NUOVE SPERIMENTAZIONI
ED EPILOGO (1948-1967)

Alla mostra da Iolas del 1948, Magritte inviò negli Stati Uniti opere dell’ultimo periodo in stile “impressionista”, ma anche molte di nuove come La terra promessa.

In occasione della mostra, ci fu un fitto scambio epistolare fra il gallerista e l’artista. Il primo, spiegando come il pubblico americano preferisse i quadri di Magritte anteriori al 1940, che trovava «più poetici e superiori a questi cinque [“impressionisti”] che vi ho ritornato in quanto invenduti », scriveva anche: «Non vi domando di non copiare più i quadri antichi, ma di non interrompere quella qualità poetica e misteriosa di vostre opere precedenti […] quali Il modello rosso». La risposta di Magritte fu rassicurante: «Voi avrete delle opere che varranno bene Il modello rosso e che accontenteranno i vostri visitatori. Il periodo che voi chiamate “renoiriano” è terminato e i quadri di quell’epoca saranno assai richiesti “più tardi”. Ma questa esperienza mi è servita a mettere a punto molte cose, e come risultato, fra gli altri, voi potrete paragonare le opere nuove con quelle più vecchie come Il modello rosso, a tutto vantaggio delle prime».

Nello stesso anno incautamente il pittore - che, lo ricordo, non aveva mai tenuto una personale a Parigi - accettò di farne una nella mediocre galleria-bottega Galerie du Faubourg, al 47 di rue du faubourg Saint-Honoré. Vi espose trentanove opere caratterizzate da un forte spirito caricaturale, che chiamò “vache” (“vacca”, ma la parola significa anche “carogna”, “cattivo”, “sterco” ecc.) e, più tardi, “fauve” (belva). Lo stile era di sfida, così come la presentazione dell’amico di lunga data, Louis Scutenaire, intitolata I piedi nel piatto, nella quale proponeva «una serie di giravolte comiche, con brani di dialogo grossolano, giochi di parole joyciani, battute in franco-belga, echi del linguaggio dei fumetti, frustoli di satira politica e pseudo-derisione delle opere stesse». Le quali non solo ricordavano il fauvismo così come le macchie colorate dei fumetti, ma presentavano anche taluni connotati del coevo movimento Co.Br.A., che non a caso nacque fra Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam. La mostra si rivelò un completo fallimento e Magritte, di cui evidentemente ai francesi non piaceva lo stile provocatorio e scandalizzante, non vendette nemmeno un’opera, trovando anche l’ostilità di Breton e amici, a eccezione del solo Eluard.

Lo storpio (1948), Parigi, Centre Pompidou, Musée National d’Art Moderne.


Le vie e i mezzi (1948).

La tenuta incantata (1953); Knokke-le-Zoute (Belgio), Casinò.

Negli anni immediatamente successivi Magritte produsse anche dei murali. Ma riportare a grandi dimensioni le sue opere magistrali degli anni Trenta ebbe un effetto inferiore alle attese, essendo essi piuttosto freddi o, per dirla con Sylvester, più simili ai libri illustrati per bambini, «in cui le immagini normalmente minacciose sono private del loro veleno». Nello stesso periodo Magritte maturò uno stile particolarmente affascinante, che poi sporadicamente utilizzerà anche negli anni seguenti: quello della “pietrificazione”. Tutto il mondo riprodotto non sembrava quello normale con natura, cielo ed esseri viventi, ma era formato da una sola materia: la pietra. Le stesse rocce apparivano forme ieratiche, ma non inanimate a dispetto del loro tratto costitutivo. Come nel caso di Il canto della violetta (1951), dove dei “golem” in bombetta osservano o prendono in mano blocchi di pietra. Oppure di La parola data (1950), nel quale una mela - rigorosamente di roccia - è adagiata su lastroni dello stesso materiale. Uno dei più affascinanti è Ricordo di viaggio (1951): mostra una tavola con oggetti simili a nature morte, posta in una stanza dove una porta si apre su un paesaggio parimenti pietroso.

Una variante è quella di Il seduttore (1951): qui la sostanza pittorica è costituita da sottili pennellate in cui vengono fusi acqua, cielo e varie parti del brigantino rappresentato. Rispetto al surrealismo dagli incanti infantili di Miró, ai “desideri liquidi” di Dalí, alle “foreste fossili” di Ernst, ai deserti siderei di Tanguy e alle ossessioni ellittiche di Masson, quello di Magritte è un surrealismo sui generis, poco incentrato sull’inconscio, il fantastico in sé e per sé, e molto sulla meraviglia del paradosso logico, sull’ambiguità dell’interpretazione letterale della parola.


La parola data (1950).

