È l’archetipo dell’amore impossibile tra ceti sociali differenti, per cui il borghese nasconde l’amata fonte di “vergogna” nel bosco e finisce per dimenticarla. La ragazza è incinta, ormai prossima a dare alla luce un figlio. Finché, in un giorno di caccia, vagiti di neonato echeggiano nella boscaglia: la sua amata ha appena partorito sull’erba, ed è lì, seminuda, intenta ad allattare il bimbo: è così che il giovane la ritrova e il finale si allieta.
Lionello Venturi ci narra di un vecchio taccuino di Marcantonio Michiel, nobile veneziano letterato e collezionista il quale «vede la tela nel 1530, vent’anni dopo la morte del maestro, nella casa del primo acquirente, Gabriele Vendramin, così accennandovi: “El paesetto in tela cum la tempesta cum la cingara et soldato, fo de man de Zorzi da Castelfranco”. Nel 1569 era ancora presso i Vendramin; nel 1856 si trovava sempre a Venezia, nella collezione Manfrin; nel 1875 fu acquistato dal principe Giovannelli, che poi (1932) lo cedette allo Stato».
La Maternità zingara di Amedeo Modigliani ci rimanda invece alla moderazione e all’ordine. Dolcezza infinita di una madre forte e premurosa.
Le maternità di Pablo Picasso, ispirate al mondo del circo, essenzialmente, ritraggono una figura di nomade stretta al proprio figlio quale punto saldo in una precaria e spaesata esistenza. Nei Periodi blu e rosa estrapola dettagli della vita bohèmienne lacerata dai drammi quotidiani, l’incertezza di un vissuto estemporaneo. La madre è sola col bimbo stretto al petto, le esili braccia si aggrappano; in compagnia del cane e dell’altro figlio passeggiano la sera dopo il lavoro, dopo aver piantato la tenda a salutare il tramonto. La precarietà è il prezzo da pagare per la pienezza di essere al mondo.
Vincent Van Gogh e Otto Müller fanno parte di quegli interpreti che si soffermano a contemplare “l’isola felice”, ovvero l’utopia della “città rom”, ovvero quel luogo-non luogo dove rendere immortali il sublime e la bellezza. Le due varianti di bivacco di zingari di Van Gogh, a colori e monocroma, recuperano l’irrealtà del “sogno gitano”. Una fila di carrozzoni cinge lo spazio di sosta come fosse una parete sospesa sul prato fiorito a segnare il limite di un cerchio, l’“hortus conclusus” contenente i membri del clan: uomini, donne, bambini, fuoco, cose, animali. L’artista scopre attraverso la sua pittura lo strato profondo dell’anima libera che lega l’individuo alla natura. Quasi in senso panico attribuisce al soggetto nomade un ruolo centrale della simbiosi vita-natura.
Diversamente, Giuseppe Palizzi in Zingari fa riferimento a un’arcadia felice in cui cedere ai sensi nell’armonia di un bosco, nella vita all’aperto, nella nicchia ideale dove i figli della natura felicemente si annidano. Animali, fagotti, scodelle, bambini scalzi, donne con lunghi mantelli e poi il fuoco, sempre al centro del raduno famigliare, rimandano al bivacco.
Max Beckmann nella Carovana del circo compie un passo più in là, scavalca i confini del recinto, entrando nel tendone ci rivela un mondo nel mondo, la “Venere” dello spettacolo. È una donna bellissima, distesa su un letto improvvisato tra arnesi e strumenti di spettacolo, è attorniata da tre personaggi: un nano, un domatore e un terzo individuo di difficile identificazione: posto dietro la scena, disinvolto, legge il giornale.
In conclusione, il soggetto zingaro entra nell’arte precocemente e scuote i pregiudizi dell’opinione pubblica. Come l’inconscio archivia stratificazioni di saperi selezionati dalla realtà a nutrire la crescita di una consapevolezza, l’arte con i suoi messaggi visivi e morali favorisce una sorta di giustizia storica e alimenta la creatività stessa. Tra le più antiche minoranze linguistiche, l’etnia romanì sparsa in tutto il mondo pone una sfida anche nel terzo millennio: resistere alle maledizioni degli uomini, anche con lo scudo dell’arte.