CATALOGHI E LIBRI

APRILE 2017

ARTE E SFERA PUBBLICA

Nel Medioevo l’arte parlava a tutti, non sempre oggi. Eppure è all’arte, alla cultura, alle tradizioni filosofiche, scientifiche e religiose europee che possiamo guardare per immaginare orizzonti evolutivi futuri. Il nuovo, amplissimo libro di Dantini sta già suscitando dibattiti sulla carta stampata e sul web. La storia dell’arte non è solo conoscenza minuta, sostiene, ancella del collezionismo; al contrario, l’interpretazione delle opere può aiutare a ricostruire il senso di comune appartenenza, nazionale e cosmopolita. Con la rilettura di studiosi come Panofsky, Warburg, Longhi, Baxandall e di artisti come Duchamp, Le Corbusier, Manzoni, Dantini ci conduce nel tema delle “humanities”, messe in crisi anche dai social che peraltro l’autore, tutt’altro che estraneo ai media della contemporaneità, domina perfettamente. Semplificando, il libro è almeno in parte una critica allo specialismo deteriore; non una critica alla specialistica tout court, bensì alla specialistica nella sua forma attuale, consolidatasi nel dopoguerra. In particolare, la separazione tra Antico e Moderno degli studi attuali ha origini in parte riconducibili alla dispersione post 1933 della comunità intellettuale tedesca ed ebraico- tedesca e all’adattamento degli studiosi espatriati al nuovo contesto accademico angloamericano. La biografia intellettuale di Panofsky, ricostruita nel primo capitolo del libro, ne è prova eloquente. Tale separazione è conseguente alla più ingente “translatio studii” dell’epoca moderna (un’altra diaspora di cervelli, perlomeno italiani, è in atto in questi anni, e non più a causa di eventi bellici o problemi razziali). La diaspora che portò altrove intellettuali e studiosi, soprattutto ebrei, non giovò agli studi antiquari né alla critica militante, privati di necessità critico-culturale, indipendenza e memoria. Sotto punti di vista inediti, radicati nella cultura europea tra le due guerre, il libro affronta l’idea di cittadinanza e «nazione culturale » e della loro “impasse” riflessa nella conoscenza scientifica, nelle politiche culturali, nella definizione di ciò che oggi chiamiamo “patrimonio”.

Michele Dantini Donzelli, Roma 2016 412 pp., 20 tavv. f.t. colore € 37

ILARIA MAIOR

Quanti misteri dietro le soavi sembianze d’Ilaria del Carretto, immortalate da Jacopo della Quercia per il cenotafio del duomo di Lucca (oggi in sacrestia, ma già nel transetto destro, discosto dal muro come dimostra Paoli)! Le sue vicende e le alterne fortune sono rese note diffusamente dall’autore, dopo anni d’indagini. Il libro è rigoroso ma darà piacere anche a chi non ha studiato il tema. Per incuriosire i lettori, che potranno leggerlo come un giallo, anticipiamo alcuni dati: la bella Ilaria, sposa del duca Paolo Guinigi, inviso ai lucchesi suoi sudditi, morì per i postumi di un parto l’8 dicembre 1405. Jacopo affrontò l’opera in marmo, di stupefacente naturalismo e con precoci elementi classicheggianti, sulla maschera funebre. Il monumento subì menomazioni e spostamenti, anche se non una vera “damnatio memoriae”, dopo la destituzione del marito di Ilaria, nel 1430. Paoli racconta e indaga su tutto, e ci appassiona. Splendide le illustrazioni.