Per cui, se dico “vado nell’altra stanza”, ci passo quasi attraversando come un fantasma la porta; oppure, se mostro la riproduzione di una pipa, debbo avvertire che “non” si tratta di una pipa. O ancora, se debbo parlare di uno stupro, mostro la faccia di una donna formata dai suoi organi anatomici.

Dagli anni Cinquanta in poi sembra che ciò abbia a che fare con una sorta di “phisique amusante” simile a quella dei baracconi delle fiere di fine Ottocento che presentavano spettacoli ai confini con la magia - per esempio lasciando intendere che un corpo fosse sospeso al di là delle leggi fisiche, laddove invece si trattava di un semplice gioco di prestidigitazione. Al pari di quella, lo stupore sembrava scaturire da un vero e proprio mondo alla rovescia. Oltre alla qualità delle cose tutte di una sola sostanza (roccia, oppure acqua), negli anni Cinquanta Magritte sperimentò l’ingrandimento di uno o più oggetti in uno spazio angusto. L’effetto fu quello di un Gulliver che ostentava una specie di armamentario sovradimensionato nel mondo di Lilliput. O se si preferisce, come era stato osservato dal grande storico dell’arte antica Arnold Hauser, una concezione manieristica del mondo dove spicca l’inquietudine inconscia tipica di un credo narcisista e ultraindividuale(10): «Con il Manierismo [il surrealismo] ha in comune soprattutto l’importanza assunta da una visione bipartita dell’esistenza. Per entrambi, la realtà si scinde in due sfere e forma un sistema costituito da due mondi, dove una crepa, per cui non c’è stucco che valga, incrina tutte le cose. La loro continuità appare interrotta per sempre, e il loro senso confuso con un senso contrario. Il reale si amalgama con l’irreale, il razionale con l’irrazionale, la vita terrena con l’aldilà».


Ricordo di viaggio (1951).

Il seduttore (1951).


La camera d’ascolto (1952); Houston, Menil Collection.

Quadri come La camera d’ascolto (1952), con una mela gigantesca che occupa per intero lo spazio, La tomba dei lottatori (1960), dove lo stesso effetto è ottenuto da una rosa smisurata, I valori personali (1952), con pettine, calice e pennello da barba imponenti dentro una camera da letto normale, ricordano in effetti, per esempio, La probatica piscina di Jacopo Tintoretto (1559), dipinto nella Scuola grande di San Rocco a Venezia dove figure ammassate in uno spazio limitato generano una sensazione di asfissia.

Le inquietudini dei manieristi del Cinquecento erano dovute a cause molteplici: religiose (Riforma e Controriforma), alienazione progressiva dell’individuo che perde il senso della totalità con conseguente rifugio nel narcisismo, drammatica svolta copernicana con la scoperta che la terra non è al centro del sistema solare e, ancor più, vertigine dell’intuire l’infinità dell’universo. Quelle del tempo di Magritte, nascoste dietro la maschera del paradosso, non erano, se ci si pensa, meno incombenti.


La tomba dei lottatori (1960).

Il dover essere sempre presente (e la consapevolezza dell’attimo in cui viviamo), che inesorabilmente fugge, per esempio. Oppure la scoperta della relatività di spazio e tempo. O anche la dualità del nostro io. Per non parlare della paura - si vedano gli anni, che sono quelli di sperimentazione della prima bomba all’idrogeno - dell’olocausto atomico. Naturalmente significativo è anche l’aspetto ironico che ha sempre caratterizzato l’opera di Magritte: sovradimensionare oggetti e spazi solleva anche dubbi sulle nostre dimensioni e, quindi, sulla nostra insignificante importanza per l’universo.

Un quarto e ultimo motivo di creatività in Magritte - nato peraltro già negli anni Venti: si vedano Le due sorelle - è quello della ripetizione di stereotipi visivi. Due dei quadri più seducenti in questo senso sono Golconda (1953) e La leggenda aurea (1958). Il primo, ispirato alla celebre città indiana di cui ormai sono rimaste solo rovine, appare uno dei dipinti più affascinanti del tardo Magritte, e anche uno dei più accurati, perché i numerosissimi personaggi riprodotti sono sì sostanzialmente tutti uguali, ma a un’osservazione più accurata presentano lievi differenze l’uno dall’altro. Quello che stupisce di quest’opera è il senso di “normalità” attribuito a ciò che normale non è: questi individui con bombetta che popolano lo spazio senza rispondere a qualsivoglia legge di gravità.

Un quadro non meno interessante in questa iconografia della “ripetizione” è il secondo, che presenta gigantesche “baguettes” simili ad astronavi mentre attraversano lo spazio visibile da una finestra. 


I valori personali (1952); San Francisco, Sfmoma - San Francisco Museum of Modern Art. In una lunga lettera a Marcel Mariën, scrive fra l’altro Magritte: «In questo quadro, il pettine (così come gli altri oggetti) ha perduto propriamente il suo “carattere sociale”, non è più che un oggetto di lusso inutile, che può, come dite voi, “disorientare” il proprio spettatore ed anche farlo “ammalare”. Ed è proprio questa la prova della sua efficacia».

