IL PREVARISCO, UN PITTORE,
SACERDOTE, MUSICISTA

Evaristo (Guarisco) Baschenis nasce a Bergamo il 7 dicembre 1617, da Simone, mercante, e Francesca Volpi.

la sua famiglia, originaria di Averara, in alta Val Brembana, vanta una tradizione secolare nel campo dell’attività pittorica. I suoi antenati sono infatti documentati sin dal XV secolo come autori di imprese decorative a Bergamo e provincia, ma anche in Trentino, ove ancora si conservano importanti cicli pittorici (a Pinzolo una ben nota Danza macabra).

La famiglia Baschenis, di cui fanno parte anche i tre fratelli di Evaristo, Bartolomeo, Domenico e Giacomo, risiede in contrada di Prato, nel popoloso borgo San Leonardo, cuore commerciale e artigianale della città bassa. Raccolto intorno all’antica parrocchia di Sant’Alessandro in Colonna, racchiuso nelle mura quattrocentesche (Muraine), sede di importanti fiere e mercati, il quartiere ospita anche le botteghe dei più rinomati pittori attivi in città tra XVI e XVII secolo: da Giovan Paolo Cavagna a Enea Salmeggia, da Francesco Zucco ad Antonio e Pietro Baschenis, da Carlo Ceresa a Bartolomeo Bettera e Domenico Ghislandi (il padre di Fra Galgario).
La casa dei Baschenis si trovava a poche centinaia di metri dalla chiesa della Beata Vergine dello Spasimo (oggi Santa Lucia), futura sede di riferimento di Evaristo allorché nel settembre 1643 deciderà di prendere i voti. Prima di quella data si collocano la morte, causa la pestilenza del 1630, del padre e di due fratelli, e l’apprendistato presso il pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli (1604-1656). Nel 1639, infatti, conclusa con il fratello Bartolomeo la divisione del patrimonio familiare, il ventiduenne Evaristo decide, sulle orme di antenati e parenti, di intraprendere la carriera artistica. Il patto di garzonato (3 luglio 1639) recentemente rinvenuto, è un documento storico prezioso che ben chiarisce a quali condizioni e sulla base di quali accordi i giovani apprendisti pittori si affacciassero alla professione nel XVII secolo. Per quattro anni (1639-1642) senza percepire alcun salario, Evaristo si impegnava a seguire il suo maestro «a imparare l’arte et professione del pittore» «con obligo di farsi le spese del proprio così cibarie come del vestire». Da parte sua Barbelli garantiva «di darli la comodità del dormire in una stanza e di insegnarli fedelmente la sua professione e arte et di far tutto quello che a simil sorte de patroni appartiene e spetta». Attivo tra Crema, Lodi, Milano, Brescia e Bergamo, il cremasco era un prolifico autore di pale d’altare (nel 1639 si trovava appunto a Bergamo per eseguire un’Annunciazione in una chiesa del borgo San Leonardo) nonché un autentico specialista nella decorazione ad affresco sacra e profana; i suoi cicli più noti e spettacolari, in bilico tra tardo manierismo e Barocco, si trovano in Santa Maria delle Grazie a Crema (1641-1643) e nei palazzi Terzi e Moroni a Bergamo, eseguiti intorno alla metà del secolo.
Nei quattro anni del suo apprendistato, arrampicato sui ponteggi dei numerosi cantieri diretti dal suo maestro, Baschenis ebbe modo di apprendere i segreti della difficile tecnica quadraturista, la sofisticata scienza cioè della prospettiva dipinta e dell’illusionismo spaziale capace di porre «in scurto», in spericolati scorci prospettici, ogni genere di figura: architetture, uomini, angeli, santi, animali, oggetti di ogni tipo (compresi gli strumenti musicali).


Natura morta di strumenti musicali (1650 circa); particolare, Venezia, Gallerie dell'Accademia

Stefano Scolari Pianta della città e del territorio di Bergamo (1680); Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai.

