Attraverso l’abbigliamento femminile al secondo piano, maschile al terzo, in un nugolo sempre più fitto di bronzi, marmi, mosaici, brand e manichini, si arriva all’ultimo ordine minore di arcate. Siamo sostenuti in questa contemplazione da travi reticolari di cemento armato bianco, chiuse da una staffa rovescia all’arrivo delle scale mobili, e siamo pronti per il reparto cosmetici e per la conquista del vero valore di questo edificio: la vista completa di Venezia dalla sommità del tetto.
All’ombra del velario, oppressi dalle travi d’acciaio, viene da pensare alle parole di Manlio Dazzi, curatore del volume edito dal Ministero delle Comunicazioni, Direzione generale delle Poste e Telegrafi (1939-1941), in occasione del restauro precedente: «L’edificio fu preso e tenuto per i capelli»(2). Per un ingegnere mancato, studioso di letteratura, partito volontario nella prima guerra, poi chiamato a dirigere la Biblioteca Querini Stampalia e docente di estetica alla facoltà di architettura, non doveva essere semplice celebrare in quegli anni un alleato potente, la Germania, magnificando le progressive gesta della tecnologia dei telegrafi italiani nel Fondaco dei Tedeschi alle porte di un’altra guerra più disastrosa della prima. Però il nostro si cimenta, cura l’edizione del libro Il Fondaco nostro dei Tedeschi. Manlio Dazzi era amico di Ferdinando Forlati, allora soprintendente, che doveva essere tanto poco convinto del risultato del restauro da non volerne mostrare il progetto nella grande esposizione diretta da Giovannoni per definire il canone idealista del restauro italiano a Roma nel 1938. Dazzi si rifugia in un’ideale presenza del pensiero di Fra’ Giocondo (religioso-architetto) nel progetto cinquecentesco, privilegia questa idea di casa veneziana delle comunicazioni nella presentazione e nella curatela del volume, limitando l’esibizione tecnologica e filotedesca dell’edificio alla presentazione dei disegni tecnici dell’ingegner Gerbino in appendice.
Nell’attuale reazione popolare, è proprio la venezianità del vecchio edificio delle Poste - intesa come casa cinquecentesca di invenzione, così distante dal modello coevo veneziano di palazzo gotico - a essere rimpianta da chi non ama l’effetto simulacro; segno di quanto la ricostruzione idealista sia ancora importante per gli stessi abitanti. Gli ideali fruitori cercano invece il selfie d’effetto sui cieli veneziani, diventando protagonisti del darwinismo della merce, partecipando personalmente e fisicamente della spietata lotta alla merce migliore, con i propri autoritratti georeferenziati sui social network.
Se la Storia diventa Propaganda, la città e gli spazi urbani, da testimoni, ne diventano un simulacro.
Le fortune del progetto del Fondaco dei Tedeschi mostrano che la storia come propaganda ha superato Koolhaas e la sua progettualità, ancora prima della consegna del manufatto. Il progetto è stato sopraffatto dal suo potenziale economico. Molto oltre le aspettative del progettista, il Fondaco dei Tedeschi appare, da un punto di vista estetico, la celebrazione compiaciuta del feticcio della merce. In scena è il corpo a corpo spettacolare fra il monumento e la moneta, mediato dall’innocenza materiale della merce. Strano pensare che moneta e monumento abbiano la stessa radice, derivando entrambi dal latino “moneo” (letteralmente richiamare alla memoria, ricordare). Chissà perché ci appaiono così in contrasto, quando per indicarli usiamo quasi la stessa parola, e chissà perché infastidisce così tanto il feticismo di Venezia, città che ha fondato la sua ricchezza sul traffico di reliquie per secoli. Deve essere tutta colpa del platonismo di Hegel in braghe di tela, o di qualche Marx in canottiera di troppo.