Si possono ovviamente riscontrare motivi erotici in esso, ma anche una sorta di ironia verso gli amati e a un tempo odiati francesi. Una ironia che preserva l’artista dall’ansia caratterizzante i coevi racconti di fantascienza, ispirati a terrificanti ipercubi (tessaratti) o a dimensioni “sbagliate”.

Su suggerimento di Alexander Iolas, il suo mercante americano - ma anche per un inevitabile insterilirsi della sua vena poetica - Magritte dalla fine degli anni Quaranta fin quasi alla morte riprese più volte un quadro con lo stesso motivo.

Fu il caso, per esempio, di L’impero delle luci, soggetto di cui realizzò tra il 1949 e il 1964 ben sedici versioni a olio e sette a tempera. Fra il 1953 e il 1954 ne dipinse quattro di grandi dimensioni, il primo dei quali fu acquistato da Peggy Guggenheim che peraltro, già nel 1940, aveva acquisito a Parigi La voce dell’aria (La voce dello spazio), dipinto dall’artista belga nel 1931.


Golconda (1953); Houston, Menil Collection.

Nel 1957, pur mantenendo i contatti col suo mercante di riferimento Alexander Iolas, Magritte decise di stringere accordi con Harry Torczyner, avvocato di origine belga che risiedeva a New York. Ciò fu favorito anche dal fatto che l’artista era deluso dal non esser presente né con personali presso musei, americani o europei che fossero, né in pubblicazioni significative, come ebbe a dire: «Il difetto del dogma Iolas mi sembra consista nella scarsa presenza dei miei lavori nelle riviste d’arte, per esempio. Senza dubbio non è utile dal suo punto di vista strettamente commerciale. E senza dubbio questo punto non è privo di interesse. Ma c’è qualcosa che “stona” se è ritenuta auspicabile una dettagliata conoscenza da parte del pubblico del ruolo che occupo nella “storia della pittura”».


L’impero delle luci (1953-1954); Venezia, Peggy Guggenheim Collection.


Magritte nel suo studio con Ricordo di viaggio (1955).


Ricordo di viaggio (1955); New York, MoMA - Museum of Modern Art.

Una delle ragioni che impedirono la realizzazione di una mostra importante all’anno con opere nuove, come richiedeva Iolas, era il fatto che Magritte non riusciva più a realizzare «sessanta quadri all’anno» - è questa una sua frase - come nel 1926. Negli anni Sessanta eseguì qualche raro quadro originale, per esempio La firma in bianco (1965), ispirato forse a qualche dipinto dei Nabis, ma rielaborato con assoluta lucidità secondo i suoi dettami. In questo decennio Magritte andò incontro a molti dispiaceri. Anzitutto, a delle rotture con amici di lunga data, spesso per motivi futili, che però poi lasciavano una traccia profonda: fu il caso di Marcel Mariën, giovane fotografo e scrittore che aveva conosciuto nel 1937 e che nel 1943 aveva scritto anche la prima monografia su Magritte. Nel giro di pochi anni poi vennero a mancare Camille Goemans, Marcel Lacomte e André Breton, mentre Eluard era già morto negli anni Cinquanta. Nel 1967, l’anno della morte, Iolas gli suggerì di eseguire delle sculture. Benché provato da una forma di malattia reumatoide fin dal 1964, l’artista reagì con entusiasmo, pur avvertendo Iolas che avrebbe realizzato opere plastiche prendendo spunto da quadri eseguiti in precedenza. La prima scultura fu Le manie di grandezza (il dipinto era del 1949), il cui disegno inviò insieme a un’altra dozzina alla fonderia Gibiesse di Verona. Pronte in estate le cere, Magritte si recò con Iolas nella città scaligera e vi apportò numerose modifiche. Purtroppo non vedrà le opere finite perché le sculture furono prodotte solo dopo la sua morte.


La firma in bianco (1965); Washington, National Gallery of Art.


Le manie di grandezza (1967); Houston, Menil Collection.

(10) Vedi A. Hauser, Der Manierismus. Die Krise der Renaissance und der Ursprung der Modernen Kunst, Monaco 1964, tr. it. Torino 1965, p. 342 (e, per i riferimenti successivi a Tintoretto, pp. 208 sgg.).

MAGRITTE
MAGRITTE
Sileno Salvagnini
La presente pubblicazione è dedicata a René Magritte (1898-1967). In sommario: Ritratto di artista da giovane (1898-1924); L'avventura surrealista (1925-1929); Il surrealismo maturo, le grandi mostre all'estero, il ''periodo Renoir'' (1930-1947); Nuove sperimentazioni ed epilogo (1948-1967). Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.