Nelle serie dei Paesaggi, Mario Giacomelli (1925-2000) conduce lo sguardo a vedere dall’alto, in volo sulle terre arate, come in una sospensione onirica in bianco e nero. I segni sui campi e sulle colline nelle sue fotografie vengono trasfigurati in simboli luminosi, messaggi rilasciati dalla terra e dai suoi adepti rurali. Quasi in stato di trance, Giacomelli agisce istintivamente come un benandante di matrice contadina, che si lascia andare a una visione estatica: «È bello portare sulla carta fotografica i segni, i simboli purificati, quell’attimo che rende visibile tutto quanto ha turbato la mia anima. Non il senso del progetto, ma l’immaginario nato anche dalla casualità dello stordimento interiore»(1). Il paesaggio per lui è un insieme di quattro forze che pulsano all’unisono: terra, caso, emozione e segno. Il ritorno dello sguardo poetico alla terra, sia geografica sia interiore, è vincolato all’emozione che si crea con il re-incontro e il ritrovamento, o meglio attraverso il contatto profondo con le proprie radici, in un giorno qualsiasi. In questo volo aereo sul paesaggio emergono (e si contemplano anche) i rapporti formali dati dalla costruzione, ovvero dai toni e dai rapporti luministici catturati dal suo occhio, prima nel momento dello scatto e poi nella stampa della carta fotografica in camera oscura.
Giacomelli utilizza il medium del contrasto, accentuando i bianchi e i neri per rendere percepibili le numerose declinazioni dell’emozione che sente a contatto con il paesaggio: «Il contrasto dà una forza maggiore e diversa all’immagine. Così tolgo anche molti grigi per non fare un’immagine per così dire troppo fotografica, ma più dura, più forte, per esprimere, con quel contrasto che accentua il bianco e il nero, quella carica, quella forza appunto che il paesaggio muove dentro di me»(2).