Le molte domande di Mari ai professori dipendevano anche dal suo curriculum scolastico incompleto. Oltre all’etica e alla dignità del lavoro, Enzo Mari è sempre stato spinto da un’insaziabile curiosità e dalla sete di sapere e di capire. Timidissimo e sempre silenzioso, nei suoi vent’anni cominciò a girare per le gallerie d’arte contemporanea di Milano, che allora erano tutte nel centro della città. Fu così che nacque il suo interesse per gli effetti della percezione visiva e per il ruolo sociale che avrebbe potuto rivestire il design. Assisteva a conferenze e dibattiti. Durante una di queste occasioni, alla fine degli anni Cinquanta, il grande Adriano Olivetti, che aveva interpretato l’eloquente silenzio agitato del giovane seduto accanto a lui, lo esortò a intervenire per esprimere il suo dissenso: «Se non sei d’accordo su quello che senti, alzati e parla». Dovette passare più di un anno, Olivetti non c’era già più, prima che Enzo Mari trovasse il coraggio di parlare, per esprimere le sue idee che erano ormai chiare. A trent’anni, Mari era già in nuce l’artista poliedrico che sarebbe diventato e cioè un artigiano, un teorico-divulgatore, un pensatore-filosofo, un promotore-pedagogo, un designer di fama internazionale. Credo che “artigiano” sia la definizione da lui più amata, un lavoro dove la fatica del fare viene compensata dalla soddisfazione del realizzare con le proprie mani qualcosa di bello, di positivo, di utile. Dopo essersi dedicato per più di un decennio a ricerche sulla psicologia della visione, sulla programmazione di strutture percettive e sulla metodologia della progettazione, nel 1962 partecipa, nella sede milanese della Olivetti, alla rassegna Arte programmata, movimento artistico così chiamato da Bruno Munari e Giorgio Soavi.
Durante la sua lunga carriera, Enzo Mari si è confrontato con i materiali più diversi, dal vetro al ferro, dal marmo alla ceramica. «In un rapporto non alienato», sono parole sue, «tra uomo e oggetto fabbricato, con legami forti a livello di pratica e autonomia di pensiero».
Aveva cominciato a lavorare a undici anni per contribuire in prima persona al sostentamento della sua famiglia, facendo i lavori più duri e più umili. Il padre, uomo di poche parole, prima di morire ebbe il tempo di raccontargli di suo nonno, calzolaio di Spinazzola (Bari). Era solito fare scarpe che dovevano durare tutta la vita. Altro che società dei consumi. Questo tramandato modo di essere è stato per il nipote Enzo un’eredità inestimabile. A casa Mari non si parlava mai di politica, non c’era la radio e non si compravano i giornali, ma il padre aveva acquistato in edicola le dispense dei classici, Omero, Virglio, Tasso, Ariosto e le aveva rilegate con cura. A dieci anni, Enzo divenne il primo lettore di questi testi cercando di decifrarne le parole. Alcuni accostamenti inaspettati suscitavano in lui grandi emozioni. Cominciava a rendersi conto dei problemi della qualità della forma «che quando è bella, colpisce al cuore».
Mari vorrebbe dare il Nobel a tutti i bambini di due anni, ancora liberi, ancora intelligenti, ancora senza regole e, a quell’età, «capaci di imparare una parola ogni ora», come afferma Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Mari artista ha cercato di non dimenticare se stesso bambino, procedendo da solo in una strada impervia, unico modo per preservare la propria libertà, senza vergognarsi di progettare e realizzare anche idee apparentemente ingenue. Gli unici veri maestri della sua traversata solitaria sono stati i grandi del Rinascimento. La sindrome di Stendhal l’ha avuta durante e dopo i due giorni trascorsi, quand’era ventenne, nella Cappella sistina. «Una volta uscito mi venne da piangere: avevo capito che per raggiungere una perfezione artistica del genere, avrei impiegato anni di studio e di lavoro. E io, purtroppo, non potevo permettermelo: dovevo mantenere la mia famiglia. Guardare da vicino l’arte antica, toccarla con mano, mi ha aiutato più che leggere mille libri. È stata una presa di coscienza. Ho capito che con la stessa qualità dei grandi pittori del passato potevo fare dei buoni oggetti d’uso comune».
Per Mari, il design può essere paragonato a una famiglia dove la madre, sognatrice e utopista, crea la forma, disegna e progetta; mentre il padre, imprenditore, fa i conti e considera la realtà dei fatti. Esattamente come avviene fra un regista e un produttore, bisogna trovare un punto d’incontro per realizzare il film. Mari si è sempre posto contro l’economia di mercato, contro le mode, contro la ridondanza e contro lo sfruttamento dell’operaio alla catena di montaggio e ogni volta che è stato in stabilimento, in fabbrica, ha spiegato il proprio lavoro a chi lo doveva realizzare. Di solito l’operaio non deve pensare, perché questo rallenta la produzione. Enzo Mari ha sempre applicato una morale senza deroghe e scelto un design che ha avuto come obiettivo la qualità del linguaggio, una qualità eminentemente politica, opponendosi sempre a operazioni di puro profitto e riuscendo spesso a dare alla luce nel contempo oggetti e pensiero.