Luoghi da conoscere
Il Fondaco dei Tedeschi a Venezia

UN CORPO A CORPOTRA MONUMENTO
E MONETA

Dopo l’ultimo lungo restauro, firmato da Rem Koolhaas e Jamie Fobert, il Fondaco dei Tedeschi, costruito nel XIII secolo e ricostruito nella sua forma attuale nel Cinquecento, ha riaperto i battenti lo scorso ottobre diventando uno store di lusso.

Irene Guida

Profumo, con leggere note di talco, gelsomino e legno; dietro la grata di bronzo brunito, ai piedi del ponte di Rialto, una luce dorata filtra e ne sostiene nello spazio la scia olfattiva, anche di notte. Come falene, si entra salutati dai commessi sorridenti che aprono le porte in vetro; d’inverno il caldo e il fresco d’estate avvolgono chi entra. Dal Canal Grande la vista è privilegiata, tanto da spingere la Repubblica di Venezia nel Cinquecento, timorosa di perdere il controllo dei mercati fra Oriente e Occidente, al grande gesto di far affrescare la facciata, commissionando il lavoro a Giorgione, e facendo poi costruire da Antonio da Ponte, “proto” al sale, un solo archivolto porticato - al termine di dispute lunghe e numerose - al posto del vecchio ponte in legno con tre sostegni. Invece la facciata prospiciente al ponte di Rialto era stata affrescata da Tiziano, allora meno affermato di Giorgione. Per i tempi fu un’opera magnificente, espressione di potere e di dominio, per nulla decadente; era nato il ponte di Rialto a ridosso del Fondaco dei Tedeschi, punto d’approdo, magazzino e sede dei mercanti tedeschi attivi a Venezia e porta delle merci d’Oriente per l’Europa transalpina. Ora l’edificio appare bianco, per scelta dei restauratori intervenuti negli anni 1937- 1939, mentre era proprietà di Poste italiane, i quali preferirono che gli ultimi frammenti degli affreschi rimasti fossero conservati in diversi musei, come la Ca’ d’oro poco distante, lasciando così il muro privo di qualsiasi ornamento dipinto. La calle che vi arriva da San Giovanni Crisostomo è ora traforata di vetrine di bronzo dorato che ripiegano a terra incorniciando forcole e canotte, sciarpe e spezie, cioccolati e vini, oli e paste.


In tutte le immagini dell’articolo, il Fondaco dei Tedeschi di Venezia. Vista dalla scala mobile verso la corte. La finitura del muro mostra tutte le cuciture e gli interventi del restauro eseguito alla fine degli anni Trenta.

Se la Storia diventa propaganda,
la città e gli spazi urbani, da testimoni,
ne diventano un simulacro


Dopo l’acquisto nel 2008 da parte del gruppo Benetton, il restauro architettonico è stato affidato nel 2009 allo Studio Oma di Rem Koolhaas: un lavoro controverso, più volte modificato, fino all’inaugurazione come centro commerciale lo scorso ottobre. 

La facciata appare direttamente proporzionale alla vastità della corte interna, in quattro ordini decrescenti di arcate. Il pavimento spigato di porfido rosso e marmo bianco riprende il disegno delle grate, fantasma grafico della posizione immaginata da Rem Koolhaas nel 2010 per le scale mobili (cuore dell’intervento) evocative del Fun Palace di Cedric Price (progetto polifunzionale e mai realizzato), bocciate dalla Soprintendenza nel 2013; adesso sembra di essere in un edificio di Philip Johnson sulla Quinta strada a Manhattan. 

Le scale mobili, rivestite di legno per dissimularne il meccanismo, sono rosse come un tappeto solo all’interno, in totale contrasto con il muro scorticato, nudo e pieno di travi e cuciture. Qui, attraverso un grande foro, che per la sua forma appare come un simulacro rovescio e ghignante di finestra termale, le scale mobili permettono al visitatore di contemplare, salendo, un vago spettacolo di merci e timidi possibili compratori, commessi speranzosi, avventori al bar. 

Il lavoro estetico di Oma, terminato in gran parte da Ippolito Pestellini con l’aiuto di C+S, è infine relegato al grande foro del muro, all’insolita esperienza di usare l’ascensore di bronzo dorato, lasciato volutamente vetrato ad altezza occhi, per rendere edotto il visitatore della complicazione strutturale di un edificio sospeso in acqua su travi di cemento; rinunciando a quanto proposto nel progetto iniziale del 2010, ovvero all’ultimo piano trasparente e leggero, alla grande terrazza, allo spazio performativo della corte, di cui le rampe di scale mobili interamente rosse, in parte retrattili, avrebbero occupato il centro disposte in obliquo a diverse altezze. 

Presentando il suo progetto all’Iuav - Istituto universitario di architettura di Venezia nel giugno 2013, Rem Koolhaas definiva il restauro di Oma «un lavoro modesto », descriveva Venezia come una città disabitata e consumata dai turisti, essendo questo consumo diventato la sua unica linfa vitale. Per il progettista, di antico, nel Fondaco non è rimasto che qualche brandello, mentre il resto è cemento della ristrutturazione del ventennio fascista, in condizioni non buone.


La facciata dal Canal Grande.

