Da tale rischio era sempre rimasto e continuava a restare dunque immune «questo vecchio pittore, a cui i centoquarantadue quadri e le sessanta acqueforti, che rappresentano la sua produzione durante quarantatre anni, non sono riusciti ad assicurare neppure una modesta agiatezza; questo vecchio pittore, che continua a dipingere con la foga di un debuttante ventenne, non può non meritare tutte le nostre simpatie pel suo entusiasmo di lavoratore instancabile, pel suo continuo sacrificio d’ogni vantaggio materiale ai più nobili ideali dello spirito e pel fascino di un’intelligenza culta, sottile ed aperta ad ogni più ardimentosa ed insolita manifestazione d’arte». Ne costituirà la riprova, proprio in quello stesso anno, il grande capolavoro finale, quella sorta di testamento pittorico rappresentato dalla Toilette del mattino dove la scelta del tema postribolare, che rimandava ai precedenti dipinti provocatori come La sala delle agitate (nel frattempo entrato, in occasione della sua esposizione alla Biennale del 1901 nelle raccolte della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro), si era risolta, per la naturalezza e la straordinaria risoluzione luminosa della composizione, in una felicità narrativa che farà la fortuna del dipinto acquistato nel 1930 da Arturo Toscanini e utilizzato da Luchino Visconti nel 1954 nella realizzazione di una delle scene chiave di Senso, il suo scandaloso film risorgimentale. Concorde invece - sempre nell’occasione della retrospettiva veneziana del 1909 - con Pica, anche nell’apprezzamento per La toilette del mattino, fu Ugo Ojetti il cui interesse per Signorini risaliva agli stessi anni e al medesimo ambito della rivista “Il Marzocco” dove, segnalando la sua presenza all’esposizione per la Festa dell’arte e dei fiori di Firenze del 1896, lo aveva etichettato ancora una volta come il «ribelle», ma anche il «colorista che sa che sia il sole» e il «disegnatore che sa far delle acqueforti con una sobrietà antica». Mentre la presenza alla Biennale veneziana del 1897 era stata l’occasione per segnalare i rapporti con la pittura europea. Infine la scomparsa nel 1901 dell’artista era l’occasione di una serie di interventi che sarebbero confluiti in un più articolato profilo prima comparso nel 1909 sulla rivista “La Lettura” e poi, con alcune varianti, nel popolare Ritratti d'artisti italiani del 1911, ripubblicato nel 1923 e 1948.Rimane indimenticabile la sua rievocazione del personaggio dove l’insistenza sui dettagli mondani, le manie e le stesse notazioni caricaturali si giustificava con la lunga frequentazione: «Fiore all’occhiello, guanti chiari e mazza in mano, un paltò corto e largo color di nocciola con le cuciture doppie e due spacchi sui lati, da fantino inglese, calzoni rimboccati, in capo una tuba lucida per grande travaglio di spazzole e di fiato in bocca un mezzo avana sempre spento per economia, sul naso un po’ camuso gli occhiali a stanga che scendevano sempre più giù negli occhi tanto che salutandovi per via egli vi guardava a scancio e per parlarvi spingeva avanti la faccia e alzava le sopracciglia fino a metà della fronte, una barba bionda e bianca leggera e ricciuta che aperta sul mento accentuava la mascella prominente e ostinata, nell’ampia bocca ogni sorta di denti in ordine sparso, grandi e piccoli, bianchi e gialli, dominati da una “zanna cariatide che chiameremo dente”, come gli diceva Renato Fucini in una delle sue indiavolate lettere da Vinci inedite per forza, un aspetto imbronciato che si schiudeva in un sorriso festosissimo per pochi amici degni e scintillava tutto d’un’arguzia spietata appena poteva contemplare la serena beatitudine d’un imbecille: questo era Telemaco Signorini, e questo è nella memoria di chi l’ha amato e di chi l’ha odiato, indimenticabile».
La sua statura morale e la serietà intransigente del suo impegno venivano fatti derivare dalla dichiarazione di Nino Costa per cui «l’arte è l’emanazione del sentimento individuale nella ricerca della verità». Infatti «questo», proseguiva, «fu anche il vangelo di Telemaco Signorini. Dalla scuola alla vita, l’artista non doveva curarsi d’altro che di mantenere fresca e continua l’intima sorgente del proprio sentimento, la propria ingenuità o almeno la propria sincerità. Solo a questo patto l’opera d’arte è umana e può suscitare la “simpatia” dello spettatore capace perché rivela un’anima, l’anima di chi l’ha creata».
Ne derivava una poetica che aveva privilegiato un sentimento del paesaggio immune dall’intellettualismo degli impressionisti francesi e riferibile all’intensità dell’esperienza individuale e all’amore per i luoghi frequentati, in una geografia che andava oltre i recinti toscani degli altri macchiaioli: «In questo sentimento, in quest’anima che un’opera d’arte deve rivelare, egli paesista includeva anche il sentimento e il carattere del paese rappresentato dall’opera d’arte. Poeta dialettale spesso degno d’essere paragonato al Fucini, sentiva che anche i paesaggi devono, si può dire, essere dipinti in dialetto. Per questo i suoi quadri migliori, quelli in cui la sua pennellata tagliente e la sua pittura sempre più, cogli anni, libera dal lividore del Pissarro e del Monet e degli altri primi impressionisti francesi, raggiungono l’espressione più semplice e più diretta, son proprio quelli dipinti nei paesi in cui egli è tornato più volte e dimorato più a lungo: Firenze, e le colline sopra Firenze, Spezia, Viareggio, Riomaggiore e tutta la riviera toscana, Venezia, la Scozia. Le sue acqueforti del Mercato Vecchio di Firenze sono come la quintessenza di queste sue ricerche».