Studi e riscoperte. 1
Gli zingari nell’arte

DALLA PARTEDEI DIMENTICATI

Zingari, rom, gitanes... molti nomi per un popolo vario e sparso per il mondo, che entra nelle raffigurazioni artistiche fin dal Medioevo e attraversa le arti fornendo miti, leggende, simboli. Scene di genere capaci di nutrire o modificare pregiudizi, a volte di raccontare la realtà.

Bruno Morelli

Le prime raffigurazioni di zingari in pittura appaiono in concomitanza con il loro arrivo in Europa a partire dall’XI secolo. Nel monastero di San Nicola presso il villaggio di Gornjani in Montenegro affreschi del XIV secolo li mostrano come suonatori di tapan (tamburo) e di zurla, uno strumento a fiato ricavato dal legno di acero e di noce, lungo anche un metro e mezzo, che gli zingari balcanici continuano a fabbricare insieme ad altri strumenti musicali. In Italia il primo documento scritto che attesta la loro presenza risale al 1422, citata in una cronaca bolognese. Dalle prime raffigurazioni come chiromanti o suonatori, si sviluppa un’interpretazione artistica sempre più complessa, per un soggetto tutto da esplorare con lati oscuri da chiarire, miti e valori da svelare.


Georges de La Tour, La buona ventura (probabilmente post 1630), New York, Metropolitan Museum of Art.

Dediti alla divinazione, alla chiromanzia, nonché abili forgiatori di armi e raffinati orafi, gli athinganoi erano considerati una classe sociale privilegiata


Una figura mitica è incarnata da un valoroso capitano di ventura, esplicitamente detto lo Zingaro, spuntato dal carboncino di Leonardo da Vinci: figura che Vasari definisce «Scaramuccia, capitano de’ zingani». 

L’aspetto mitico e leggendario del popolo rom a volte prevale, tuttavia incide nella storia elaborando simbolicamente una sorta di soggetto alieno. Scaramuccia, lo «zingano», non può essere che mostruoso in quanto riflesso della personificazione del maledetto ed eroico al tempo stesso. L’appellativo “zingaro”, occorre specificare, discende da “athinganoi”, in greco “intoccabili”, tribù nomade pagana presente nell’Anatolia dell’VIII secolo d.C. Provenienti dalla Persia-Armenia sono originari del Nord India e usano tutt’oggi l’idioma sanscrito. Dediti alla divinazione, alla chiromanzia, nonché abili forgiatori di armi e raffinati orafi, gli athinganoi erano considerati una classe sociale privilegiata. Esodando da quelle terre nell’XI secolo, giungono nell’Europa cristiana ove sono ritenuti demoniaci, perciò perseguitati. La loro presenza infastidisce la Chiesa, che li condanna come eretici. L’esotica e scomoda identità da una parte rafforza il marchio di “maledetti”, dall’altra nondimeno stimola l’interesse artistico alla formazione di un fenomeno iconologico che si spinge oltre il mito, con temi sempre più aderenti alla realtà. Il famigerato “zingano”, attraente portatore di enigmi, acuisce la speculazione fisiognomica di Leonardo. Infatti, dall’esercizio di studi caricaturali, elementi epici e fiabeschi si traducono in chiarezza antropologica: una testa di zingaro perfetta per una grande battaglia. Il disegno su carta traforata è studio preparatorio per un affresco, riproduce il volto di un fiero condottiero di truppa mercenaria. Che i rom non abbiano mai fatto guerre è falso, certamente non hanno combattuto per difendere una patria, visto che non l’hanno mai posseduta; ma erano abili nel fabbricare armi come nel maneggiarle, quindi trovarli al fianco di eserciti costituiva all’epoca un avvenimento non raro. 

Dello stesso periodo del disegno citato è lo studio di Niccolò Piccinino, altro guerriero rappresentato nella Battaglia di Anghiari. Comunque, la testa doveva interessare molto Leonardo che, affrontando il modello con analisi dettagliata, trasforma il ritratto in una specie di identikit del soggetto ignoto, quasi a comunicarcene l’estraneità alle tipologie umane. Federico Zeri (che però data l’opera al 1481) dice che doveva essere inserita in una scena ad affresco, ma quale? Forse in una battaglia, magari proprio in quella di Anghiari ricordando lo Scaramuccia a sostegno dei fiorentini contro i milanesi. La monumentale, sfortunata pittura doveva essere collocata nella sala del Gran consiglio di Palazzo vecchio a Firenze di fronte alla Battaglia di Cascina di Michelangelo. I riferimenti storici spingono a identificare il soggetto in questione nel capitano di ventura Scaramuccia da Forlì, al soldo perlopiù della Repubblica di Venezia.


Leonardo da Vinci, Busto grottesco maschile (Scaramuccia) (1505 circa), Oxford, Christ Church Picture Gallery.


