XXI secolo. 2
Enzo Mari, designer

GENESIDI UN MAESTRO

Ha imparato sul campo con passione e senso di devozione, creando oggetti che fossero impermeabili alle mode del momento e lontani da una visione commerciale e consumistica. Enzo Mari è un designer autodidatta, fiero di aver portato avanti un percorso capace di coniugare bellezza e utilità con libertà di pensiero e una spiccata etica del lavoro.

Jean Blanchaert

Enzo Mari (1932) ha un antico senso del tempo. Si tratta di un tempo che oggi non c’è più, di un tempo fatto di lunghe ore di silenzio, occupate a progettare, a pensare alla forma migliore con cui creare una cosa. Il rapporto che Mari ha con la natura e la dedizione con la quale fabbrica un nuovo oggetto utile ci fanno pensare alla Genesi, perché c’è qualcosa di sacro nel suo procedere, nel suo voler dare vita a manufatti magnifici, imperituri e giovevoli al prossimo. «E fu sedia un primo giorno, e fu divano un secondo giorno, e fu tavolo un terzo giorno, e fu vaso un quarto giorno…» e così via per più di sei giorni, per tutti i duemila e più giorni dei suoi duemila e più progetti realizzati. Forme archetipiche in levare secondo la lezione michelangiolesca. 

Quanto è stato creato non potrebbe essere più perfetto. Sono migliorabili la forma di un ranuncolo o quella di uno schnauzer? Forse no, meglio non intervenire sull’opera del Creatore, del Grande Gestalter. 

Ma anche 16 animali, puzzle in legno (progetto 351) e la Putrella in ferro naturale (progetto 512), entrambi di Enzo Mari per Danese, non sono migliorabili. Si tratta di forme assolute. Mettere sul mercato un oggetto che durerà dai cento ai mille anni è un atto di guerra, anticommerciale, politico e anticapitalistico.


Tutte le foto dell'articolo sono concesse da Enzo Mari. Ritratto di Enzo Mari (2016).

Ci riporta alle radici delle cose
e delle parole


Falce e martello oggi è diventato un simbolo, talmente affermato da essere ormai quasi fuori dall’ideologia, come la fotografia di Che Guevara. Falce e martello di Mari, tempera su tela (progetto 168), ci ricorda invece subito il lavoro agricolo della falce e quello manifatturiero del martello, riportandoci alle matrici del loro significato originario. 

Mari lavora con passione e non rimane mai in superficie, è un etimologista di cose e di parole e ci riconduce sempre alle loro radici. Se la sua falce ci fa udire il rumore dell’erba tagliata, se il suo martello ci porta in officina, le parole dei suoi libri e dei suoi discorsi non sono da meno. Le parole di Enzo Mari sono parole rinate, resuscitate, è come se le leggessimo e le ascoltassimo per la prima volta, nuove, antiche e vere, con tanto di suoni e fonemi evocatori dell’immagine in questione. 

Enzo Mari è autodidatta, ha imparato a esprimersi da solo, sia verbalmente, sia nel progetto artistico. La sua forza primaria è proprio quest’assenza di scuola, una mancanza che lui considera la sua grande fortuna. Iscrittosi all’Accademia di Brera seguiva il corso di pittura di Aldo Carpi, che poco dopo lo incoraggiò a passare a quello di scultura perché il giovane Enzo faceva troppe domande rallentando così il ritmo prestabilito della classe. Il professore di scultura, sempre per gli stessi motivi, lo esortò a trasferirsi a scenografia, un corso a lui meno consono dove però imparò talmente bene il disegno prospettico da essere chiamato, negli anni a venire, a realizzare modellini di architettura negli studi dei grandi architetti milanesi, Gio Ponti in testa. Quello che oggi si chiama “rendering”.


Studio per l’anniversario (1954).


Contenitore Putrella (1958), vassoio in ferro naturale, prodotto da Danese nel 1958.

