Nella fugacità del loro bagliore, le apparizioni immateriali che Ivana Franke ci invita a guardare e fissare nella nostra mente si mostrano come intermittenti squarci nel velo di Maya della memoria individuale(2), come misteriose e ogni volta irripetibili epifanie. Esse non si manifestano nella fisicità di un medium, ma accadono direttamente nel flusso di coscienza dello spettatore. Per poi svanire, e rendersi un’altra volta irrappresentabili. Esse non sono entità iperuraniche capaci di esistere in sé e per sé: non hanno una loro corposità sostanziale, ma sono il risultato di un complesso processo di interazione tra precisi stimoli modulati dall’artista e il nostro cervello, tra il mondo esterno e la nostra percezione. Sono immagini che accadono, dentro di noi. Nel suo approccio all’iconologia lo storico dell’arte tedesco Hans Belting ha sottolineato la centralità della triade “Bild-Körper-Medium”, sostenendo che è solo l’interazione di “immagine-corpo-medium” a generare l’accadere delle immagini: «Le immagini non sono né appese al muro (o sullo schermo) né nella testa da sole. Non esistono per se stesse, ma accadono; succedono sia nel caso siano immagini in movimento (dove è ovvio) sia in caso contrario. Accadono nel corso della loro trasmissione e percezione»(3). Negli esperimenti “a occhi chiusi” di Ivana le immagini, le sue esplorazioni artistiche, prendono corpo attraverso la nostra fisicità incarnata.
Nelle sue installazioni, l’artista accompagna l’osservatore in un viaggio interno alla mente, in un esperimento di visualizzazione “quasi allucinata”, e lo spinge a trasformarsi in medium vivente, a scoprirsi portatore di immagini inedite e misteriose. Interessata a interrogare quel sottile orizzonte liminale esistente tra il visibile e l’invisibile, tra il reale e l’irrappresentabile, interroga e tenta di allentare i confini tra percezione sensibile e immaginazione, tra realtà visiva e regno delle immagini mentali. Come una speleologa, con la luce, si addentra negli antri misteriosi della corteccia cerebrale umana, nelle pieghe della memoria e delle aree della visione.
In Seeing With Eyes Closed, il progetto a lungo termine elaborato in costante dialogo con la neuroscienziata Ida Momennejad, Ivana Franke ha condotto una serie di esperimenti con la luce stroboscopica, ripercorrendo un tema che da oltre un secolo aveva affascinato scienziati e artisti: quello dei riflessi percettivi indotti dai “flicker” stroboscopici studiati da neurofisiologi come William Grey Walter e John Smythies. Gli stessi che negli anni Sessanta, con l’esplodere della cultura psichedelica e del desiderio di esplorare “le porte della percezione” avevano affascinato un’intera generazione di artisti: come è noto nel 1961 queste ricerche portarono l’artista e scrittore Brion Gysin a ideare e costruire la Dreamachine, uno strumento a basso costo capace di simulare lo stroboscopio elettronico da laboratorio e concepito per essere visto a occhi chiusi. Cinquant’anni più tardi Ivana Franke - con una prospettiva ormai lontana da questi interessi datati - ha elaborato una macchina in grado di stimolare la visionarietà e di accompagnare lo spettatore in un’unica esperienza di “trasfigurazione”, nell’abisso umbratile e luminoso delle immagini mentali.