Grandi mostre. 4
Claude Monet a Basilea

LUCE, OMBRA,RIFLESSIONE

Di fronte ai quadri di Monet dedicati alla natura – sessanta dei quali ora esposti alla Fondation Beyeler – è commovente osservare quanto l’artista francese sia stato capace di coglierne non solo gli elementi più evidenti ma anche i riflessi e i mutamenti impercettibili della luce.

Gloria Fossi

Era collerico, insoddisfatto, di rado considerava finiti i suoi dipinti. Ossessivo, nell’incessante riflessione sulla natura e sulle sue variazioni: riflessione nel più ambivalente senso del termine, come spiega Ulf Küster, curatore della mostra Monet (Riehen, Basilea, Fondation Beyeler, fino al 28 maggio). 

Per riflessione s’intende impressione soggettiva ma anche riverbero della luce; riflesso della mente e riflesso della natura, giochi di ombre. La mostra è di fatto centrata sulla natura (solo tre tele presentano la figura umana) e su un periodo preciso, per quanto ampio, della prolifica attività di Monet (Parigi 1840 - Giverny 1926). Sessanta capolavori da musei e collezioni private documentano i lavori dal 1880, quando la sua avventura impressionista è già in gran parte conclusa, al 1905, quando ormai il tema ricorrente è lo stagno delle ninfee. Dagli anni Ottanta Monet vive un’empatia quasi ipnotica con la natura. Dopo Friedrich, forse solo Turner, prima di lui, era riuscito a esprimere l’indefinibile variazione atmosferica delle nuvole, ma nessuno come Monet ha saputo rendere la staticità impenetrabile dei paesaggi nebbiosi, i movimenti impercettibili dei riflessi e dei tremolii degli alberi e delle nuvole sull’acqua, delle alghe, dei salici piangenti nella foschia mattutina. Niente ci pare più rilassante e meditativo che ammirare le sue opere con la musica liquida, acquatica, ondivaga, di Debussy come sottofondo. Opere che talvolta, se capovolte, assumono la stessa valenza: fate un prova girando la rivista a testa in giù, e guardate Mattino sulla Senna. Monet era di poche parole, conduceva una vita ritmata, dal levar del sole al tramonto. «Quando il sole tramonta, cosa volete che faccia se non andare a dormire», confidò al cineasta Sacha Guitry, che lo immortalò nel 1919 negli unici fotogrammi noti dell’artista al lavoro “en plein air”.


Mattino sulla Senna (1897), Chicago, Art Institute of Chicago.

Riflesso della mente e riflesso della
natura, giochi di ombre


La mostra si apre con quei fotogrammi, proiettati su un piccolo schermo in un’enorme parete bianca. Con l’inconfondibile cappello, l’ampia giacca chiara, la cicca che gli pende dalle labbra e ci si aspetta da un momento all’altro che gli bruci la barba da patriarca, Monet guarda verso lo stagno, poi intinge il pennello nei colori, nell’enorme tavolozza che pare essa stessa una ninfea. Un gatto (o un cagnolino) passa veloce e se la svigna, forse consapevole che l’artista scorbutico ha bandito cani e gatti, potenziali distruttori del suo giardino. 

Comunque, più che con i gatti Monet se la rifaceva con se stesso se i suoi sforzi non producevano gli effetti sperati. Un pronipote lo ha definito ciclotimico (fatto comune a molti altri artisti). Anche se acclamato già in vita come il più grande pittore dell’epoca, Monet era schivo, quasi solitario. Eppure visse oltre quarant’anni circondato da una tribù: due figli avuti dalla prima moglie, morta giovane nel 1879, sei figliastri della seconda compagna, Alice Hoschedé, possessiva all’inverosimile e scorbutica pure lei. Tutti a Giverny lo veneravano e vivevano in funzione dei suoi ritmi. Forse Monet soffriva della sindrome di Balzac, quella che oggi diciamo meteoropatia. Era, la sua, una patologia finalizzata, comprensibile. Per le vibranti impressioni atmosferiche, per i soggetti che mutavano al passar delle ore, Monet aveva bisogno di una “perfetta” situazione meteorologica. Intendiamoci, di volta in volta potevano servirgli la nebbia, o il gelo, e non forzatamente l’intensità dei raggi del sole. Londra, della quale immortalò i ponti di Charing Cross e Waterloo sul Tamigi dal Savoy Hotel e, sull’altra riva, dal Saint Thomas Hospital, gli parve bellissima per la nebbia. Il gelido, memorabile inverno del 1880 a Parigi gli permise di riprendere la Senna ghiacciata al tramonto. Invece a Bordighera, che pure amava come «il paese delle meraviglie», stramaledisse il cielo azzurro e il blu intenso del mare: «Sono troppo, per me […], mi servirebbe una tavolozza di diamanti e pietre preziose».