Le molte domande di Mari ai professori dipendevano anche dal suo curriculum scolastico incompleto. Oltre all’etica e alla dignità del lavoro, Enzo Mari è sempre stato spinto da un’insaziabile curiosità e dalla sete di sapere e di capire. Timidissimo e sempre silenzioso, nei suoi vent’anni cominciò a girare per le gallerie d’arte contemporanea di Milano, che allora erano tutte nel centro della città. Fu così che nacque il suo interesse per gli effetti della percezione visiva e per il ruolo sociale che avrebbe potuto rivestire il design. Assisteva a conferenze e dibattiti. Durante una di queste occasioni, alla fine degli anni Cinquanta, il grande Adriano Olivetti, che aveva interpretato l’eloquente silenzio agitato del giovane seduto accanto a lui, lo esortò a intervenire per esprimere il suo dissenso: «Se non sei d’accordo su quello che senti, alzati e parla». Dovette passare più di un anno, Olivetti non c’era già più, prima che Enzo Mari trovasse il coraggio di parlare, per esprimere le sue idee che erano ormai chiare. A trent’anni, Mari era già in nuce l’artista poliedrico che sarebbe diventato e cioè un artigiano, un teorico-divulgatore, un pensatore-filosofo, un promotore-pedagogo, un designer di fama internazionale. Credo che “artigiano” sia la definizione da lui più amata, un lavoro dove la fatica del fare viene compensata dalla soddisfazione del realizzare con le proprie mani qualcosa di bello, di positivo, di utile. Dopo essersi dedicato per più di un decennio a ricerche sulla psicologia della visione, sulla programmazione di strutture percettive e sulla metodologia della progettazione, nel 1962 partecipa, nella sede milanese della Olivetti, alla rassegna Arte programmata, movimento artistico così chiamato da Bruno Munari e Giorgio Soavi. 

Durante la sua lunga carriera, Enzo Mari si è confrontato con i materiali più diversi, dal vetro al ferro, dal marmo alla ceramica. «In un rapporto non alienato», sono parole sue, «tra uomo e oggetto fabbricato, con legami forti a livello di pratica e autonomia di pensiero». 

Aveva cominciato a lavorare a undici anni per contribuire in prima persona al sostentamento della sua famiglia, facendo i lavori più duri e più umili. Il padre, uomo di poche parole, prima di morire ebbe il tempo di raccontargli di suo nonno, calzolaio di Spinazzola (Bari). Era solito fare scarpe che dovevano durare tutta la vita. Altro che società dei consumi. Questo tramandato modo di essere è stato per il nipote Enzo un’eredità inestimabile. A casa Mari non si parlava mai di politica, non c’era la radio e non si compravano i giornali, ma il padre aveva acquistato in edicola le dispense dei classici, Omero, Virglio, Tasso, Ariosto e le aveva rilegate con cura. A dieci anni, Enzo divenne il primo lettore di questi testi cercando di decifrarne le parole. Alcuni accostamenti inaspettati suscitavano in lui grandi emozioni. Cominciava a rendersi conto dei problemi della qualità della forma «che quando è bella, colpisce al cuore». 

Mari vorrebbe dare il Nobel a tutti i bambini di due anni, ancora liberi, ancora intelligenti, ancora senza regole e, a quell’età, «capaci di imparare una parola ogni ora», come afferma Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Mari artista ha cercato di non dimenticare se stesso bambino, procedendo da solo in una strada impervia, unico modo per preservare la propria libertà, senza vergognarsi di progettare e realizzare anche idee apparentemente ingenue. Gli unici veri maestri della sua traversata solitaria sono stati i grandi del Rinascimento. La sindrome di Stendhal l’ha avuta durante e dopo i due giorni trascorsi, quand’era ventenne, nella Cappella sistina. «Una volta uscito mi venne da piangere: avevo capito che per raggiungere una perfezione artistica del genere, avrei impiegato anni di studio e di lavoro. E io, purtroppo, non potevo permettermelo: dovevo mantenere la mia famiglia. Guardare da vicino l’arte antica, toccarla con mano, mi ha aiutato più che leggere mille libri. È stata una presa di coscienza. Ho capito che con la stessa qualità dei grandi pittori del passato potevo fare dei buoni oggetti d’uso comune». 