Marco Paoli Maria Pacini Fazzi, Lucca 2016 98 pp., 52 ill. colore e b.n € 35

BILL VIOLA

Non è la prima volta che in Italia si approfondisce il discorso su Bill Viola, pioniere statunitense della videoarte, in particolare a Firenze, in luoghi come Galleria dell’Accademia, Uffizi, Palazzo Strozzi. Con la Toscana, l’Italia, i maestri del passato, Viola, d’origini italiane, ha un legame forte, almeno dal 1974 quando, a ventitre anni, collaborò a Firenze come cameraman all’intrepida impresa di Maria Gloria Bicocchi, art/tapes/22, fondata un anno prima. Chi frequentò via Ricasoli e art/tapes/22 in quelle poche manciate d’anni non può dimenticare l’esaltante, libera, aperta fucina d’idee, scambi, emozioni. Certo non l’ha dimenticato Viola, che ha continuato a venire, perfino frequentando, anni addietro, il laboratorio di restauro della Visitazione del Pontormo, capolavoro manierista che l’ha ispirato, com’è noto, per The Greeting (1995, con schermi al plasma). Pontormo gli servì come faro, una guida «to make something new». Il libro, che è anche il catalogo della mostra di Palazzo Strozzi (Bill Viola. Rinascimento elettronico, fino al 23 luglio), trae il sottotitolo da un’espressione di Bicocchi: «Pittore elettronico ». Non ci sono sintagmi più adatti - Rinascimento, arte, pittura, elettronica - per definire diverse opere realizzate da Viola sempre con mezzi tecnologici impeccabili e sempre all’avanguardia, che il libro rievoca con saggi, interviste, fotografie, “dialoghi” con Masolino, Paolo Uccello, Pontormo e altri. Qualche tempo dopo l’esperienza fiorentina, come lui stesso racconta, Viola rimase a Siena per un mese, come cameraman per un documentario. Non capiva i maestri del Trecento della Pinacoteca, ma s’imponeva di stare lì, a osservarli. Oggi sono tra gli artisti che ama di più, la sua più grande fonte d’ispirazione. L’inconscio li digeriva, la parte conscia li rifiutava. A livello conscio, però, come ancora si legge nel libro, la svolta giunse nel 1984, a Madrid. Al Prado Viola ebbe la “rivelazione” sul rapporto fra arte e contenuto, sul fatto che i maestri del passato si concentrano sul contenuto, forma e tecnica sono al servizio. Nonostante le tecniche più sofisticate, Viola sembra voler dire che anche per lui è così.


A cura di Arturo Galansino e Kira Perov Giunti, Firenze 2017 242 pp., 142 ill. colore e b.n. € 35

IL MISTERO DELLE NINFEE

Era nato a Parigi, si era formato nelle nebbie del Nord, a Le Havre, poi era tornato a Parigi e infine si era trasferito a Giverny, dove coltivò il famoso giardino con le ninfee. Aveva l’occhio assoluto, dicevano di Monet gli amici. Anche i denigratori dell’impressionismo ammettevano che pittori come lui avevano un occhio diverso, la vista difettosa di pazzi e isterici. «Ritagliate pezzetti di cielo e li gettate in faccia. Niente sarebbe così stupido come dirvi grazie: non si ringrazia un raggio di sole», gli scrisse ammirato nel 1899 l’amico Clemenceau. «Perbacco, Monet è l’occhio», diceva Cézanne. Si crede di saper tutto di Monet, dei suoi covoni, delle cattedrali gotiche che mutano a seconda dell’ora, dei paesaggi e soprattutto delle ninfee. In attesa di render conto, nel prossimo numero di “Art e Dossier”, dei nuovi punti di vista sulla sua pittura emersi dalla grande mostra di Basilea, consigliamo la lettura di Ross King: che, a dispetto del titolo, non parla solo dei monumentali dipinti ai quali il pittore dedicò decenni, in modo ossessivo, quasi nevrotico. Questo libro per tutti, assai documentato, è una splendida ricostruzione storica a tutto campo, dettagliata, piacevolissima. È noto che a Giverny (dimora prediletta dal 1883 fino al 1926, anno della morte) Monet distrusse decine, forse centinaia di tele che non gli piacevano, le bruciò, perfino accoltellò, sotto gli occhi ormai non più increduli degli amici e le amorevoli, pazienti cure dei famigliari, in specie della seconda moglie Alice e poi della figliastra Blanche. Irascibile, depressivo, maniacale nella sua incessante ricerca sulla luce e i suoi riflessi, Monet fu povero e denigrato, poi ricco e venerato come il più grande pittore dell’epoca, ma non riuscì a veder installate le sue gigantesche tele delle Ninfee all’Orangerie. Se c’è un mistero, nelle ninfee ancorate nel fango, con i fiori galleggianti su acque stagnanti, lo si capisce via via con la lettura e alla fine, possiamo anche svelarlo, giacché il libro non è una fiction: la ninfea è la poesia dell’universo femminile.


Ross King Rizzoli, Milano 2016 464 pp., ill. colore e b.n. € 24; ebook 9,99

ART E DOSSIER N. 342
ART E DOSSIER N. 342
APRILE 2017
In questo numero: ARTE E SOCIETA' L'affaire Dreyfus e la satira; Il museo fittizio di Broodthaers; Antigone: la pietas e il potere. IN MOSTRA Merz a New York, Haring a Milano, Oppenheim a Lugano, Winogrand/Lindbergh a Düsseldorf, Manet a Milano, Bosch a Venezia.Direttore: Philippe Daverio