la consacrazione
di uno spirito ribelle

Dopo che Helen Zimmern, conosciuta a Parigi nel 1885

Attraverso Violet Paget e Enrico Nencioni, gli aveva dedicato un articolo sull’influente “The Art Journal” del 1895, all’interno di una serie iniziata con Morelli e dedicata ai maggiori artisti italiani contemporanei, come Francesco Jerace, Michetti, Dalbono, Sartorio, Bistolfi e Segantini, il definitivo riconoscimento della statura internazionale di Signorini si deve all’aggiornato e autorevole Vittorio Pica, il grande divulgatore dell’impressionismo francese, a lui legato da un’antica amicizia, consolidata dall’«ammirazione per la sua coraggiosa originalità artistica» e da significativi scambi. Per esempio nel 1894 gli aveva inviato il testo della sua conferenza sull’arte giapponese, forse intuendo un interesse che si ritrova nella preziosità calligrafica di certi paesaggi, in particolare le vedute di Settignano.
Dopo un primo intervento nel 1897 in occasione dell’esposizione per la Festa dell’arte e dei fiori a Firenze, dove aveva contrapposto all’istintivo e innocente Fattori un Signorini «cervello critico sottile che nella ricerca ansiosa e nell’analisi appassionata d’ogni più nuova formula pittorica ha serbato a sessant’anni l’odio per ogni sorta di accademia», tracciava su “Emporium”, nel 1898 a ridosso della decisiva presenza dell’artista alla Biennale di Venezia dell’anno precedente, un profilo memorabile: «Non credo che vi sia stato in Italia, in questa metà di secolo, alcun altro artista che abbia combattuto il tradizionalismo accademico, il convenzionale insegnamento ufficiale e le bottegaie abilità dell’arte leziosa e piacente con maggiore costanza, con più completo disinteresse, con più vivace arditezza di Telemaco Signorini.
L’intera esistenza di questo valoroso pittore ed acquafortista toscano, il quale serba ancora, malgrado i suoi sessantatre anni, tutta la baldanza battagliera degli anni giovanili, non è stata infatti che un’assidua aspirazione verso i nuovi orizzonti schiusi alla pittura dell’età moderna, ed una lotta fierissima contro ogni sorta di reazionari dell’arte, per avere ragione sui quali la penna disinvolta ed arguta e la lingua fiorentinamente mordace gli sono spesso servite non meno del pennello sapiente ed audace».
Il limite più evidente, «che, più d’una volta, abbia potuto errare nella pratica e lasciarsi, nella teoria, trascinare in pieno paradosso», veniva attribuito «all’irrequietezza del suo spirito ribelle, non acquietantesi mai in una formula pittorica definita e cercante sempre qualcosa di diverso, a rischio magari di sbagliarsi». Ma proprio questa predisposizione gli aveva anche permesso di non cadere in «quella cifra, che, se a volte forma il successo finanziario di un artista, ne rappresenta pure così di sovente la morte intellettuale». 


Tetti a Riomaggiore (1892-1894); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.

Marina delle Cinque Terre (1895-1896).