Affidata a specialisti del settore quali i bergamaschi Giovan Battista Azzola e Domenico Ghislandi, la decorazione quadraturista - diffusa in Lombardia dai frescanti della scuola bresciana (i fratelli Rosa, Tomaso Sandrini, Ottavio Viviani) - costituiva la componente più spettacolare e suggestiva dell’impresa itinerante diretta da Barbelli. Contestualmente, l’indefesso attivismo del cremasco in terra lombarda consentì al giovane Guarisco di allargare i propri orizzonti e di aggiornare costantemente la propria cultura figurativa sui testi dei maggiori artisti del tempo. Il rientro a Bergamo, nel 1642, coincise con la possibilità per il giovane artista, all’epoca venticinquenne, di incamerare l’eredità lasciatagli dai genitori, indispensabile a costituire il patrimonio ecclesiastico per la promozione al sacerdozio, avvenuta nel settembre del 1643. Sebbene non insolita - basti pensare, restando al Seicento, ai casi ben noti di Bernardo Strozzi, Andrea Pozzo o del Borgognone delle Battaglie (suo intimo amico) -, la condizione di pittore-sacerdote si rivelò non priva di incognite e contraddizioni. Se da un lato procurò infatti a Baschenis indubbi vantaggi sul piano delle relazioni sociali e nei rapporti con la committenza, sia religiosa che laica, dall’altro determinò qualche tensione, sfociata in una citazione presso il tribunale locale, con coloro che nella comunità religiosa gli rimproveravano un impegno superficiale nei suoi doveri ecclesiastici.

“Musica Picta”.
Nascita di un nuovo genere
Sconosciute sono a tutt’oggi le ragioni per cui, nell’avviare l’attività di bottega nel 1644 circa, il ventisettenne prete Guarisco (nei documenti d’ora in poi «Prevarisco») scelse di specializzarsi nella natura morta; un genere estraneo alla produzione del suo maestro, oltre che nella tradizione locale, ma assai fiorente nella vicina Milano con autori quali Ambrogio Figino, Fede Galizia, Panfilo Nuvolone. I primi frutti in questa particolare specialità indicano una piena adesione a quella cultura figurativa di matrice bergamasco-bresciana (da Foppa a Moretto a Moroni sino al Cavagna), fedele al dato ottico e alla presa diretta sull’oggettiva realtà delle cose, che verrà celebrata da Roberto Longhi nella storica mostra su I pittori della realtà in Lombardia allestita a Milano, in Palazzo reale, nel 1953. Risulta infatti evidente che nel mettere a punto la propria lingua pittorica, fondata sullo studio dal vero e su un realismo asciutto e penetrante, Baschenis fece tesoro della grande lezione di Caravaggio, la cui celebre Canestra di frutta poté senz’altro vedere e meditare a Milano, nella Pinacoteca ambrosiana dov’era approdata fin dal 1607 per dono del cardinal Federico Borromeo. Numerose del resto, nel corso della sua carriera d’artista, saranno le occasioni per ulteriori approfondimenti culturali nelle diverse località d’Italia. Contrariamente a quanto ritenuto per lungo tempo dalla critica, secondo cui il pittore avrebbe trascorso l’intera esistenza isolato all’interno delle mura cittadine, Baschenis fu invece artista aggiornato, costantemente in viaggio tra Milano, Venezia e Roma (un soggiorno di due mesi nell’Urbe è documentato nell’autunno del 1650, Anno santo), in stretti rapporti con molti artisti del suo tempo (Andrea Pozzo, il Borgognone delle Battaglie, Ciro Ferri, Johann Cristopher Storer, Giuseppe Tencalla, Monsù Montagna, la Vicenzina ecc.), dedito al commercio delle opere d’arte, collezionista nonché copista di battaglie.


Autoritratto alla spinetta (1665 circa), particolare della tela laterale sinistra del Trittico Agliardi.
Nel celebre Trittico Agliardi il pittore, all’epoca quarantottenne, si autoritrae in abito sacerdotale e alla spinetta (non al cavalletto, come vorrebbe la tradizione) per testimoniare sia il suo status sociale e la sua cultura musicale sia i legami affettivi e intellettuali che lo legavano agli esponenti della nobile famiglia bergamasca.

Caravaggio, Canestra di frutta (1597 circa); Milano, Pinacoteca ambrosiana.


Cesto di mele e rosa (1645 circa).

Natura morta di cucina, (1650 circa).