Gilberto Benetton, imprenditore cosmopolita e nuovo proprietario dell’edificio, racconta il suo Fondaco nell’introduzione della monografia da lui stesso edita per celebrare l’inaugurazione. Candidamente, dichiara che alla fine dei lavori di restauro strutturale, Edizioni srl - nel frattempo diventata pura società immobiliare, non più holding unica di tutto il gruppo - ha deciso di rinunciare alla gestione, preferendo affittare a terzi l’edificio restituito a nuova vita, secondo le promesse e nel rispetto dei tempi(1)

Jamie Fobert, architetto che ha dovuto allestire gli interni per Dfs - società affittuaria specializzata nel retail di lusso aeroportuale in Estremo Oriente -, ha cercato di ricreare lo “spirito” veneziano alla maniera di Carlo Scarpa, liberamente interpretato e non imitato.


La corte interna con il pavimento spigato di porfido rosso e marmo bianco.


Un dettaglio dello store.

(1) G. Benetton, Presentazione, in F. Dal Co, R. Koohlaas, E. Molteni, Il Fondaco dei Tedeschi, Venezia, OMA. Il restauro e il riuso di un monumento veneziano, Milano 2016, pp. 9-12.

Il vero valore di questo edificio:
la vista completa di Venezia
dalla sommità del tetto


Attraverso l’abbigliamento femminile al secondo piano, maschile al terzo, in un nugolo sempre più fitto di bronzi, marmi, mosaici, brand e manichini, si arriva all’ultimo ordine minore di arcate. Siamo sostenuti in questa contemplazione da travi reticolari di cemento armato bianco, chiuse da una staffa rovescia all’arrivo delle scale mobili, e siamo pronti per il reparto cosmetici e per la conquista del vero valore di questo edificio: la vista completa di Venezia dalla sommità del tetto. 

All’ombra del velario, oppressi dalle travi d’acciaio, viene da pensare alle parole di Manlio Dazzi, curatore del volume edito dal Ministero delle Comunicazioni, Direzione generale delle Poste e Telegrafi (1939-1941), in occasione del restauro precedente: «L’edificio fu preso e tenuto per i capelli»(2). Per un ingegnere mancato, studioso di letteratura, partito volontario nella prima guerra, poi chiamato a dirigere la Biblioteca Querini Stampalia e docente di estetica alla facoltà di architettura, non doveva essere semplice celebrare in quegli anni un alleato potente, la Germania, magnificando le progressive gesta della tecnologia dei telegrafi italiani nel Fondaco dei Tedeschi alle porte di un’altra guerra più disastrosa della prima. Però il nostro si cimenta, cura l’edizione del libro Il Fondaco nostro dei Tedeschi. Manlio Dazzi era amico di Ferdinando Forlati, allora soprintendente, che doveva essere tanto poco convinto del risultato del restauro da non volerne mostrare il progetto nella grande esposizione diretta da Giovannoni per definire il canone idealista del restauro italiano a Roma nel 1938. Dazzi si rifugia in un’ideale presenza del pensiero di Fra’ Giocondo (religioso-architetto) nel progetto cinquecentesco, privilegia questa idea di casa veneziana delle comunicazioni nella presentazione e nella curatela del volume, limitando l’esibizione tecnologica e filotedesca dell’edificio alla presentazione dei disegni tecnici dell’ingegner Gerbino in appendice. 

Nell’attuale reazione popolare, è proprio la venezianità del vecchio edificio delle Poste - intesa come casa cinquecentesca di invenzione, così distante dal modello coevo veneziano di palazzo gotico - a essere rimpianta da chi non ama l’effetto simulacro; segno di quanto la ricostruzione idealista sia ancora importante per gli stessi abitanti. Gli ideali fruitori cercano invece il selfie d’effetto sui cieli veneziani, diventando protagonisti del darwinismo della merce, partecipando personalmente e fisicamente della spietata lotta alla merce migliore, con i propri autoritratti georeferenziati sui social network. 

Se la Storia diventa Propaganda, la città e gli spazi urbani, da testimoni, ne diventano un simulacro. 

Le fortune del progetto del Fondaco dei Tedeschi mostrano che la storia come propaganda ha superato Koolhaas e la sua progettualità, ancora prima della consegna del manufatto. Il progetto è stato sopraffatto dal suo potenziale economico. Molto oltre le aspettative del progettista, il Fondaco dei Tedeschi appare, da un punto di vista estetico, la celebrazione compiaciuta del feticcio della merce. In scena è il corpo a corpo spettacolare fra il monumento e la moneta, mediato dall’innocenza materiale della merce. Strano pensare che moneta e monumento abbiano la stessa radice, derivando entrambi dal latino “moneo” (letteralmente richiamare alla memoria, ricordare). Chissà perché ci appaiono così in contrasto, quando per indicarli usiamo quasi la stessa parola, e chissà perché infastidisce così tanto il feticismo di Venezia, città che ha fondato la sua ricchezza sul traffico di reliquie per secoli. Deve essere tutta colpa del platonismo di Hegel in braghe di tela, o di qualche Marx in canottiera di troppo.


Immagine dello store


La scala mobile di accesso ai piani superiori.


La vista di Venezia dal tetto.

(2) Il Fondaco nostro dei Tedeschi, a cura di M. Dazzi, Venezia 1941, p. 42.

ART E DOSSIER N. 343
ART E DOSSIER N. 343
MAGGIO 2017
In questo numero: BIENNALE DI VENEZIA Tutto quel che c'è da vedere con un'intervista alla curatrice, Christine Macel. OTTOCENTO FELIX La Parigi domestica della borghesia. SAVE ITALY Bilancio di secoli di arte venduta. IN MOSTRA Mondrian all'Aja, Modigliani a Genova, Monet a Basilea, Boldini a Roma.Direttore: Philippe Daverio