Le Cucine.
Vita attiva e contemplativa
Considerati per molto tempo un prodotto di minore impegno creativo rispetto alle più nobili composizioni musicali, gli interni di cucina sono l’altra faccia della “medaglia” poetica di Baschenis. Marco Rosci per primo ha dimostrato che il metodo operativo del maestro bergamasco, finalizzato alla costruzione di architetture compositive di impeccabile rigore formale e prospettico, si adattava tanto agli strumenti da musica che alle cibarie e alle suppellettili da cucina. Negli esempi migliori, come la
Natura morta con cesta di mele,
meloni, pere e prugne riferibile alla metà degli anni Quaranta, la perspicuità con cui il pittore restituisce i dati ottico-visivi e i valori tattili della merce esposta, è figlia tanto della tradizione realistica lombarda (Moretto, Romanino, Moroni, Cavagna) quanto di quella caravaggesca assimilata al cospetto della
Fiscella milanese. La scena è quella tipica della dispensa di cucina, con la frutta affastellata sulla mensa di pietra, sullo sfondo di un interno buio, senza notazioni di arredo. Un fascio di luce radente di rara potenza investigativa irrompe da sinistra sulla scena sfiorando i frutti, la cesta e il piatto di peltro, esaltandone le qualità plastiche e le caratteristiche materiali: dalla scorza rugosa del melone a quella liscia e “toccata” delle mele, dal calore della cesta di vimini alla buccia bluastra e semiopaca delle prugne. La violenza drammatica delle ombre, specie di quelle portate, trasfigura e quasi spiritualizza l’umile soggetto proiettandolo in una dimensione di metafisica immobilità, forse non priva di implicazioni moraleggianti. Il punto di vista ravvicinato e “rialzato” - quasi un unicum nella produzione del maestro --, chiama in causa, oltre alla Canestra del Merisi e ai “bodegones” iberici (Juan van der Hamen, Alexandro de Loarte) certo presenti nelle collezioni della Lombardia spagnola, le nature morte arcaizzanti di inizio Seicento, da Fede Galizia a Panfilo Nuvolone, che al tempo dominavano il mercato. La perduta tela già in Collezione Treccani di Milano raffigurante una complessa e ricca scena di mercato, con il cliente nell’atto di contrattare con l’ortolana, conferma la varietà dei riferimenti culturali (romani, fiamminghi e spagnoli) del pittore, specie dopo il documentato soggiorno a Roma (1650).
Assodato che alcune Cucine del Prevarisco furono concepite come pendant delle nature morte musicali, Alberto Veca ne ha indagato i significati in un’ottica nuova che ha restituito loro la dignità estetica perduta. In particolare lo studioso ha ipotizzato una sorta di complementarità tra le due tipologie individuando nella Composizione di strumenti il tema della vita contemplativa, dedita al ristoro spirituale tramite la pratica musicale che «eleva e nutre l’anima», e nella Cucina la vita attiva, dedita all’alimentazione e al ristoro del corpo. Un’ipotesi assai suggestiva, con radici in una solida tradizione iconografica, che lo studioso ha compendiato nel noto episodio evangelico di
Cristo che visita la casa di Marta e Maria (celebre la versione di Velázquez, 1620 circa, National Gallery, Londra) in cui l’impegno di Marta (vita attiva) nel cucinare il pasto per l’illustre ospite è messo in contrapposizione con la concentrata attenzione di Maria in ascolto di Cristo (vita contemplativa).
Nella
Natura morta di cucina con la piuma, autentico capolavoro del genere e noto in più versioni, le cibarie sono disposte su più livelli sfruttando sia la mensa di pietra fessurata posta parallelamente alla tela, sia i diversi recipienti: piatti metallici, taglieri cassette di legno, bacili di rame. Congelata in una dimensione di sospesa immobilità, la composizione è impaginata in una compatta «struttura a quadranti» (Rosci) e con una duplice scansione in altezza e in profondità, come in alcuni celebri “bodegones”. In primissimo piano il cadavere illividito di un tacchino spennato con le zampe e il becco sporgenti verso l’osservatore è attorniato da altro uccellame privo di vita, da un tagliere di pesci imperlati di sangue, cipolle, lumache, materie prime della cucina lombarda.
La luce violenta e radente che descrive le figure con «forte e quasi brutale immanenza naturalistica» (F. Frangi) trasforma la scena in un impressionante e drammatico teatro della crudeltà, il cui apice è rappresentato dalle zampe irrigidite del pollo implume al vertice della composizione. Un’analisi dell’opera come variante del tema della “Vanitas”, nel dialogo muto tra l’uccellame privo di vita e la piuma bianca in precario equilibrio sulla parete, simbolo di aleatorietà e caducità, è stata avanzata e approfondita in più riprese da Alberto Veca. Tra i dipinti più apprezzati e commentati del pittore il
Ragazzo con canestra di pane e dolciumi è un fotogramma di eccezionale verità espressiva che celebra la bellezza della vita quotidiana, i suoi doni fragranti, i suoi umili protagonisti. Il dipinto presenta non uno ma due ritratti: quello vigile e lievemente preoccupato del giovinetto colto di tre quarti e con lo sguardo fisso sull’osservatore, quello della cesta di vimini, al centro della scena, ricolma di svariate fogge di pane e dolciumi, alcuni dei quali in precario equilibrio. Il ragazzo ha capelli lunghi fino alle spalle e un incarnato pallido che contrasta col buio dello sfondo. È una delle testimonianze più convincenti del Baschenis ritrattista, qui in evidente sintonia con il concittadino Carlo Ceresa sin nel trattamento degli abiti, modulati sulle varianti del grigio, impreziositi dal candore della camicia e dal rosso corallo delle finiture. Significative tangenze di ordine stilistico ed espressivo sono state recentemente individuate nel
Piccolo mendicante con focaccia ripiena attribuito all’ancora misterioso Maestro della tela jeans. La cesta di vimini, inequivocabilmente lombarda, è superbamente rilevata e minutamente descritta dal fascio di luce che spiove dall’alto denotando da un lato la profonda investigazione compiuta da Baschenis sul prototipo caravaggesco della Pinacoteca ambrosiana, dall’altro la presa di distanza dai coevi modelli dei vari Nuvolone o Vincenzino (Vincenzo Volò).