Natura morta con cesto di mele e melone (1650 circa); Bergamo, Collezione UBI Banca.

Dalla metà del quinto decennio del Seicento, per una trentina d’anni circa, Baschenis si dedicò dunque, in modo pressoché esclusivo, alla produzione di nature morte, nella duplice versione degli interni di cucina e delle composizioni con strumenti musicali. Di quest’ultimo genere il maestro bergamasco deve essere considerato l’inventore nonché l’interprete in assoluto più originale e qualitativo. I suoi calibratissimi allestimenti di strumenti musicali, resi con magistrali scorci prospettici su tavoli impreziositi da tappeti orientali, ambientati in interni silenziosi avvolti dalla penombra, costituivano una novità assoluta e conquistarono rapidamente i favori di una clientela facoltosa, appassionata di musica, pittura e poesia. Lungi dal riproporre la stereotipata formula dello strumento musicale come simbolo del sentimento amoroso o della fugacità dei piaceri terreni (“Vanitas”), le sue composizioni visualizzano, più realisticamente, l’angolo del musicista, colto nella dimensione intima e ovattata che segue la fine di un concerto o di una esercitazione in un interno domestico. Gli strumenti sono adagiati sul piano di posa in una situazione di apparente disordine simulando lo stato di momentaneo abbandono e di «altissimo silenzio» che caratterizza lo studiolo del musicista o la sala da concerto di una dimora privata tra un’esecuzione e l’altra. Di qui la speciale attenzione tributata agli strumenti, che il pittore letteralmente “ritrae” nella loro verità oggettiva, con una maniacale attenzione ai dettagli organologici e alle qualità stereometriche. La fortuna mercantile di tali dipinti, testimoniata anche dal gran numero di imitatori italiani e stranieri che ne perpetueranno la formula ben oltre il XVIII secolo, talvolta falsificando anche la firma del maestro, è attestata oltre che a Bergamo, dove la maggior parte di essi ancora gelosamente si conserva, a Milano, Torino, Roma, Firenze, Mantova, Venezia. Nella città lagunare, in particolare, è documentato un imponente ciclo (disperso) di otto nature morte musicali eseguito da Baschenis per la biblioteca del convento di San Giorgio, commissionatogli dall’abate Francesco Superchi.