Hieronymus Bosch, Trittico del carro di fieno (1516), particolare, Madrid, Museo del Prado.

Il tema della chiromanzia è molto frequentato, artisti di ogni epoca descrivono quella pratica che riassume la vita dissipata e un po’ alchimistica di questa strana gente, per Voltaire gli ultimi adoratori di Iside. Alcuni si limitano a descrivere oggettivamente la scena, altri si addentreranno nell’intimità della “performance” cercandovi dei significati, specialmente nel primo Novecento con Rousseau il Doganiere, Campigli, Pascin, Van Dongen. Ma occorre iniziare da Hieronymus Bosch, pittore che inaugura il primo esempio di “buona ventura” nel suo Trittico del carro di fieno. Egli inserisce tra i tanti elementi allegorici anche l’atto divinatorio la cui funzione è chiaramente negativa: inganno, peccato, perdizione, antireligiosità. Altri ancora usano lo stesso soggetto per dire qualcos’altro come Pieter Brueghel il Vecchio nella Predica del Battista, segnando una svolta decisiva. Egli dissacra il racconto biblico inserendo un indovino in primo piano, figura anticonvenzionale di un chiromante che legge la mano a un nobiluomo, o forse un ricco borghese. Il simbolo blasfemo risalta nel pieno di un evento sacro, creando uno spiazzamento: la nostra attenzione è richiamata sul particolare profano posto sulla prima quinta del dipinto. L’autore vuole comunicarci qualcosa. Forse una protesta contro i bandi espulsivi degli zingari dai Paesi Bassi con un editto di Carlo V del 15 febbraio 1537. 

Caravaggio riconduce la scena dalla metafora alla realtà, nella fattispecie all’antitesi tra inganno e verità. Da notare che nella sua Buona ventura la chiaroveggente è intenta a sfilare l’anello del malcapitato mentre gli legge la mano. Media il linguaggio sacro-metaforico in condanna morale, al di là della storia e del mito. In questo contesto vanno lette le sue due versioni della scena. Da uno spazio marginale la buona ventura acquisisce soggettività, si sposta al centro dell’opera, diviene genere pittorico. Giovanni Bellori, annotando una cronaca del 1672, a proposito della Buona ventura scrive: «Il Caravaggio chiamò una zingara che passava a caso per istrada, e condotta all’albergo la ritrasse in atto di predire l’avventura, come sogliono queste donne di razza egiziaca. Fecevi un giovane il quale posa la mano col guanto sulla spada e porge l ’altra scoperta a costei, che la tiene e la guarda». I caravaggisti francesi che vissero a Roma - Valentin de Boulogne, Simon Vouet, Nicolas Régnier - hanno dipinto come il loro maestro un’indovina in cappa blu bordata di rosso. Il genere evolve, subisce variazioni, passa da donna che legge la mano a quella che trae in inganno il passante con la complicità di una compagna, come in Georges de La Tour. In altra versione, di Simon Vouet, la chiromante è derubata a sua volta. 

La “maternità zingara” nasce dal confronto con la maternità sacra, assume nuova costruzione iconica sul piano formale e nella sostanza non perde ma acquista sacralità. Spesso accade di trovare valori di intensa suggestione nel pauperismo di questi viandanti, a volte spunti esemplari per il concepimento dell’immagine di carattere spirituale forse più amata, la Madonna con Gesù Bambino. In altre parole, per una meccanica di conciliazione simbolica, la madre zingara col figlio incarna il messaggio dell’amore universale della Madre Misericordiosa. Otto Müller, di madre sinta e padre tedesco, conclude in maniera esemplare il rinnovamento iconografico trasferendo la maternità romanì nei panni della Madonna. La sua Madonna zigana è una madre, incoronata da una ruota di carro che funge da aureola, nell’atto di abbracciare teneramente il proprio figlio che tiene in mano un girasole. 

È interpretata come zingara anche la figura nuda col figlioletto al seno della Tempesta di Giorgione. L’opera, già fatta segno di innumerevoli interpretazioni, si integra di una nuova versione, quella di Genoveffa la zingara. Comune un po’ a tutti i rom centro-settentrionali, la vicenda viene tramandata oralmente da generazioni, è nota come la storia della “romnì” bellissima che fa perdere la testa a un nobile giovanotto.


Caravaggio, La buona ventura (1593-1594), Roma, Musei capitolini.


Simon Vouet, La buona ventura (1617), Roma, Galleria nazionale d’arte antica di palazzo Barberini.


Otto Müller, Madonna zigana (1926), Darmstadt, Landesmuseum.

