tempi sollecitavano, la politica pubblicitaria ne fu subito un ingrediente fondamentale, costruito attraverso la diversificazione degli strumenti - annunci, cartoline, cataloghi, calendari, locandine, manifesti - e dei toni - immagini tradizionali e di fattura artigianale accanto alle invenzioni più audaci e innovative che si potessero allora concepire. Fu alle Officine grafiche Ricordi che i fratelli Mele affidarono - dal 1890 e fino alle soglie della prima guerra mondiale - la pubblicizzazione del settore abbigliamento, commissionando almeno centottanta manifesti che, a posteriori, paiono ancora, senza dubbio alcuno, i più efficaci narratori della Belle époque italiana, tra lussi elitari e democratico progresso.


Leopoldo Metlicovitz, Turandot (1926).

Leopoldo Metlicovitz, Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro Torino 1911 (1911).


Leopoldo Metlicovitz, Esposizione internazionale Milano 1906 (1906).


Gianni Schicchi (1919).

Tutta la squadra Ricordi fu impegnata allora per i Mele; e, insieme ai già citati Villa, Metlicovitz, Laskoff, Terzi, Mazza, Dudovich, anche Achille Beltrame, Pier Luigi Caldanzano, S. De Stefano, Gian Emilio Malerba, Achille Luciano Mauzan, Enrico Sacchetti. E ancora, perché non mancasse alcuno dei più grandi, il livornese Leonetto Cappiello che, tra il 1902 e il 1907, mandò le sue quattro creazioni da Parigi, dove si era stabilito già da qualche anno.


Leopoldo Metlicovitz, E & A Mele & C. Napoli (1909 circa).


Aldo Mazza, E & A Mele & C. Napoli (1908-1910).

Pier Luigi Caldanzano, Mele & C. Napoli (1912-1915)


Emilio Malerba, E & A Mele & C. Napoli (1910).


Leonetto Cappiello, E & A Mele & C. Novità per signora Napoli (1903 circa).

GRAFICA ITALIANA (1850-1950)
GRAFICA ITALIANA (1850-1950)
Marta Mazza
Un dossier dedicato alla grafica italiana dal 1850 al 1950. In sommario: Il modo italiano: primi passi e sviluppi tra accademia e innovazione; Nando Salce: dalla collezione al museo; La rivoluzione Cappiello e la stagione d'oro di Marcello Dudovich; La Grande guerra; Tra le due guerre: agenzie, imprese, riviste, esposizioni; Comunicazione d'azienda; Verso il graphic design. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.