Grandi mostre. 2
Keith Haring a Milano

ATTIVISTA,
UTOPISTA,
UMANISTA

Tra i numerosi spunti di riflessione offerti dalla mostra di Haring a Milano, emerge il suo rapporto con la tradizione artistica, rivelatore di un intento di ricollocare l’uomo al centro del lavoro creativo. Ce ne parla qui il curatore.

Gianni Mercurio

Questa mostra pone l’accento su aspetti importanti dell’estetica di Keith Haring, artista eclettico fortemente ancorato alle dinamiche sociali e linguistiche del suo tempo, il cui lavoro è stato letto soprattutto come espressione di una controcultura socialmente e politicamente impegnata su temi inerenti droga, razzismo, Aids, minaccia nucleare, alienazione giovanile, discriminazione delle minoranze, arroganza del potere. Seppure legato alla cultura giovanile e all’hip hop, Haring ha molto guardato alla storia dell’arte, confrontandosi con le tematiche e il linguaggio dei grandi maestri del passato. Li ha profondamente ammirati, ma non per questo ha avvertito nella loro lezione dei vincoli da rispettare.

Per quanto Haring si sia dunque espresso in maniera chiara sul suo sentirsi «una parte necessaria di un’importante ricerca che non ha fine»(1), buona parte della critica ha preferito insistere sull’aspetto sociale e politico del suo lavoro. Seppure motivata da fatti concreti ed evidenti, quest’attitudine a non dare il giusto peso al rapporto che Haring ha avuto con l’arte del passato ha portato a porre l’enfasi sulla sua figura di “attivista globale”.

Haring in realtà non è stato un artista che ha cercato di prendere le distanze dall’arte storicizzata: al contrario, si è mosso consapevolmente nel solco della tradizione, senza mai concentrarsi su una corrente specifica per guardare invece all’arte nella sua complessità.

Come altri artisti a lui contemporanei nel decennio che vede l’ascesa del postmoderno Haring ha elaborato un’estetica che tiene conto delle tante forme espressive della sua generazione. Musica, danza, teatro, letteratura e poesia hanno esercitato una forte influenza sia sulle sue scelte formali, sia sul modo di rapportarsi al linguaggio della pittura.


Haring è un umanista: indaga la condizione umana, afferma la centralità dell’individuo in un mondo che tende invece a sostituire la sua presenza con le macchine


L’arte di Haring abbraccia le istanze della nascente globalizzazione, che interpreta compiendo una sintesi narrativa di archetipi e icone della tradizione classica. Nei suoi dipinti e nelle sculture ritroviamo infatti frammenti di arte tribale e di cultura etnografica che interagiscono con un immaginario gotico e con l’universo del fumetto. Negli ultimi anni, poco prima di morire, sperimenta inoltre l’impiego di Paintbox, un software che gli permette di creare immagini al computer.


Nel suo modo di relazionarsi alla storia dell’arte, Haring non ha messo in discussione la forma originaria. Non ha inteso reinventare grandi autori del passato, come aveva fatto Picasso con Velázquez, Delacroix o Rembrandt, né si è posto nel solco di un “eterno ritorno” come de Chirico. A differenza dei suoi contemporanei, poi, non ha puntato sulla citazione per farne metalinguaggio. Diversamente da Giulio Paolini o Richard Prince, non ha caricato l’opera di significati che ne vincolassero la lettura: come Cindy Sherman, lasciava invece che il suo lavoro fosse aperto a interpretazioni diverse.

«Dipingo immagini che sono il risultato delle mie esplorazioni personali», scrive, «lascio ad altri il compito di decifrarle, di capirne i simbolismi e le implicazioni. Io sono solo il tramite. Raccolgo informazioni, o ricevo informazioni che provengono da altre fonti. Traduco queste informazioni in una forma visibile attraverso l’uso di immagini e oggetti. A questo punto ho svolto il mio compito. È responsabilità dello spettatore o dell’interprete che riceve le mie informazioni farsi le proprie idee e interpretazioni al riguardo(2).


Untitled (Figure with a Hole) (1981), Salisburgo, Museum der Moderne.