È l’archetipo dell’amore impossibile tra ceti sociali differenti, per cui il borghese nasconde l’amata fonte di “vergogna” nel bosco e finisce per dimenticarla. La ragazza è incinta, ormai prossima a dare alla luce un figlio. Finché, in un giorno di caccia, vagiti di neonato echeggiano nella boscaglia: la sua amata ha appena partorito sull’erba, ed è lì, seminuda, intenta ad allattare il bimbo: è così che il giovane la ritrova e il finale si allieta. 

Lionello Venturi ci narra di un vecchio taccuino di Marcantonio Michiel, nobile veneziano letterato e collezionista il quale «vede la tela nel 1530, vent’anni dopo la morte del maestro, nella casa del primo acquirente, Gabriele Vendramin, così accennandovi: “El paesetto in tela cum la tempesta cum la cingara et soldato, fo de man de Zorzi da Castelfranco”. Nel 1569 era ancora presso i Vendramin; nel 1856 si trovava sempre a Venezia, nella collezione Manfrin; nel 1875 fu acquistato dal principe Giovannelli, che poi (1932) lo cedette allo Stato». 

La Maternità zingara di Amedeo Modigliani ci rimanda invece alla moderazione e all’ordine. Dolcezza infinita di una madre forte e premurosa. 

Le maternità di Pablo Picasso, ispirate al mondo del circo, essenzialmente, ritraggono una figura di nomade stretta al proprio figlio quale punto saldo in una precaria e spaesata esistenza. Nei Periodi blu e rosa estrapola dettagli della vita bohèmienne lacerata dai drammi quotidiani, l’incertezza di un vissuto estemporaneo. La madre è sola col bimbo stretto al petto, le esili braccia si aggrappano; in compagnia del cane e dell’altro figlio passeggiano la sera dopo il lavoro, dopo aver piantato la tenda a salutare il tramonto. La precarietà è il prezzo da pagare per la pienezza di essere al mondo. 

Vincent Van Gogh e Otto Müller fanno parte di quegli interpreti che si soffermano a contemplare “l’isola felice”, ovvero l’utopia della “città rom”, ovvero quel luogo-non luogo dove rendere immortali il sublime e la bellezza. Le due varianti di bivacco di zingari di Van Gogh, a colori e monocroma, recuperano l’irrealtà del “sogno gitano”. Una fila di carrozzoni cinge lo spazio di sosta come fosse una parete sospesa sul prato fiorito a segnare il limite di un cerchio, l’“hortus conclusus” contenente i membri del clan: uomini, donne, bambini, fuoco, cose, animali. L’artista scopre attraverso la sua pittura lo strato profondo dell’anima libera che lega l’individuo alla natura. Quasi in senso panico attribuisce al soggetto nomade un ruolo centrale della simbiosi vita-natura. 

Diversamente, Giuseppe Palizzi in Zingari fa riferimento a un’arcadia felice in cui cedere ai sensi nell’armonia di un bosco, nella vita all’aperto, nella nicchia ideale dove i figli della natura felicemente si annidano. Animali, fagotti, scodelle, bambini scalzi, donne con lunghi mantelli e poi il fuoco, sempre al centro del raduno famigliare, rimandano al bivacco. 

Max Beckmann nella Carovana del circo compie un passo più in là, scavalca i confini del recinto, entrando nel tendone ci rivela un mondo nel mondo, la “Venere” dello spettacolo. È una donna bellissima, distesa su un letto improvvisato tra arnesi e strumenti di spettacolo, è attorniata da tre personaggi: un nano, un domatore e un terzo individuo di difficile identificazione: posto dietro la scena, disinvolto, legge il giornale. 

In conclusione, il soggetto zingaro entra nell’arte precocemente e scuote i pregiudizi dell’opinione pubblica. Come l’inconscio archivia stratificazioni di saperi selezionati dalla realtà a nutrire la crescita di una consapevolezza, l’arte con i suoi messaggi visivi e morali favorisce una sorta di giustizia storica e alimenta la creatività stessa. Tra le più antiche minoranze linguistiche, l’etnia romanì sparsa in tutto il mondo pone una sfida anche nel terzo millennio: resistere alle maledizioni degli uomini, anche con lo scudo dell’arte.


Vincent van Gogh, Le roulotte, campo di zingari vicino ad Arles (1888), Parigi, Musée d’Orsay;


Max Beckmann, La carovana del circo (1937), Francoforte, Städel Museum.

ART E DOSSIER N. 340
ART E DOSSIER N. 340
FEBBRAIO 2017
In questo numero: VISIONI ALTERNATIVE Gli zingari nell'arte. Dentro l'opera: leggere l'arte contemporanea. Beard: animali in scena. Il design di Enzo Mari. La fotografia di Mario Cresci. IN MOSTRA Caravaggio e natura morta a Roma, Art Deco a Forlì, Avanguardie russe a Londra, Manzù e Fontana a Roma.Direttore: Philippe Daverio