Dalla metà del quinto decennio del Seicento, per una trentina d’anni circa, Baschenis si dedicò dunque, in modo pressoché esclusivo, alla produzione di nature morte, nella duplice versione degli interni di cucina e delle composizioni con strumenti musicali. Di quest’ultimo genere il maestro bergamasco deve essere considerato l’inventore nonché l’interprete in assoluto più originale e qualitativo. I suoi calibratissimi allestimenti di strumenti musicali, resi con magistrali scorci prospettici su tavoli impreziositi da tappeti orientali, ambientati in interni silenziosi avvolti dalla penombra, costituivano una novità assoluta e conquistarono rapidamente i favori di una clientela facoltosa, appassionata di musica, pittura e poesia. Lungi dal riproporre la stereotipata formula dello strumento musicale come simbolo del sentimento amoroso o della fugacità dei piaceri terreni (“Vanitas”), le sue composizioni visualizzano, più realisticamente, l’angolo del musicista, colto nella dimensione intima e ovattata che segue la fine di un concerto o di una esercitazione in un interno domestico. Gli strumenti sono adagiati sul piano di posa in una situazione di apparente disordine simulando lo stato di momentaneo abbandono e di «altissimo silenzio» che caratterizza lo studiolo del musicista o la sala da concerto di una dimora privata tra un’esecuzione e l’altra. Di qui la speciale attenzione tributata agli strumenti, che il pittore letteralmente “ritrae” nella loro verità oggettiva, con una maniacale attenzione ai dettagli organologici e alle qualità stereometriche. La fortuna mercantile di tali dipinti, testimoniata anche dal gran numero di imitatori italiani e stranieri che ne perpetueranno la formula ben oltre il XVIII secolo, talvolta falsificando anche la firma del maestro, è attestata oltre che a Bergamo, dove la maggior parte di essi ancora gelosamente si conserva, a Milano, Torino, Roma, Firenze, Mantova, Venezia. Nella città lagunare, in particolare, è documentato un imponente ciclo (disperso) di otto nature morte musicali eseguito da Baschenis per la biblioteca del convento di San Giorgio, commissionatogli dall’abate Francesco Superchi.
La natura morta di soggetto musicale, di cui è stato senz’altro l’inventore, ha alcuni precedenti che possono essere individuati, come indicato da Charles Sterling (1952) e Marco Rosci (1971), nella tradizione italiana quattrocentesca delle tarsie lignee poste a decorare gli studioli degli umanisti e i cori delle chiese. Si tratta in tutti i casi di composizioni estremamente complesse che se da un lato alludono ai raffinati interessi del committente o alla musica celeste, dall’altro esaltano al massimo grado le abilità illusionistiche e prospettiche dell’artista (e dell’intarsiatore) di turno. Liuti, violini, chitarre, flauti e arpe sporgono, come a Urbino o a Monteoliveto, da finti scaffali e pseudomensole con prospettive e scorci straordinariamente acrobatici e precisi in grado di meravigliare l’osservatore più smaliziato. Nel Nord Europa, come indagato da Alberto Veca, lo strumento musicale - oltre che nella pittura sacra e nelle scene di concerto - compare nelle nature morte a sfondo moraleggiante accanto a oggetti allusivi alla “Vanitas” (specchi, candele, orologi, teschi, articoli da fumo) dove la musica è sinonimo di piacere effimero e transitorio, o nelle allegorie dei cinque sensi, come nella celebre tavola (1630 circa) di Lubin Baugin, in cui un liuto è posto a simboleggiare l’udito.
Per Baschenis, musicista egli stesso e possessore - come registrato nel testamento - di un gran numero di chitarre, trombe, bombarde, violini, spinette e liuti, oltre che di libri di musica e spartiti, lo strumento musicale non è mai parte di un insieme eterogeneo né mai si accompagna a indicatori simbolici quali teschi, specchi, candele ecc., bensì è il protagonista assoluto della scena. Le sue composizioni intendono infatti celebrare l’attività musicale in sé, cioè una delle pratiche artistiche più coltivate in ambito sia laico che religioso nonché uno degli intrattenimenti più apprezzati dell’“otium” aristocratico. La verità ritrattistica con cui il pittore restituisce sin nei minimi dettagli i vari aspetti costruttivi e organologici, arrivando a descrivere con assoluta oggettività i monogrammi dei maestri liutai, le corde di budello, le venature e i colori dei legni, gli intagli delle rose, i piroli, le doghe delle casse, le dimensioni e le possibili combinazioni degli strumenti in funzione di un’esecuzione, testimonia un’esigenza di carattere documentaristico che è alla base del successo della formula. Baschenis ritraeva gli strumenti in funzione di una pratica musicale, perché egli stesso li suonava ed era inserito in una realtà musicale assai vivace; anche considerando la sua attività principale di sacerdote, era sicuramente un dilettante evoluto, attento e compartecipe. Nell’ambito della sua produzione a soggetto musicale, sperimentava quindi il proprio vissuto culturale e la propria esperienza di musicista “pratico”. Forse non casualmente nell’unico autoritratto che ci ha lasciato, ha voluto raffigurarsi non mentre dipinge bensì (come un secolo prima le pittrici Lavinia Fontana e Sofonisba Anguissola) mentre suona la spinetta, in un evento di musica profana, in compagnia di alcuni esponenti della nobile e potente famiglia Agliardi. Baschenis è dunque un pittore della realtà musicale e i suoi strumenti appartengono al mondo musicale che lo circonda.
La maggior parte, se non la totalità, dei suoi dipinti, mostra un organico strumentale utile a eseguire una «sonata per ogni sorta d’instromenti», tipica dell’epoca. La Natura morta musicale con mappamondo raffigura un classico esempio di combinazione strumentale italiana del XVII secolo: la mandola o il flauto soprano, che eseguono la parte acuta, accompagnati dal violoncello che suona le note del basso come erano scritte e dal liuto che realizza l’armonia in modo estemporaneo.
La prassi del basso continuo è strettamente associata a tutti i generi di musica del periodo musicale barocco, quindi dall’inizio del XVII secolo fino oltre la metà del secolo successivo. Consiste nell’accompagnamento strumentale che conduce il discorso d’insieme mediante l’elaborazione estemporanea di armonie, seguendo la traccia della parte più grave della partitura. Nato con l’affermarsi della monodia accompagnata, il basso continuo era costituito da una linea melodica che il musicista scriveva in chiave di basso e che faceva da sostegno melodico e armonico a tutta la composizione.