Da tale rischio era sempre rimasto e continuava a restare dunque immune «questo vecchio pittore, a cui i centoquarantadue quadri e le sessanta acqueforti, che rappresentano la sua produzione durante quarantatre anni, non sono riusciti ad assicurare neppure una modesta agiatezza; questo vecchio pittore, che continua a dipingere con la foga di un debuttante ventenne, non può non meritare tutte le nostre simpatie pel suo entusiasmo di lavoratore instancabile, pel suo continuo sacrificio d’ogni vantaggio materiale ai più nobili ideali dello spirito e pel fascino di un’intelligenza culta, sottile ed aperta ad ogni più ardimentosa ed insolita manifestazione d’arte». Ne costituirà la riprova, proprio in quello stesso anno, il grande capolavoro finale, quella sorta di testamento pittorico rappresentato dalla Toilette del mattino dove la scelta del tema postribolare, che rimandava ai precedenti dipinti provocatori come La sala delle agitate (nel frattempo entrato, in occasione della sua esposizione alla Biennale del 1901 nelle raccolte della Galleria internazionale d’arte moderna di Ca’ Pesaro), si era risolta, per la naturalezza e la straordinaria risoluzione luminosa della composizione, in una felicità narrativa che farà la fortuna del dipinto acquistato nel 1930 da Arturo Toscanini e utilizzato da Luchino Visconti nel 1954 nella realizzazione di una delle scene chiave di Senso, il suo scandaloso film risorgimentale. Concorde invece - sempre nell’occasione della retrospettiva veneziana del 1909 - con Pica, anche nell’apprezzamento per La toilette del mattino, fu Ugo Ojetti il cui interesse per Signorini risaliva agli stessi anni e al medesimo ambito della rivista “Il Marzocco” dove, segnalando la sua presenza all’esposizione per la Festa dell’arte e dei fiori di Firenze del 1896, lo aveva etichettato ancora una volta come il «ribelle», ma anche il «colorista che sa che sia il sole» e il «disegnatore che sa far delle acqueforti con una sobrietà antica». Mentre la presenza alla Biennale veneziana del 1897 era stata l’occasione per segnalare i rapporti con la pittura europea. Infine la scomparsa nel 1901 dell’artista era l’occasione di una serie di interventi che sarebbero confluiti in un più articolato profilo prima comparso nel 1909 sulla rivista “La Lettura” e poi, con alcune varianti, nel popolare Ritratti d'artisti italiani del 1911, ripubblicato nel 1923 e 1948.Rimane indimenticabile la sua rievocazione del personaggio dove l’insistenza sui dettagli mondani, le manie e le stesse notazioni caricaturali si giustificava con la lunga frequentazione: «Fiore all’occhiello, guanti chiari e mazza in mano, un paltò corto e largo color di nocciola con le cuciture doppie e due spacchi sui lati, da fantino inglese, calzoni rimboccati, in capo una tuba lucida per grande travaglio di spazzole e di fiato in bocca un mezzo avana sempre spento per economia, sul naso un po’ camuso gli occhiali a stanga che scendevano sempre più giù negli occhi tanto che salutandovi per via egli vi guardava a scancio e per parlarvi spingeva avanti la faccia e alzava le sopracciglia fino a metà della fronte, una barba bionda e bianca leggera e ricciuta che aperta sul mento accentuava la mascella prominente e ostinata, nell’ampia bocca ogni sorta di denti in ordine sparso, grandi e piccoli, bianchi e gialli, dominati da una “zanna cariatide che chiameremo dente”, come gli diceva Renato Fucini in una delle sue indiavolate lettere da Vinci inedite per forza, un aspetto imbronciato che si schiudeva in un sorriso festosissimo per pochi amici degni e scintillava tutto d’un’arguzia spietata appena poteva contemplare la serena beatitudine d’un imbecille: questo era Telemaco Signorini, e questo è nella memoria di chi l’ha amato e di chi l’ha odiato, indimenticabile».
La sua statura morale e la serietà intransigente del suo impegno venivano fatti derivare dalla dichiarazione di Nino Costa per cui «l’arte è l’emanazione del sentimento individuale nella ricerca della verità». Infatti «questo», proseguiva, «fu anche il vangelo di Telemaco Signorini. Dalla scuola alla vita, l’artista non doveva curarsi d’altro che di mantenere fresca e continua l’intima sorgente del proprio sentimento, la propria ingenuità o almeno la propria sincerità. Solo a questo patto l’opera d’arte è umana e può suscitare la “simpatia” dello spettatore capace perché rivela un’anima, l’anima di chi l’ha creata».
Ne derivava una poetica che aveva privilegiato un sentimento del paesaggio immune dall’intellettualismo degli impressionisti francesi e riferibile all’intensità dell’esperienza individuale e all’amore per i luoghi frequentati, in una geografia che andava oltre i recinti toscani degli altri macchiaioli: «In questo sentimento, in quest’anima che un’opera d’arte deve rivelare, egli paesista includeva anche il sentimento e il carattere del paese rappresentato dall’opera d’arte. Poeta dialettale spesso degno d’essere paragonato al Fucini, sentiva che anche i paesaggi devono, si può dire, essere dipinti in dialetto. Per questo i suoi quadri migliori, quelli in cui la sua pennellata tagliente e la sua pittura sempre più, cogli anni, libera dal lividore del Pissarro e del Monet e degli altri primi impressionisti francesi, raggiungono l’espressione più semplice e più diretta, son proprio quelli dipinti nei paesi in cui egli è tornato più volte e dimorato più a lungo: Firenze, e le colline sopra Firenze, Spezia, Viareggio, Riomaggiore e tutta la riviera toscana, Venezia, la Scozia. Le sue acqueforti del Mercato Vecchio di Firenze sono come la quintessenza di queste sue ricerche».


Dal santuario di Riomaggiore (1890).
Signorini, rifugiatosi negli ultimi anni all’Elba e nelle Cinque Terre, a Riomaggiore ritrovava, a contatto con una natura solare e ancora incontaminata, nuove fonti di ispirazione. Attraverso un ardito taglio panoramico, che ricorda la pittura impressionista e le stampe giapponesi, l’immagine del mare evocato in lontananza assume una dimensione struggente, quasi onirica.

Vegetazione ligure a Riomaggiore (1894 circa); Genova, Raccolte Frugone, Villa Grimaldi Fassio.

La toilette del mattino (1898 circa).

SIGNORINI
SIGNORINI
Fernando Mazzocca
La presente pubblicazione è dedicata a Telemaco Signorini (Firenze, 18 agosto 1835 - Firenze, 10 febbraio 1901). In sommario: Uno scrittore mancato; La rivoluzione della macchia; Il grande realismo di denuncia della condizione umana; Il sentimento della natura. Ritorno alla pittura en plein air; La fortuna delle vedute urbane tra Edimburgo e Firenze; La natura come rifugio tra Settignano e Riomaggiore; La consacrazione di uno spirito ribelle. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.