Nel corso del romanzo, Maugham conferisce al paesaggio una connotazione drammaturgica: «Qua e là, un lucicchio nitido era il Reno, ampio, solenne, soffuso di una luce dorata. Philip pensò a come il Tentatore dall’alto del monte aveva mostrato a Gesù i regni della terra. Inebriato dalla bellezza dello scenario, gli sembrava che dinanzi a lui si stendesse il mondo intero, ed egli bramava di scenderne e di goderne».
In seguito, il paesaggio, attraverso il febbrile sguardo del pittore candiota, El Greco, gli suggerisce la visione abbagliante di una segreta realtà ultraterrena. Philip è incantato dalla riproduzione della Veduta e mappa di Toledo, dipinta appunto da El Greco:
«C’era qualcosa di soprannaturale in quella città grigio pallida. Sorgeva su un colle verdeggiante, ma di un verde non di questo mondo, ed era circondata da mura massicce e bastioni non espugnabili con macchine d’invenzione umana [...].
In quel cielo azzurro, con la nuvolaglia sospinta da strane brezze simili a grida e sospiri, vedevi la Vergine con una veste rosa e un manto azzurro, circondata da angeli alati».
La visione del paesaggio riflette dunque l’esistenza di Philip: da voluttuoso giardino delle delizie, la natura diviene (grazie anche alla scoperta delle pittura di El Greco) riflesso di una realtà trascendente. E appare curioso, che sia un libro di spionaggio, Ashenden l’inglese, il testo in cui l’autore ci confessa quanto un paesaggio ben dipinto sia del tutto complementare a un racconto scritto: «Fu compito degli impressionisti dipingere la bellezza fuggente della natura; si accontentavano di rendere la radiosità della luce del sole, il colore delle ombre o la trasparenza dell’aria. Miravano alla realtà. Volevano che il pittore fosse occhi e mani. Disprezzavano l’intelligenza. È strano come ora appaiano vuoti i loro dipinti se li paragonate ai maestosi quadri di Claude [Lorrain]. Il metodo di Claude è il metodo del maestro dei racconti di Guy de Maupassant»(2). Maugham visse buona parte della sua vita a Londra (ma era nato nell’ambasciata britannica di Parigi, da genitori inglesi), prima di trasferirisi nella principesca villa di Cap-Ferrat, sulla Costa Azzurra: e doveva ben conoscere dunque la sala numero 15 della National Gallery, nella quale erano affiancate - e sono lì, tuttora - due coppie di dipinti, eseguite da Claude Lorrain e da William Turner.
Fu lo stesso Turner che inserì una clausola nel proprio testamento, secondo la quale avrebbe lasciato alla Gran Bretagna un consistente numero di opere, a condizione che i propri dipinti Didone ordina la costruzione di Cartagine e Sole nascente nella foschia fossero affiancati da The Mill (Paesaggio con il matrimonio tra Isacco e Rebecca) e Porto con l’imbarco della regina di Saba, capolavori di Claude Lorrain(3). Con tale richiesta, Turner innescava un “certamen” permanente con il proprio maestro: era studiando Claude Lorrain che aveva infatti appreso la resa dell’iridescenza della luce naturale sulla tela - quello scintillìo calibrato, che scardina la geometria euclidea e che allude a un cielo infinito.
Sulla città di Londra, l’alba conclude una notte dolente: il giovane medico è ora esausto, dopo aver accolto tra le sue mani un bimbo che egli ha appena fatto nascere, la madre del quale, tuttavia, durante il travaglio, è spirata. Philip, tornando a casa, si ferma, per contemplare la città, sul far dell’alba: «Ma ormai era sorto il giorno, tenero e pallido, e una nebbiolina tenue soffondeva ogni cosa di una morbida luminosità; il Tamigi era grigio, roseo, verde come il cuore di una rosa gialla. Le banchine e i magazzini in lontananza formavano una massa leggiadramente disordinata». Ciò che vede Philip, avvolto nella pallida luce dell’aurora, potrebbe quindi sovrapporsi al dipinto Il porto di Brest: la banchina e il castello di William Turner. Nel testo, così come nel dipinto, è tratteggiata l’evanescente visione di un paesaggio, colta nel bagliore indistinto dell’aurora.