Natura morta di cucina (1670 circa); Milano, Pinacoteca di Brera.

Natura morta di strumenti musicali (1650 circa).

Natura morta di strumenti musicali (1650 circa); Milano, Pinacoteca di Brera.

Fra Giovanni da Verona, tarsia lignea con Strumenti musicali (1515 circa); Asciano (Siena), abbazia di Monteoliveto Maggiore.
La natura morta musicale “inventata” da Baschenis, intesa come composizione di strumenti posti in complessi e acrobatici scorci prospettici, trae origine da una ricca e ben nota tradizione iconografica: dalle tarsie poste a ornamento degli studioli umanistici e dei cori nelle chiese, alle panoplie di strumenti presenti in molte pale d’altare (con allusione alla musica celeste) e nei dipinti dedicati a santa Cecilia, protettrice dei musicisti.

Natura morta di strumenti musicali (1650 circa); Venezia, Gallerie dell'Accademia.


Natura morta di strumenti musicali (1660 circa).

Sul rigo, però, non erano indicati gli accordi o l’armonia da suonare insieme alle note del basso, ma solo alcune indicazioni che davano allo strumentista esperto la possibilità di improvvisare sia le necessarie armonie sia altre parti melodiche. L’esecuzione del continuo era quanto mai variabile: dipendeva dall’organico che a sua volta dipendeva dalla disponibilità degli strumenti o degli strumentisti; dipendeva anche dalla maggiore o minore abilità del “continuista”, più o meno capace di improvvisare armonie e contrappunti. L’esecuzione finale del brano poteva quindi variare moltissimo rispetto alle pure note scritte dal compositore. La pratica variò enormemente a seconda del periodo, del contesto, del genere e dello stile. Veniva abitualmente incluso almeno uno strumento polifonico (come il clavicembalo, l’organo, il liuto, la tiorba, la chitarra o l’arpa) che si abbinava a uno o più strumenti in grado di suonare le note gravi (come il violoncello, il contrabbasso, il violone, la viola da gamba o il fagotto). Le parti acute erano spesso, ma non necessariamente, destinate a strumenti del registro di soprano, come il violino, il flauto, la mandola e così via.
La morte del Prevarisco, sopraggiunta per malattia il 16 marzo 1677 all’età di cinquantanove anni, causò la brusca interruzione di un’attività che stava attraversando il suo momento di massima fortuna, sia critica che commerciale. Il testamento dell’artista, recentemente ritrovato (1996) insieme all’inventario di tutti i suoi beni mobili e immobili, nonché la notizia della messa all’incanto sulla pubblica piazza di Bergamo di tutti i suoi averi, ivi compresi le tele, i pennelli, i colori, i telai, i disegni ecc., testimonia che la bottega cessò immediatamente di esistere e produrre e che il pittore non disponeva evidentemente di collaboratori in grado di proseguire l’attività dell’atelier (nessun aiuto di bottega è menzionato nei documenti e tra gli eredi). D’altra parte, che il pittore, contestualmente impegnato nell’attività sacerdotale, operasse da solo, è dimostrato, a nostro avviso, anche dall’esiguo numero di opere certamente autografe sin qui individuate: una quarantina circa, tutte di qualità altissima, eseguite in poco più di trent’anni di attività.

BASCHENIS
BASCHENIS
Enrico De Pascale e Giorgio Ferraris
La presente pubblicazione è dedicata a Evaristo Baschenis (Bergamo 1617 - Bergamo 1677). In sommario: Il Prevarisco. Un pittore, sacerdote, musicista; Musica e società nell'epoca di Baschenis; Nell'atelier dell'artista; Baschenis nella critica del suo tempo; La cronologia delle opere. Ipotesi e indizi; La Maniera bergamasca; La riscoperta in età moderna. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.