Letture iconologiche
Clizia tra mito e arti visive

L’IMMUTABILE
OLTRE LA TRASFORMAZIONE

La metamorfosi, nel senso ovidiano, ricorre in opere d’arte di ogni tempo. La sua natura è di modificare l’aspetto, non la sostanza. Ed è così che il mito di Clizia diviene, in arte e in letteratura, emblema insieme di mutevolezza e fedeltà amorosa.

Rossana Mugellesi e Stefania Landucci

Le Metamorfosi di Ovidio sono forse l’opera che, più di ogni altra, ha mantenuto vive nel tempo la propria valenza simbolica e le complesse dinamiche della mitologia classica, sia nella letteratura sia nell’arte, ispirando soggetti di dipinti e sculture: a chi se non a Ovidio dobbiamo la bellezza sontuosa e sensuale delle Veneri, delle Europe, delle Danae di Tiziano e Correggio o l’umanizzazione e il dialogo con il mito svolti da Rubens? Con audacia e potenza il poeta latino ha mostrato la transitorietà e lo stato sensibile e mutevole del corpo, la forza scatenante delle passioni e i cambiamenti che queste stesse determinano nell’animo e nel corpo. La metamorfosi può infatti esprimere il carattere fluido dell’identità, l’incertezza e l’imprevedibile del mondo naturale ma al contempo la fissità del carattere cui l’individuo non può sfuggire, quasi una sorta di metafora che, a lungo latente, improvvisamente si manifesta in termini visivi.

Pensiamo al titolo del poema: se “morphé”, ossia “forma”, è ciò che “appare” e, in quanto tale, si distingue dalla sostanza di cui è una delle possibili manifestazioni, allora la “meta-morphosis” non indica un mutamento sostanziale, ma piuttosto un cambiamento nel modo di apparire: ciò che i personaggi diventano attraverso la metamorfosi non è in contraddizione bensì conforme alla loro natura che può manifestarsi in diversi modi, senza che ciò implichi un mutamento di identità(1).

La natura, vegetale e animale, appare protagonista nelle storie narrate da Ovidio laddove intervenga direttamente a sancire l’epilogo - perlopiù drammatico - del racconto, e sono trasformazioni che spesso coinvolgono il lettore e la sua emotività. Qui ne ricordiamo una, tra le più significative, da ricondurre al fenomeno dell’eliotropismo - la capacità delle piante di orientarsi verso il sole, tipica del “girasole” (nome che ne esprime l’attitudine anche in altre lingue: “tournesol”, “sonnenblume”, “sunflower”) -, trasformazione legata alla storia di una ninfa, Clizia, che nel volgersi ha il suo destino e che finirà per trasformarsi appunto in fiore(2).

Il mito ha per protagonisti Apollo e Clizia, rappresentati specularmente, l’uno replica dell’altro, entrambi vittime di una tragica passione, ed entrambi causa di tragiche conclusioni di vicende appassionate, il primo per aver denunciato gli amori segreti di Venere e Marte, la seconda - figlia di Oceano, innamorata di Apollo - per aver rivelato al padre della giovane Leucòtoe che la figlia aveva ceduto alla seduzione di Apollo stesso, delazione che provoca il sacrificio della fanciulla ma anche lo sdegno del dio, che non vorrà più vedere Clizia.


Gustav Klimt, Girasole (1907), Vienna, Belvedere.

Apollo-Sole di sé dice «Io sono colui che dà la misura del lungo anno, colui che vede tutto, grazie al quale la terra vede tutte le cose, l’occhio del mondo» (226-228), e proprio a causa del suo voyeurismo viene punito e costretto a fissare lo sguardo solo sull’oggetto del suo esclusivo desiderio: «Tu che scaldi tutta la terra con le tue vampe, scotti personalmente di un fuoco nuovo; tu che devi vedere ogni cosa, non fai che contemplare Leucòtoe e solo su quella vergine fissi lo sguardo a cui pure tutto il mondo ha diritto» (194-197).

Sorte analoga toccherà a Clizia che, come di riflesso e ormai sul punto di trasformarsi in fiore, duplica lo sguardo ossessivo dell’amato seguendone il corso in cielo, quasi che la sua metamorfosi fosse non solo figurazione del suo comportamento amoroso ma già contemplata - quale presagio e monito? - negli atti dello stesso Apollo.

Ma la narrazione raggiunge l’acme espressiva nel passaggio relativo alla metamorfosi vegetale della ninfa caratterizzata secondo lo schema mitologico della donna abbandonata, disadorna e senza più forze, e animata da profondi contrasti: «Da allora la ninfa, che follemente si era giocata l’amore, cominciò a deperire, incapace di rassegnarsi, e notte e giorno rimase seduta all’aperto sulla nuda terra, con i capelli spogli e spettinati. Per nove giorni, senza toccare né acqua né cibo, digiuna, si nutrì solo di rugiada e di lacrime e mai si staccò da quel posto: non faceva che fissare il volto del dio che passava, seguendo il giro con lo sguardo. Le sue membra, si racconta, finirono con l’aderire al suolo, e per il livido pallore assunto si convertirono in parte in erba esangue; una parte è rossastra, e un fiore viola ricopre il viso. Benché trattenuta dalla radice, essa si volge sempre verso il suo Sole, e anche così trasformata gli serba amore» (259-270).