La tendenza a confrontarsi con l’arte del passato è un filo rosso che accomuna l’opera di molti artisti di ieri e di oggi. I romani ripresero la scultura greca, il Rinascimento si ripropose di rifondare il linguaggio classico, i manieristi si rifecero dichiaratamente a Michelangelo e Raffaello. Raffaello aveva guardato a sua volta al Perugino. Nella sua Vocazione di san Matteo, Caravaggio cita nel braccio teso di Cristo il braccio di Adamo nella Creazione di Michelangelo della Volta sistina. E poi ancora, Velázquez cita Tiziano e Jan van Eyck: e lo stesso Velázquez è stato a sua volta ripreso da Picasso e Bacon i quali, sulla scia della svolta effettuata da Van Gogh nell’arte della citazione con le copie delle stampe di Hiroshige, non vedevano nelle opere dei grandi maestri del passato un modello da imitare ma un esempio di cui evocare la potenza espressiva. Con Van Gogh l’opera d’arte del passato diviene un prototipo da reinventare traducendolo in un nuovo linguaggio. Le avanguardie del primo Novecento si muovono nella scia di teorie moderniste, Duchamp dipinge i baffi alla Gioconda, Picasso reinterpreta le Femmes d’Alger di Delacroix, Las meninas di Velázquez e il Déjeuner sur l’herbe di Manet. «In fondo che cos’è un pittore?», scriveva Picasso, «È un collezionista che si crea una propria raccolta riproducendo dipinti che gli sono piaciuti in casa d’altri. È così che comincio, poi la cosa si trasforma in qualcos’altro»(3).


Il passaggio dalla ripetizione all’appropriazione avviene con la Pop Art e in particolare con Roy Lichtenstein, col quale Keith Haring, sul tema della rilettura della storia dell’arte, presenta non poche affinità. Per altri artisti pop, in generale, la citazione è spesso frutto di incontri occasionali e si limita perlopiù a episodi circoscritti; sin dai primi anni Sessanta, Warhol e Wesselmann, come Rauschenberg o Rivers, danno prova di considerare la storia dell’arte una sorta di serbatoio d’immagini “belle e pronte”, da utilizzare all’occorrenza inserendole nella scena del quadro. Roy Lichtenstein, riprendendo un’immagine realizzata da altri e facendola propria, ha introdotto invece nell’arte il concetto di appropriazione, liberando così la figura dell’artista dalla retorica che vedeva in lui una sorta di “creatore”.

Lichtenstein, che Haring stimava ed ebbe modo di frequentare, contestava ogni interpretazione dogmatica del valore della pittura. Affrontò per questo motivo immagini di provenienza cubista, espressionista, futurista, espressionista astratta e minimalista, ma guardò anche all’arte classica, all’impressionismo, a Van Gogh, Modigliani, Picasso, all’arte dei nativi d’America, al paesaggismo nella pittura cinese e giapponese.





Untitled (11 giugno 1984).


Red, Yellow, and Blue # 7 (1987).

Il metodo di Keith Haring, come si è detto, presenta molte analogie con quello di Lichtenstein, dal quale però si differenzia per il fatto che le sue fonti difficilmente sono evidenti. Contrariamente a Lichtenstein, che manteneva la riconoscibilità della fonte, ma si proponeva di sottrarre ogni dimensione emotiva alla riproposizione dei soggetti presi a prestito dall’arte del passato, Haring occultava la fonte di riferimento per farne emergere l’“umore”. Il suo approccio alla storia dell’arte, tutt’altro che razionale come in Lichtenstein, era in un certo qual modo utopistico, perché connesso all’idea che non ci fosse nulla nell’arte che fosse legato a un tempo specifico. Per lui tutto viveva simultaneamente: non c’era nulla dunque che non meritasse di essere rivissuto. Ma poiché, col passare del tempo, pur se non cambia l’uomo, cambia il suo contesto di appartenenza, ecco che l’unico modo per affermare l’attualità di ciò che è stato è dare immagine a un sentimento con un linguaggio aderente a quello che si suole chiamare “spirito del tempo”.

Haring è un umanista: indaga la condizione umana, afferma la centralità dell’individuo in un mondo che tende invece a sostituire la sua presenza con le macchine. I suoi dipinti, i disegni e le sculture sono in tal senso tracce di una visione antropocentrica che egli non manca di rimarcare nei suoi Diari e nelle interviste: «L’esperienza umana è fondamentalmente irrazionale», afferma. «Io penso che l’artista contemporaneo abbia una responsabilità verso l’umanità. Deve continuare la sua celebrazione; deve opporsi alla disumanizzazione della nostra cultura»(4).

Keith Haring. About Art

a cura di Gianni Mercurio
fino al 18 giugno
Milano, Palazzo reale
orario 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30
giovedì e sabato 9.30-22.30
catalogo Giunti Arte mostre musei / 24 Ore Cultura
www.mostraharing.it; www.palazzorealemilano.it

ART E DOSSIER N. 342
ART E DOSSIER N. 342
APRILE 2017
In questo numero: ARTE E SOCIETA' L'affaire Dreyfus e la satira; Il museo fittizio di Broodthaers; Antigone: la pietas e il potere. IN MOSTRA Merz a New York, Haring a Milano, Oppenheim a Lugano, Winogrand/Lindbergh a Düsseldorf, Manet a Milano, Bosch a Venezia.Direttore: Philippe Daverio