Grandi mostre. 1 
Marisa Merz a New York

RIDISEGNARE
IL TEMPO

Unico esponente femminile dell’Arte povera, Marisa Merz, cinquant’anni di carriera, ha sempre giocato un ruolo originale rispetto al movimento. Le sue opere, difficilmente interpretabili in modo esclusivo e frutto di un processo in continuo divenire, sono ora al centro della prima retrospettiva americana in corso al Met Breuer.

Elisa Fulco

Marisa Merz ha il tempo dalla sua parte. A novant’anni l’artista torinese (1926) approda per la prima volta nei musei americani, con una grande retrospettiva che celebra l’originalità e l’autonomia della sua ricerca. Con cinquant’anni di carriera alle spalle, portati con leggerezza, Marisa Merz si è sempre scrollata di dosso etichette e catalogazioni che spesso hanno impedito una corretta lettura della sua opera, la cui enigmaticità e poeticità non si presta a interpretazioni definitive. In corso al Met Breuer di New York (fino al 7 maggio) e in arrivo all’Hammer Museum di Los Angeles (dal 4 giugno al 4 settembre), la mostra dal titolo Marisa Merz: The Sky Is a Great Space è realizzata in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino, che, per l’occasione, ha prestato opere inedite, contribuendo alla stesura della più completa biobibliografia dell’artista. L’esposizione racconta cinquant’anni di attività attraverso un centinaio di opere: dai primi esperimenti degli anni Sessanta con materiali poveri tradotti in sculture (alluminio, rame, nylon, argilla) alle installazioni ambientali degli anni Settanta e Ottanta, alle enigmatiche Teste, scolpite, disegnate e dipinte che, oltre a segnare il passaggio dall’astrazione alla figurazione, attraversano in maniera costante l’arte di Marisa Merz dal 1975 a oggi.


Emerge la dimensione di atemporalità che ha contraddistinto la sua ricerca sin dagli esordi

Proprio cinquant’anni fa, nel 1967, Germano Celant scriveva il Manifesto dell’Arte povera, presentando un gruppo di artisti italiani accomunati dall’utilizzo di materiali poveri, dall’enfasi sull’aspetto processuale dell’opera d’arte e dallo scambio continuo tra l’arte e la vita. Di quest’unica esponente femminile del gruppo, spesso volutamente defilata rispetto al movimento e alla figura chiave del marito Mario Merz, oggi è leggibile con chiarezza il contributo nel rinnovo politico e artistico del periodo, che si rivela principalmente nella fiducia totalizzante nell’arte come pratica esistenziale e quotidiana, in cui il fare coincide con l’essere. In fondo solo adesso, grazie al tempo trascorso, emergono la dimensione di atemporalità che ha contraddistinto la sua ricerca sin dagli esordi e il segno lasciato dal suo incedere artistico che non si è mai lasciato fermare dalla cronologia esatta, dalle fasi, dai periodi, o dai titoli.

Nell’universo di Marisa Merz tutto, il passato come il presente, è parte di un processo in divenire, fatto di eterni ritorni di materiali, di linguaggi e di motivi, come espressione della continuità tra l’intimità, la dimensione pubblica e la memoria personale.


Untitled (2010), Mosca, V-A-C- Foundation.


Veduta di una sala espositiva del Met Breuer con sculture di Marisa Merz.


Untitled (senza data).

Le sue prime opere, realizzate negli anni Sessanta, sono nate, non a caso, come estensioni della sfera domestica, come sculture “morbide” (Living Sculpture) di lamine d’alluminio, che dallo spazio della cucina di Torino da cui pendevano, sono state esposte nelle principali gallerie dell’epoca, tra il 1966 e il 1967. Marisa Merz le ha definite rappresentazioni del suo sistema nervoso, rivelando in più di un’occasione come l’essere artista e madre di Bea Merz, nata nel 1960, fosse parte di un rito quotidiano che cuciva e teneva insieme più livelli di vita.


