Dentro l'opera


LA SCULTURA
COME GIOCO

di Cristina Baldacci

Un primo piano sulle opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Pino Pascali, Cinque bachi da setola e un bozzolo

Nel marzo del 1968 Pino Pascali (1935-1968) allestì alla galleria L’Attico di Roma cinque lunghi spazzoloni colorati adagiandoli sul pavimento come fossero dei bruchi giganteschi usciti dal “Paese delle Meraviglie” di Carroll. A completamento dell’installazione, nell’angolo dove i “bruchi” allineati uno di fianco all’altro sembravano convergere, imbastì anche una fragile ragnatela di fili, che in contrasto con i colori sgargianti degli spazzoloni era quasi trasparente.

Il titolo dell’opera, ricavato da un fanciullesco gioco di parole, non lasciava dubbi sulla volontà mimetica dell’artista: con Cinque bachi da setola e un bozzolo Pascali voleva rappresentare quelle larve operose che producono la seta e che per un naturale processo metamorfico, tra il meraviglioso e l’ironico, sono destinate a diventare farfalle. Prendendo spunto dalla metamorfosi che avviene in natura Pascali ne realizzò una propria dell’arte, attuando quella commistione tra naturale e artificiale che, in soli quattro anni di attività, tra il 1965 e il 1968 - anno della sua prematura scomparsa dovuta a un grave incidente in motocicletta -, diventò una delle costanti più esplicite del suo lavoro.

In maniera del tutto personale, e forse anche involontaria, questo giovane e irriverente artista-bricoleur ha rivisitato il gesto appropriativo dell’arte concettuale, l’ironia scherzosa e perturbante del surrealismo, l’ingigantimento operato dalla Pop Art sugli oggetti quotidiani, la predilezione per i materiali industriali dei minimalisti; e si è avvicinato alla potenza visionaria di Savinio, alla spensierata giocosità di Manzoni, alla sensibilità per i materiali e lo spazio tipica dei poveristi.

I Bachi da setola, di cui nei mesi successivi alla mostra romana Pascali eseguì altre versioni - anche se è difficile ricostruire esattamente quante perché non ebbe il tempo di numerarle (dopo la sua morte, la mancata numerazione ha tra l’altro creato problemi di attribuzione attorno a questa serie, di cui si presume esistano non pochi falsi) -, sono nati come assemblaggi di oggetti modulari prefabbricati, ovvero le teste in acrilico degli spazzoloni industriali usati per togliere la polvere e togliere le ragnatele dai mobili e dagli angoli di casa. Dopo il titolo, ecco un altro giocoso cortocircuito, non più linguistico-visivo, bensì generato dalla funzione degli oggetti stessi e dall’antitesi natura-artificio: i bachi che di solito tessono ragnatele di fili di seta diventano qui alter ego fittizi che le ragnatele le distruggono.
Così come i futuristi prima di lui, Pascali è alle prese con una “ricostruzione” tassonomico-formale che lo porta a trasformare e storicizzare la natura (l’universo onnicomprensivo di Balla e compagni) attraverso la pratica artistica e l’esperienza artigianale delle arti applicate e tribali. In questo processo, la scultura stessa è messa sotto scacco e ridefinita come linguaggio dell’arte.

Nella loro spiazzante eloquenza i Bachi da setola sono in questo senso delle opere-manifesto della breve ma intensa attività di Pascali. Presentandosi come «allucinazioni senza conseguenze psichiche, stati onirici senza sovrastrutture letterarie o simboliche, metamorfosi senza cambiamenti di stato della materia, […] rimettono in gioco il significato stesso della creatività artistica e della condizione dell’opera d’arte, come se si trattasse realmente di una dimensione impalpabile, indefinibile, immediata, diretta: esse rappresentano il concetto stesso di scultura e di arte come manipolazione istantanea della realtà»(1).
In questa simultaneità tra il pensare e il fare, la finzione e la realtà, il naturale e l’artificiale, non è più chiaro se sia l’artista a prendersi gioco della scultura o se siano le sue sculture/non-sculture a giocare con lui e con chi le guarda. Una cosa però è certa per Pascali: lo scultore “gioca”, così come giocano il bambino, il pittore e chiunque altro sia impegnato in un’attività che gli piace svolgere. Il giocare nel senso più vero del termine è per l’artista non tanto (o non solo) sinonimo di divertimento ma di conoscenza e di superamento sia dei propri limiti, sia di quelli della materia(2).

(1) M. Tonelli, Pino Pascali. Il libero gioco della scultura, Monza 2010, p. 99.

(2) Cfr. P. Pascali in Carla Lonzi, Autoritratto, Milano 2010, p. 147.

ART E DOSSIER N. 344
ART E DOSSIER N. 344
GIUGNO 2017
In questo numero: MOSTRE PER L'ESTATE Hirst a Venezia, Indiana a Lugano, Documenta ad Atene, Giacomelli a Bergamo, Il colore a Rivoli e a Torino. Picasso a Parigi e a Napoli, Sassoferrato a Perugia, Il Colosseo a Roma. Bergamo celebra Baschenis. In ricordo di Kounellis. Direttore: Philippe Daverio