Ninfee (1916-1919), Riehen (Basilea), Fondation Beyeler.


Tramonto sulla Senna in inverno (1880), Hakone Sengokuhara (Giappone), Pola Museum of Art, Pola Art Foundation.

In norvegese (1887), Parigi, Musée dìOrsay.


Jean-Pierre Hoschedé e Michel Monet in riva all’Epte (1887-1890 circa), Ottawa, National Gallery of Canada.

«Sono troppo, per me,
mi servirebbe una tavolozza
di diamanti e pietre preziose»


Il tempo meteorologico era la sua gioia e la sua disperazione: 

«V’immagino in un Niagara di arcobaleni mentre ve la prendete perfino col sole» gli scrive il politico Georges Clemenceau, suo grande amico. «Avete diritto d’imprecare per il tempo orribile [...] ma è pura follia credere che siccome piove siate finito come pittore», replica Octave Mirbeau, lo scrittore visionario, fra i suoi primi estimatori. Sono centinaia le tele che Monet distrusse: le prendeva a coltellate o le bruciava dopo che la remissiva figliastra Blanche ne aveva staccato un lembo dal supporto. Taciturno, scontroso, «le roi des grincheux» (il re dei brontoloni), un «monstre», come lo definisce Clemenceau, l’unico che riusciva a calmarlo e incoraggiarlo quando era in crisi creativa. Eppure, Monet era ed è ancora considerato «il pittore della felicità», in grado, con le sue infinite, vibranti pennellate di colore (ne sono state contate fino a settantamila per un quadro di piccole dimensioni) di alleviare le pene. Chiunque si sia seduto di fronte alla “grande décoration” delle Ninfee all’Orangerie o del Musée Marmottan a Parigi, oppure, qui a Riehen (Basilea) alla Fondation Beyeler, nella grande sala disegnata da Renzo Piano (con l’immenso Trittico dello stagno che dialoga con il vero stagno oltre la vetrata), sa cosa intendiamo. The «Great Anti-Depressant», il grande “antidepressivo”, come lo ha chiamato un esperto inglese (Philip Hook), voleva creare opere che placassero l’animo. Lo dichiarò lui stesso, più volte. Certo, fu l’artista più carismatico dell’epoca, la mente e il carattere trainante, in tempi giovanili, degli impressionisti, coi quali condivise gli ideali e le prime incomprensioni del pubblico. Rimase amico fraterno di tutti loro. A tutti loro sopravvisse: a Manet, “precursore” degli impressionisti, a Degas e Pissarro più anziani di lui, ma anche a Caillebotte, che lo aveva aiutato nella miseria, e allo sfortunato Bazille, ricco di talento e morto in battaglia a ventinove anni. Monet sopravvisse all’amato Renoir e anche a Rodin, nato due giorni prima di lui. E può far impressione, alla Fondation Beyeler, passare dalle sale della mostra a lui dedicata a quelle della collezione originale (della fondazione), con i Picasso giovanili e i Kandinskji, coevi alla fase più matura di Monet. Un abisso fra il giovane cubista, il Kandinskji astratto e l’anziano maestro? Non come si potrebbe pensare. A Mosca, nel 1896, di fronte alla tela dei Covoni di Monet, il giovane Kandinskji fu come folgorato, per non averne riconosciuto la forma. Iniziava così, per molti versi, l’astrattismo.


Île aux Orties, presso Vernon (1897), New York, Metropolitan Museum of Art.


Charing Cross Bridge, nebbia sul Tamigi (1903), Cambridge, Harvard Art Museums, Fogg Museum.


Theodore Robinson, Monet a Giverny (1890 circa), Chicago, Terra Foundation for American Art.

Monet

a cura di Ulf Küster
Riehen (Basilea), Fondation Beyeler
fino al 28 maggio
orario 10-18, mercoledì 10-20
catalogo Fondation Beyeler-Hatje Cantz
www.fondationbeyeler.ch

ART E DOSSIER N. 343
ART E DOSSIER N. 343
MAGGIO 2017
In questo numero: BIENNALE DI VENEZIA Tutto quel che c'è da vedere con un'intervista alla curatrice, Christine Macel. OTTOCENTO FELIX La Parigi domestica della borghesia. SAVE ITALY Bilancio di secoli di arte venduta. IN MOSTRA Mondrian all'Aja, Modigliani a Genova, Monet a Basilea, Boldini a Roma.Direttore: Philippe Daverio