Evelyn De Morgan, Clizia (1887).


Emilie Flöge in un abito disegnato da Gustav Klimt, a Vienna, nel 1906.

Clizia-eliotropio racchiude in sé forze opposte in perenne lotta: le sue membra immobili aderiscono al suolo, ma il capo è flessibile e rivolto al cielo; la parte inferiore del corpo è pallida ed esangue, quella superiore invece è violacea e infiammata dai turbamenti interiori: infine, anche così trasformata, Clizia mantiene immutato il suo amore. E se è l’ossessione della passione a generare profonde contraddizioni, è il desiderio a inchiodare Clizia alla dura terra e a dare flessibilità alla ninfa-fiore: ecco allora il girasole, manifestazione organica di questo contrasto.

Lo sguardo ammaliato di Clizia rivolto al carro del dio compare in Il regno di Flora di Nicolas Poussin (1631), dipinto ambientato in un giardino mentre Flora danza spargendo una pioggia di fiori alla presenza di nove figure mitologiche trasformate anch’esse in fiore alla loro morte. Lo stesso sguardo e la stessa posizione nella Clizia di Giulio Cartari (1670-1680), che unì una figura antica seduta su un fianco con una scultura di sua mano, un busto nudo di fanciulla con la testa rivolta all’indietro, lo sguardo al cielo, il braccio e la mano sinistra sollevati sulla fronte forse a proteggere gli occhi dal fulgore dell’astro o in atto di sottomissione, mentre le dita della mano destra, poggiata a terra, appaiono sotto forma di radici, chiaro indizio dell’imminente metamorfosi floreale.


Paul Delvaux, L'aurora (1937), Venezia, Collezione Peggy Guggenheim.

La parte inferiore del corpo costituita da un tronco d’albero rugoso e radicato nel terreno, i gesti enigmatici e quasi teatrali, gli sguardi attoniti e fissi


Il tema conoscerà una lunga fortuna anche nella produzione artistica successiva alla ripresa classica rinascimentale(3). Ne abbiamo un esempio nella Clizia di Evelyn De Morgan (1887)(4) e ancora nel Girasole di Gustav Klimt (1907), quasi un piedistallo vegetale disseminato di fiori variopinti che spicca sul mosaico nello sfondo, a cui l’artista conferisce una propria individualità, come commenta Ludwig Havesi: «Un semplice girasole, che Klimt pianta al centro di un rigoglio di fiori, sta davanti a noi come una fata innamorata […]. Il volto del girasole, così misteriosamente cupo nella sua corona di luminosi raggi dorati, ha per il pittore qualcosa di mistico, si potrebbe dire di cosmico. Accadono cose nuove in natura […] non appena interviene Klimt»(5). In Klimt la natura diventa autonoma, quasi umanizzata, al punto da potersi accostare alla figura di Emilie Flöge in una foto del 1907: la rappresentazione di quel fiore nel quadro, bello ma solitario, corrisponderebbe alla relazione, mai ben precisata, tra Klimt ed Emilie, anche lei sola, riservata e ammirata da tutti.


Frida Kahlo, Radici (1943).

In Klimt la natura diventa autonoma, quasi umanizzata, al punto da potersi accostare alla figura di Emilie Flöge in una foto del 1907: la rappresentazione di quel fiore nel quadro, bello ma solitario, corrisponderebbe alla relazione, mai ben precisata, tra Klimt ed Emilie, anche lei sola, riservata e ammirata da tutti.

Donna e metamorfosi sono presenze costanti nella poetica del surrealista Paul Delvaux, dove ricorre una figura femminile bella, verginale e al tempo stesso conturbante e inquieta. Così Peggy Guggenheim commentava L’aurora dell’artista: «Raffigura quattro donne che spuntano dagli alberi e che al posto delle gambe hanno la corteccia. Le donne sono sempre le stesse, poiché il modello di Delvaux era la moglie, che lui adorava. È strano come possa apparire differente secondo i diversi punti di vista». Ci troviamo pertanto di fronte a un modello unico, o variato con poche modifiche, che Delvaux riproduce quasi come un’ossessione, a raccontare i suoi sogni o i suoi desideri. L’immagine rimanda a un erotismo macabro, con una donna idealmente fatta a pezzi nello specchio, un’altra che fugge, il drappo bianco a sinistra che allude forse a un corpo nascosto, come se si trattasse di un delitto. Le quattro donne-albero sono orientate ciascuna in una direzione diversa, quasi a suggerire un senso di solitudine: ritratte nella luce irreale dell’aurora, inserite in un paesaggio di reminiscenza antica, si raccolgono intorno al basamento di una colonna, seminude, silenziose e introspettive, hanno la parte inferiore del corpo costituita da un tronco d’albero rugoso e radicato nel terreno, i gesti sono enigmatici e quasi teatrali, gli sguardi attoniti e fissi, la posa immobile e le braccia come raggelate. In una serie di riflessioni, sarà proprio Delvaux a definire la donna come appartenente al mondo vegetale: donna-fiore, donna-edera, donna-albero(6).