Per Mari, il design può essere paragonato a una famiglia dove la madre, sognatrice e utopista, crea la forma, disegna e progetta; mentre il padre, imprenditore, fa i conti e considera la realtà dei fatti. Esattamente come avviene fra un regista e un produttore, bisogna trovare un punto d’incontro per realizzare il film. Mari si è sempre posto contro l’economia di mercato, contro le mode, contro la ridondanza e contro lo sfruttamento dell’operaio alla catena di montaggio e ogni volta che è stato in stabilimento, in fabbrica, ha spiegato il proprio lavoro a chi lo doveva realizzare. Di solito l’operaio non deve pensare, perché questo rallenta la produzione. Enzo Mari ha sempre applicato una morale senza deroghe e scelto un design che ha avuto come obiettivo la qualità del linguaggio, una qualità eminentemente politica, opponendosi sempre a operazioni di puro profitto e riuscendo spesso a dare alla luce nel contempo oggetti e pensiero.


16 animali (1957), prodotto da Danese in legno nel 1959 e successivamente anche in poliuretano.


Calendario perpetuo da tavolo Timor (1966), prodotto da Danese nel 1967.


Tonietta (1980), prodotta da Zanotta nel 1987.

Nel 1974, per aiutare la gente a valutare autonomamente la qualità di un mobile, Mari ha pubblicato il Manuale di autoprogettazione, promettendo a chi avesse fatto fronte alle spese postali di mandargliene una copia. Sono progetti primari, ma dalle forme perfette, facili da realizzare, in legno grezzo, «da lasciare a taglio di sega». In pochi mesi, ben cinquemila esemplari del manuale furono spediti in tutto il mondo. Il “New York Times” ne scrisse diffusamente. 

«Nihil sub sole novum». Enzo Mari ci ricorda come al Museo archeologico di Heraklion, a Creta, sia esposto un campionario ceramico di vasi, ciotole, tazze e tazzine, ascrivibile alla civiltà minoica, cioè a tremilasettecento anni or sono. Si tratta di forme che potrebbero essere state disegnate oggi. 

«Se dovessi fare una mostra dei migliori cento oggetti degli ultimi cento anni, novantacinque uscirebbero dall’industria e non più di cinque sarebbero pezzi firmati di design». 

Gli oggetti di Enzo Mari popolano le nostre case e ci parlano. Recitano versi comunisti e romantici. Guardano avanti come il poeta turco Nazim Hikmet nella sua poesia, Nasceranno uomini migliori

«Nasceranno da noi uomini migliori. / La generazione / che dovrà venire / sarà migliore / di chi è nato / dalla terra, / dal ferro e dal fuoco. / Senza paura / e senza troppo riflettere / i nostri nipoti / si daranno la mano / e rimirando / le stelle del cielo / diranno: “Com’è bella la vita!”».


Struttura 1059 (1964), alluminio anodizzato naturale e nero.


Proposta per un'autoprogettazione (1973) per Simon International.

ART E DOSSIER N. 340
ART E DOSSIER N. 340
FEBBRAIO 2017
In questo numero: VISIONI ALTERNATIVE Gli zingari nell'arte. Dentro l'opera: leggere l'arte contemporanea. Beard: animali in scena. Il design di Enzo Mari. La fotografia di Mario Cresci. IN MOSTRA Caravaggio e natura morta a Roma, Art Deco a Forlì, Avanguardie russe a Londra, Manzù e Fontana a Roma.Direttore: Philippe Daverio