A testimoniarlo il lungo e complesso processo intentato dopo il fattaccio da Orazio contro Tassi e durato da marzo a novembre del 1612. Nella Supplica di Gentileschi all’autorità giudiziaria era citato anche Quorli (morto nell’aprile del 1612). Il pittore accusava Tassi di avere «forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte» la figlia con l’intromissione di Cosimo Quorli nel «negotio osceno». Forti le accuse reciproche, micidiali le offese. Tassi, per difendersi, in una lettera del 22 aprile 1612 dal carcere di Corte Savella all’avvocato di Orazio, Giovan Battista Stiattesi, aveva affermato che se il Gentileschi avesse continuato a essergli contro si sarebbe opposto con le unghie e con i denti, concludendo con frasi oscene e umilianti «non lo stimo un ficho».
Ma il corso della vita non risparmierà altri dolori e umiliazioni a Orazio. Le mancate trasferte a Firenze e Venezia, la poca stima dei Medici. Dopo lo scandaloso processo, Gentileschi se n’era andato da Roma ad Albano Laziale, ospite dei Savelli, signori legati all’impero.
Lì aveva eseguito affascinanti dipinti ripresi da modelli reali, giocati su una luce sottile e sempre più chiara. Ma lui mirava ad altro, a un impiego presso una grande corte italiana o europea. Come era successo alla figlia Artemisia, che, se anche infamata da un vergognoso processo, era diventata tra il 1613 e il 1620 una pittrice di livello internazionale alla corte dei Medici, sede che attirava fortemente Orazio. Ma Piero Guicciardini, ambasciatore dei Medici a Roma, al quale il segretario mediceo Andrea Cioli aveva richiesto il 16 marzo 1615 un parere sulle qualità artistiche del pittore, aveva risposto il 27 dello stesso mese con un giudizio molto negativo. In sostanza diceva che Orazio non era nient’altro che un diligente imitatore di ciò che gli si poneva di fronte. Non lo si poteva denigrare di più.
Il pittore aveva tentato di trovare lavoro a Venezia, attraverso un Medici. Niente da fare neppure lì. Persino il papa gli aveva preferito Giovanni Lanfranco per decorare nel 1619 la Loggia della benedizione in San Pietro, nonostante l’accorata richiesta di Orazio, che sottolineava il suo impegno.
Ancora più triste il fatto che a procuragli problemi ci fosse la stessa figlia Artemisia. Tra loro non era corso buon sangue sin dall’inizio. La ragazza era una ribelle, anche se eccezionalmente dotata in pittura. Gli aveva dato filo da torcere per la sua esuberanza. Anche a Firenze aveva dato scandalo: si era fatta un amante sotto gli occhi di tutti, aveva permesso che il marito dilapidasse la sua dote, si era indebitata con il granduca e con vari fornitori. Così, al ritorno a Roma nel marzo del 1620, tra padre, figlia e fratelli erano volati schiaffi e botte. Le incomprensioni dureranno sempre, al punto che il pittore non citerà Artemisia nel suo testamento, a differenza dei fratelli maschi, che pure gli avevano procurato grane.
Finalmente, nel 1624, un invito di prestigio per il pittore a Parigi da parte della fiorentina Maria de’ Medici, regina di Francia. Ma in quella importante corte Orazio soffriva per la concorrenza di Rubens e di altri artisti più congeniali alla sovrana, che, alla fine, nel 1626 lo spedisce a Londra. Ma quale fu davvero il motivo che spinse Orazio a lasciare Parigi dopo solo due anni. Secondo lo scrittore a lui contemporaneo Joachim von Sandrart, non si era trovato bene. Il cardinale Spada in una lettera del 7 luglio 1629, scritta a Francesco Barberini, per spiegare il rifiuto di Guido Reni a trasferirsi in Francia, affermava in maniera sibillina: «Forse anco vien spaventato da qualcuno con l’esempio del Pittor Gentilesco, e col mettergli innanzi quei pericoli ch’ in paese straniero possono sovrastargli da l’invidia, e da l’emulazione d’altri pictori». Chissà cos’era successo, cattiverie, invidie anche lì.
Ma le maggiori delusioni il «superbo e astratto toscano », come lo definisce Roberto Longhi nel 1916, le ha in Inghilterra. Nel soggiorno londinese, prima presso il duca di Buckingham, suo mecenate, e poi presso una propria abitazione, lavora al soldo di Carlo I, che non lo farà mai suo pittore ufficiale, come invece Antoon van Dyck o altri artisti più graditi. Orazio a Londra deve combattere contro l’ostilità di Balthasar Gerbier, potente architetto al servizio del duca di Buckingham e del re, e contro la concorrenza di Rubens e di artisti nordici, francesi, fiamminghi, tedeschi. I suoi stessi figli maschi, agenti del re per l’acquisto di quadri, si comportano male e gli creano grossi problemi. Ma soprattutto a demoralizzarlo era l’indifferenza di Carlo I verso la sua pittura, tanto da fargli desiderare di tornarsene a casa. Nell’ultima lettera, del 1° aprile 1637, all’antico mecenate Giovanni Antonio Sauli scrive: «Et [il re] a me faccia gratia di morire dove io son nato come io [h]o deto a questa Maesta più di una volta né mai a questo mi [h] a dato risposta sapendo che non desidero altro». Della sorte di Orazio al re importava davvero poco.