A richiamare il forte legame del tema della metamorfosi arborea con il vissuto e la sensibilità personale segnaliamo infine un’opera di Frida Kahlo che l’artista stessa definì il «miracolo vegetale del paesaggio del mio corpo», Radici, la rappresentazione drammatica del suo desiderio di fertilità: «Un gomito appoggiato su un guanciale, Frida sogna che il suo corpo copra un’ampia superficie di terreno desertico. […] La finestra che si apre sul suo petto non rivela ossa rotte o un utero sterile, bensì il paesaggio desertico che le sta alle spalle. Da questo mistico utero spunta un rampicante verde e flessibile, che si ramifica lussureggiante lungo il terreno desertico. Il sangue di Frida scorre lungo le arterie della pianta e prosegue in rosse vescicole che si estendono come radici striscianti oltre il bordo delle foglie. Frida diventa dunque una sorgente di vita, le cui radici affondano nel riarso suolo messicano»(7).

Eugenio Montale in Portami il girasole (1923) richiama la metamorfosi vegetale di Clizia alludendo all’«ansietà del suo volto giallino» ed evocando la passione d’amore con un «portami il girasole impazzito di luce». E ancora, nella Primavera hitleriana (1939), il poeta torna a legare il mito con la sua vicenda personale in versi struggenti e bellissimi: «Guarda ancora/ in alto, Clizia, è la tua sorte, tu/ che il non mutato amor mutata serbi,/ fino a che il cieco sole che in te porti/ si abbàcini nell’Altro e si distrugga/ in Lui, per tutti». Il riferimento è al suo tormentato rapporto con Irma Brandeis, donna capace di amare senza riserve pur tra innumerevoli difficoltà: forse da parte di Montale Clizia rappresenta la scelta di un mito di trasformazione capace di essere insieme un emblema di fedeltà e il permanere della sostanza oltre la mutevolezza delle forme.

(1) U. Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Milano 2015 (cap. 7 “L’enigma delle forme in movimento”): «Attraverso la metamorfosi, tanto Narciso quanto Eco diventano ciò che già sono: riflesso visivo il primo, risonanza acustica la seconda. Le loro definitive trasformazioni, rispettivamente in un delicato fiore acquatico e in una roccia capace di rimandare il suono di una voce, suggellano un processo in cui il mutamento di forma è funzionale alla conquista della propria vera identità. In questa affascinante rappresentazione delle forme in movimento, un punto centrale dovrebbe essere inteso ancor oggi come un monito. Per essere compiutamente se stessi, è vitale e insostituibile il rapporto, in qualunque modo declinato, con l’altro da sé. Senza metamorfosi, nessuna identità».

(2) Ovidio, Metamorfosi IV 190-270: Clizia è colei che (si) inclina (gr. klitòs) ovvero, secondo la polisemia del verbo greco, colei che si piega, si muta e ha dedizione verso qualcosa. In realtà il fiore in cui Clizia si trasforma era in origine identificato con l’eliotropio o con la calendula, solo più tardi gli artisti optarono per il girasole, giunto dalle Americhe solo nel XVI secolo.

(3) Si pensi, per esempio, al girasole come simbolo dell’estetismo in Oscar Wilde.

(4) Utili osservazioni in J. Devereux, The Making of Women Artists in Victorian England: The Education and Careers of Six Professionals, Jefferson, North Carolina, 2016; E. Lowton Smith, Evelyn Pickering De Morgan and the Allegorical Body, Londra 2002.

(5) A. Weidinger, Klimt Alle origini di un mito, Milano 2014.

(6) Cfr. M. T. Colonna, Il femminile e il vuoto nostalgico, in A.A. V.V., Arcipelago malinconia: scenari e parole dell’interiorità, Roma 2001, pp. 263 sgg.

(7) H. Herrera, Frida. Una biografia di Frida Kahlo, Vicenza 2016, p. 283.

ART E DOSSIER N. 345
ART E DOSSIER N. 345
LUGLIO-AGOSTO 2017
In questo numero: ESSERE AVANGUARDIA Cattelan: Permanent Food; MUVE Contemporaneo; Agit'Art in Senegal; Giacometti e Merleau-Ponty. XVII SECOLO La guerra dei tre Caravaggio; Tiziano nel Seicento Europeo. IN MOSTRA Rosenberg a Parigi, Da Caravaggio a Bernini a Roma, Rinascimento segreto nelle Marche, La Menorà a Roma e in Vaticano. Direttore: Philippe Daverio