La pagina nera


SE NON FAI VEDER
LE TELE
IO SCATENO
UNA BABELE

di Fabio Isman

Dice Flaminia Gennari Santori, che a Roma dirige la Galleria nazionale d’arte antica di palazzo Barberini: «L’autonomia concessa dal ministro Dario Franceschini ad alcuni importanti musei non riguarda il personale, né gli accordi sindacali. La Galleria è bipartita: trentasei sale a palazzo Barberini, otto a palazzo Corsini. Però ci sono quaranta custodi in tutto; di cui tre part time e quattro non disponibili. Ne restano trentasei; tre coprono il turno di notte, e sei, su due turni, i tre ingressi. Ovviamente, anche gli altri si danno il cambio per garantire l’apertura dalle 9 alle 18. A settembre, l’ultima emorragia: quattro hanno preferito lavorare altrove, e non sono stati sostituiti. Negli uffici, poi, manca la metà dei dipendenti previsti in organico, Gli accordi sindacali prevedono che il personale in aggiunta non superi la metà dei custodi effettivi. Così apriamo le sale a rotazione; e al secondo piano solo su prenotazione, e soltanto per le visite guidate». 

Palazzo Barberini non è particolarmente fortunato: acquistato dallo Stato nel 1949 come sede della Galleria d’arte antica nella Capitale, è rimasto a lungo occupato in buona parte dal Circolo ufficiali delle forze armate. 

Ad Alberto Ronchey, ministro dei Beni culturali nel 1993, si deve il primo sfratto; ma il trasloco è stato completato appena nel 2015. Prima, era un vero disastro: ci vivevano anche un barbiere e un ex custode; e, fino al 2003, una donna senza casa si lavava alla fontana dell’androne. 

Vani, e infiniti, i tentativi perché i militari se ne andassero altrove, a ospitare anche cene e cerimonie; nel 1974, per esempio, Giovanni Spadolini, responsabile dei Beni culturali fino al 1976, domanda che gli ufficiali sgomberino; prima della risposta, però, cade il governo; nel 1983, presidente Bettino Craxi, si ritrova ministro della Difesa: così evade, con una replica, si intende negativa, la sua stessa richiesta.


Giuseppe Bartolomeo Chiari, Gloria di san Clemente (1715).

Antonio Cavallucci (e Giovanni Micocca?), Santi Teresa d’Avila, Pietro Tommaso, Andrea Corsini e Maddalena de’ Pazzi (senza data).


Una delle sale con i dipinti Lemme a palazzo Chigi di Ariccia.

«La donazione è sottoposta a una clausola espressa: le opere devono “essere esposte permanentemente, senza limiti di tempo e in una sala”»


Non solo, tornando alla situazione attuale: la direttrice della Galleria svela che soltanto ora «recupereremo l’ultima parte del palazzo che era in dotazione agli ufficiali, cinquecento metri quadrati circa nell’ala meridionale dell’edificio». E anche la penuria di custodi non sta portando decisamente bene all’ex dimora di una delle più importanti famiglie romane, quella di papa Urbano VIII, Maffeo Barberini. Tra le undici sale del secondo piano che non aprono regolarmente, infatti, c’è anche la numero 33, che mostra (o dovrebbe mostrare?) i ventisette bozzetti del Settecento romano donati nel 1997 da Fabrizio Lemme e dalla sua prima moglie Fiammetta, poi mancata. Nello stesso anno, l’«avvocato dell’arte», come viene chiamato, ha regalato anche venti dipinti al Louvre; e dieci anni dopo, altri centoventotto al palazzo Chigi di Ariccia che, dice Lemme, «è ormai il museo del Barocco romano ». Non pago, ha quindi iniziato una nuova raccolta, per ora di centotrenta opere; perché «sono un collezionista compulsivo; e poi, i muri bianchi e disadorni mi davano fastidio», confessa. Ma sa anche essere un amante dell’arte abbastanza arrabbiato. Spiega: «La donazione alla Galleria romana è sottoposta a una clausola espressa: dice che le opere devono “essere esposte permanentemente, senza limiti di tempo, in una sala” perfino ben determinata. All’inizio del 2016 ho saputo che non erano visibili, e da lì nasce tutta la querelle». Compendiata in sette lettere del legale e in una chiara promessa (oppure minaccia?): se a gennaio 2017 la clausola non sarà ancora stata rispettata «inizierò le procedure per ritirare tutti i ventisette dipinti, e li destinerò ad Ariccia», continua l’avvocato. 

