XXI secolo
Ivana Franke

FUGACI
LUCCIOLE
NELLA NOSTRA
MENTE

La ricerca artistica di Ivana Franke ruota intorno alla luce e all’esperienza percettiva, visiva e spaziale che la luce è in grado di suscitare. Immagini passeggere, esaltate da strutture geometriche, che prendono forma, anche solo per pochi attimi, in ognuno di noi.

Elena Agudio

Nota in Italia soprattutto per la sua raffinata installazione Latency nell’area Scarpa della Querini Stampalia di Venezia, quando nel 2007 rappresentò la Croazia alla Biennale, e per le sue collaborazioni e ricerche con neuroscienziati e scienziati della visione, Ivana Franke è un’artista ossessionata dal senso di flebilità e instabilità della luce. Dalla sua invisibilità e dalle sue apparizioni immateriali. La sua ricerca indaga i limiti della percezione, visiva e spaziale. Insieme alla luce impiega complesse strutture geometriche per creare fenomeni che spesso appaiono effimeri, ambigui ed enigmatici, se non addirittura misteriosi: fenomeni che prendono forma solo nella mente dell’osservatore, tra lo spazio fisico e quello mentale, e che sfidano la nostra abituale percezione e comprensione della realtà. 

In Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Didi-Huberman ha paragonato le immagini a lucciole: come lucciole, spiega, le immagini sono «la cosa più fragile e fugace che ci sia». Lo storico dell’arte francese suggerisce che la qualità ultima dell’immagine sia la sua apertura, la sua mutevolezza, la sua fragilità; essa ha un’intrinseca capacità di condensare memoria culturale, di proiettare il passato nel presente e metabolizzare antichi simboli visivi in nuove forme(1).


Mind Crossing (2015).

(1) Vedi: G. Didi-Huberman, La Survivance des lucioles, Parigi 2009; tr. it. Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Torino 2010.

Intermittenti squarci nel velo di Maya,
misteriose epifanie


Nella fugacità del loro bagliore, le apparizioni immateriali che Ivana Franke ci invita a guardare e fissare nella nostra mente si mostrano come intermittenti squarci nel velo di Maya della memoria individuale(2), come misteriose e ogni volta irripetibili epifanie. Esse non si manifestano nella fisicità di un medium, ma accadono direttamente nel flusso di coscienza dello spettatore. Per poi svanire, e rendersi un’altra volta irrappresentabili. Esse non sono entità iperuraniche capaci di esistere in sé e per sé: non hanno una loro corposità sostanziale, ma sono il risultato di un complesso processo di interazione tra precisi stimoli modulati dall’artista e il nostro cervello, tra il mondo esterno e la nostra percezione. Sono immagini che accadono, dentro di noi. Nel suo approccio all’iconologia lo storico dell’arte tedesco Hans Belting ha sottolineato la centralità della triade “Bild-Körper-Medium”, sostenendo che è solo l’interazione di “immagine-corpo-medium” a generare l’accadere delle immagini: «Le immagini non sono né appese al muro (o sullo schermo) né nella testa da sole. Non esistono per se stesse, ma accadono; succedono sia nel caso siano immagini in movimento (dove è ovvio) sia in caso contrario. Accadono nel corso della loro trasmissione e percezione»(3). Negli esperimenti “a occhi chiusi” di Ivana le immagini, le sue esplorazioni artistiche, prendono corpo attraverso la nostra fisicità incarnata. 

Nelle sue installazioni, l’artista accompagna l’osservatore in un viaggio interno alla mente, in un esperimento di visualizzazione “quasi allucinata”, e lo spinge a trasformarsi in medium vivente, a scoprirsi portatore di immagini inedite e misteriose. Interessata a interrogare quel sottile orizzonte liminale esistente tra il visibile e l’invisibile, tra il reale e l’irrappresentabile, interroga e tenta di allentare i confini tra percezione sensibile e immaginazione, tra realtà visiva e regno delle immagini mentali. Come una speleologa, con la luce, si addentra negli antri misteriosi della corteccia cerebrale umana, nelle pieghe della memoria e delle aree della visione. 

In Seeing With Eyes Closed, il progetto a lungo termine elaborato in costante dialogo con la neuroscienziata Ida Momennejad, Ivana Franke ha condotto una serie di esperimenti con la luce stroboscopica, ripercorrendo un tema che da oltre un secolo aveva affascinato scienziati e artisti: quello dei riflessi percettivi indotti dai “flicker” stroboscopici studiati da neurofisiologi come William Grey Walter e John Smythies. Gli stessi che negli anni Sessanta, con l’esplodere della cultura psichedelica e del desiderio di esplorare “le porte della percezione” avevano affascinato un’intera generazione di artisti: come è noto nel 1961 queste ricerche portarono l’artista e scrittore Brion Gysin a ideare e costruire la Dreamachine, uno strumento a basso costo capace di simulare lo stroboscopio elettronico da laboratorio e concepito per essere visto a occhi chiusi. Cinquant’anni più tardi Ivana Franke - con una prospettiva ormai lontana da questi interessi datati - ha elaborato una macchina in grado di stimolare la visionarietà e di accompagnare lo spettatore in un’unica esperienza di “trasfigurazione”, nell’abisso umbratile e luminoso delle immagini mentali.


Entanglement is a Fragile State (2012).


Disorientation Station (White) (2016).


Seeing with Eyes Closed (2011), veduta dell’installazione alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia.

(2) Aby Warburg aveva per primo sottolineato che le immagini – come “Nachleben”/”Afterimages” (immagini residue) – sopravvivono nella memoria collettiva, migrano nello spazio e nel tempo, portando con sé le ceneri della propria distruzione e i segni della loro rinascita.
(3) «Images are neither on the wall (or on the screen) nor in the head alone. They do not exist by themselves, but they happen; they take place whether they are moving images (where this is so obvious) or not. They happen via transmission and perception», da H. Belting, Image, Medium, Body: A New Approach to Iconology, in “Critical Inquiry”, 31, inverno 2005, pp. 302-303.

From the Faraway Past and from the Future (2014);


Latency (2007), installazione della 52. Biennale di Venezia;


Years Away (2011).

Interferenze poetiche,
esperienze intime
e soggettive


La serie di composizioni grafiche presentate nel libro d’artista Distant Feeling rappresenta una traduzione su carta della sequenza temporale della luce intermittente usata nella “machine” e un tentativo di trasferire e fermare l’immaterialità delle immagini effimere da essa generate su un medium tradizionale. Un’altra volta però - alchemicamente - queste immagini si trasformano in “afterimages”, che come fugaci lucciole ci appaiono e si accendono nella nostra mente. Interferenze poetiche, esse si epifanizzano come esperienze intime e soggettive, come segreti che l’artista ci invita a portare via con noi, nel nostro personale flusso di coscienza.


Disorientation Station (Black) (2016).

ART E DOSSIER N. 341
ART E DOSSIER N. 341
MARZO 2017
In questo numero: IMMAGINI FATTE DI LUCE Bill Viola: la videoarte; Ivana Franke: luce immateriale; Marinella Pirelli: light art; Vetrate: la luce ritrovata. IN MOSTRA Viola a Firenze, Mambor a Milano, De Stijl in Olanda, Bellini a Conegliano.Direttore: Philippe Daverio