Con un notevole apparato iconografico l’esposizione evidenzia come con la benedizione di Caravaggio, nel giro di pochi anni, il genere della natura morta sia cambiato e abbia iniziato a presentare molteplici varianti stilistiche.
Nella Fruttivendola di Vincenzo Campi, per esempio, si mantiene la presenza della figura umana, cosa ormai del tutto assente in Arcimboldo: il suo Ortolano è un quadro “reversibile”, leggibile ironicamente anche a testa in giù, e in cui la natura morta è resa in modo antropomorfico.
Presenti in mostra anche i brani naturalistici di Agostino Verrocchi, la cui pittura ha una condotta luministica di chiara ascendenza caravaggesca, così come le nature morte del cosiddetto Pensionante del Saraceni, spesso accompagnate da un volo di piccole farfalle, o da caraffe di vetro trasparenti ricolme di fiori. L’anonimo Maestro del vasetto nei suoi delicati fiori dentro un vasetto di onice dimostra di conoscere la Canestra e il Ragazzo morso dal ramarro di Caravaggio per l’estetica elegante raggiunta pur senza alcuna attenzione alla coerenza stagionale dei frutti e fiori. Ciò a differenza di come operava Caravaggio, precisa il giovane curatore Davide Dotti: «Nella Canestra ambrosiana e negli altri dipinti dove sono presenti brani di natura morta, gli studi botanici hanno evidenziato una perfetta coerenza stagionale. Caravaggio, quindi, come riportano le fonti antiche, dipinge dal vero fiori e frutta, a differenza della grande maggioranza dei maestri caravaggeschi di “still life” che invece ricorrono a modelli o taccuini di disegni conservati in bottega».
Alla svolta del secolo, quindi, Caravaggio non solo confermava il primato della pittura, indicato già da Leonardo come strumento di esplorazione e conoscenza della natura, ma decretava in un certo senso l’inizio del genere pittorico.
L’esposizione affronta dunque un problema articolato, e si cimenta in una delle più spinose questioni storico-artistiche. Tutte le ricerche in questo campo trovano difficoltà tangibili perché non esiste natura morta a Roma del primo trentennio del Seicento che non sia stata oggetto delle più disparate variazioni attributive. A fronte di tante incertezze i tentativi per gli storici dell’arte di definire una volta per tutte la paternità di un quadro espongono al rischio di venire presto contraddetti. Il “namepiece” Maestro di Hartford per esempio sembrava funzionare finora unicamente come nome di comodo all’interno del quale parcheggiare opere prive di attribuzioni certe. L’attuale messa a confronto di opere e date, di nomi e attribuzioni ha permesso invece di restituire a questo celebre anonimo il giusto valore. E se da una parte ha aperto nuove questioni critiche (la Fiasca di Forlì e quella di collezione romana), ha introdotto, in definitiva, significativi elementi storici, funzionali per una lettura finalmente più agevole di questa pagina complessa della storia dell’arte.