Lemme è abbastanza infuriato: «Il Ministro non mi ha mai risposto. E tra i direttori generali, l’unico riscontro l’ho ricevuto da Caterina Bon Valsassina; ma solo per dire che la faccenda non è di sua competenza. Non si fa davvero così». E racconta che la sala dedicatagli al Louvre, tempo fa, ha dovuto essere provvisoriamente chiusa, per una «fuga d’acqua». Ebbene, «il museo prima mi ha scritto scusandosene; poi, mi ha inviato un’altra lettera per informarmi sulla durata prevista dei lavori; infine una terza perché sapessi che stava riaprendo». 

Eppure, le opere destinate a palazzo Barberini non sono davvero di scarso interesse: «Bozzetti per pale d’altare e grandi affreschi in città; quattro soltanto per la Camera degli sposi di palazzo Doria, di Stefano Pozzi; e nove per la basilica di San Clemente». Per il ministero il valore della donazione è prossimo ai due milioni di euro. 

Il modello del grande dipinto per la volta dell’edificio, di Giuseppe Bartolomeo Chiari, La gloria di san Clemente, è largo un metro e settanta centimetri, e alto quasi un metro. Ci sono poi Il martirio di sant’Ignazio di Antiochia di Pierleone Ghezzi; di Sebastiano Conca, Il miracolo di san Clemente; ma anche, raggruppati in due tele, Otto santi di Antonio Cavallucci, per la chiesa di San Martino ai Monti; due, per altrettante chiese, dipinti da Mariano Rossi; La morte di san Giuseppe di Francesco Trevisani per Sant’Ignazio; Il ritrovamento di Mosè di Domenico Corvi per San Marcello al Corso, e via elencando. 

«Sono stato chiarissimo: esigo il rispetto della clausola sotto la quale è avvenuta la donazione. La direttrice della Galleria, per carità, mi ha risposto e ha pure cercato di fare tutto il possibile: gliel’ho anche riconosciuto in una lettera. Ma non basta. È un problema che, se non può risolvere lei, deve affrontare il ministero. La violazione della clausola, è scritto nell’atto, dà luogo alla risoluzione della donazione senza limiti di tempo». 

Qualcosa di simile esiste anche per un altro celebre regalo: quello di venticinque dei suoi settantanove dipinti che sir Denis Mahon fece alla National Gallery di Londra (insieme con dodici all’Ashmolean Museum di Oxford; otto alla Scottish National Gallery di Edimburgo; sei al Fitzwilliam Museum di Cambridge; cinque al Birmingham Museum and Art Gallery; uno al Temple Newsam House di Leeds e sette alla Pinacoteca nazionale di Bologna). 

Se un giorno il governo inglese deciderà d’imporre una tassa d’ingresso alla National Gallery o al British Museum, ai “trustees” toccherà il compito di ritirare la donazione di Mahon e trasferirla ad altri musei. Finora, nelle due istituzioni londinesi, si entra sempre gratuitamente e il dono è stato fatto con il vincolo di mantenere questa prassi. E a palazzo Barberini, che cosa accadrà?


Domenico Corvi, Ritrovamento di Mosè (prima del 1763).


Antonio Cavallucci (e Giovanni Micocca?), Santi Carlo Borromeo, Silvestro, Martino e Francesco Saverio (senza data).

ART E DOSSIER N. 340
ART E DOSSIER N. 340
FEBBRAIO 2017
In questo numero: VISIONI ALTERNATIVE Gli zingari nell'arte. Dentro l'opera: leggere l'arte contemporanea. Beard: animali in scena. Il design di Enzo Mari. La fotografia di Mario Cresci. IN MOSTRA Caravaggio e natura morta a Roma, Art Deco a Forlì, Avanguardie russe a Londra, Manzù e Fontana a Roma.Direttore: Philippe Daverio