Eterni ritorni di materiali, linguaggi e motivi, come espressione della continuità tra l’intimità, la dimensione pubblica e la memoria personale


Come testimonia l’opera Scarpette, realizzata con fili di rame e nylon, indossata fisicamente dall’artista e presentata come vera e propria opera in occasioni di mostre o di performance, eliminando di fatto le distinzioni tra accessori funzionali e artistici. Le sue astratte geometrie, cucite e intessute con fili di rame, nylon, acciaio e ferri di maglia, hanno creato un nuovo tipo di scultura in grado di disegnare lo spazio e di trasformare il materiale industriale in una sorta di tessuto organico e vitale.
Queste stesse opere negli anni Settanta sono diventate vere e proprie installazioni site-specific, che, in dialogo con l’ambiente, si sono allargate sulle pareti come ragnatele, depositate su sgabelli, tavoli, sedie e appoggi provvisori, o piuttosto mimetizzate nello spazio sino a rendersi quasi invisibili. Decennio dopo decennio, Marisa Merz ha dato vita a un sistema di oggetti e opere collegati tra loro nel tempo e nello spazio, in un continuo travaso dal dentro della casa-studio di Torino al fuori, in cui il riuso è funzionale al racconto esistenziale che l’artista di volta in volta compone, “ridisegnando” il tempo.

A metà degli anni Settanta compaiono le prime piccole teste realizzate dall’artista, le cui sagome appena abbozzate ricordano nella forma e nel trattamento materico le opere di Medardo Rosso. Racchiuse nella cera e rivestite con pigmenti luminosi, o dorature, le teste sono fatte principalmente di argilla non cotta, e incarnano l’aspetto più magico e poetico della ricerca artistica di Marisa Merz.

Il titolo che l’artista ha scelto per la sua personale tenutasi nella Galleria L’Attico di Roma, nel 1975, Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti, aiuta a comprendere la visione interna che richiede la comprensione della sua opera e in particolare delle teste e dei suoi visi, in cui le fattezze femminili emergono appena, sia nella dimensione scultorea, che nel fitto reticolo di segni. Queste indefinibili figure, dalle sembianze di madonne, regine, angeli, sono da sempre le compagne di viaggio di Marisa Merz, tracciate con linee fitte e sottili o arabescate. Sono state realizzate velocemente e a più riprese, se non contemporaneamente, in piccole o grandi dimensioni. Nei volti di Marisa Merz ritroviamo echi della storia dell’arte, dalle icone sacre bizantine alle Madonne rinascimentali, nelle tracce lasciate dai rossi vermigli, dagli ori, dai blu dei lapislazzuli. Il critico Tommaso Trini le ha ben definite «prefigure», cogliendone la valenza di dormiveglia e l’aspetto processuale e rituale a cui rimanda la loro apparizione. «Prefigure» che, oltre a dare forma al lato notturno e visionario di Marisa Merz, ci ricordano la capacità dell’arte di creare cosmogonie, e di risvegliare la nostra immaginazione profonda. In una breve poesia Marisa Merz ha scritto: «L’occhio guida la mano? (È l’occhio l’angelo?)». Come recita il titolo della mostra americana, per Marisa Merz The Sky Is a Great Space.


Fontana (1992), Minneapolis, Walker Art Center.

Testa (1984-1985).

Marisa Merz: The Sky Is a Great Space

a cura di Connie Butler e Ian Alteveer
New York, Met Breuer
fino al 7 maggio
orario 10-17.30, venerdì e sabato 10-21, chiuso lunedì
catalogo Hammer Museum, Los Angeles
www.metmuseum.org/visit/met-breuer

ART E DOSSIER N. 342
ART E DOSSIER N. 342
APRILE 2017
In questo numero: ARTE E SOCIETA' L'affaire Dreyfus e la satira; Il museo fittizio di Broodthaers; Antigone: la pietas e il potere. IN MOSTRA Merz a New York, Haring a Milano, Oppenheim a Lugano, Winogrand/Lindbergh a Düsseldorf, Manet a Milano, Bosch a Venezia.Direttore: Philippe Daverio