Dopo la breve pausa di Valenciennes, richiamato dalla vivacità culturale ed economica della capitale, il pittore è di nuovo a Parigi ove, incoraggiato dagli amici-committenti Pierre Sirois, mercante d’arte e suo primo cliente, e Pierre Crozat, banchiere e facoltoso collezionista, si presenta all’Académie Royale. Per l’ammissione ufficiale gli viene commissionata un’opera il cui soggetto è eccezionalmente lasciato alla sua libera iniziativa ma che sarà in grado di presentare solo nell’agosto del 1717, dopo numerosi richiami e proroghe. Si tratta del Pellegrinaggio all'isola di Citera oggi al Louvre ove il tema citeriano dell’opera precedente, pur rielaborato, è avvolto dalla stessa atmosfera densa di languore amoroso. Molte sono le ambiguità; per esempio non è affatto chiaro se i pellegrini stiano lasciando l’isola o siano appena arrivati e i gesti accennati e le espressioni enigmatiche non consentono di sciogliere questo nodo sebbene i colori del tramonto inducano a pensare a un imminente rientro dalla scampagnata. Speranza, sogno, desiderio e forse malinconia, il dipinto offre a chi guarda una ricca gamma di sfumature sentimentali. Qualificando il luogo, l’erma di Venere, simulacro mutilo e silente, sorveglia sorniona i personaggi la cui azione sembra mimare le fasi dell’amore. Leggendo da destra a sinistra: una prima coppia esprime l’innamoramento, metaforicamente reso da Cupido che tira la gentildonna per l’abito, la seconda rimanda al potere esaltante dell’amore, evocato dall’uomo che solleva la donna, la terza all’amore consolidato e alla nostalgia di quelle emozioni impersonata dalla pellegrina in piedi girata verso la seconda coppia. La felice composizione delle figure e dei gesti, quasi un balletto dalla raffinata coreografia, riscuote un evidente successo, tanto che, oltre a spalancare al pittore la porta della prestigiosa istituzione, gli vale anche la commissione - forse a opera dell’amico collezionista Jean de Jullienne - di una replica, riconoscibile nella versione di Berlino. Il confronto fra i due dipinti, analoghi per colori e dimensioni, rivela tuttavia svariate differenze: le coppie protagoniste in primo piano sulla destra da tre sono diventate cinque, gli amorini appaiono moltiplicati ma soprattutto le montagne della precedente sono state sostituite qui da un cielo azzurro, a suggerire, con la desiderabile condizione meteorologica, l’atmosfera perfetta della scampagnata. A sinistra la navicella ha perduto i suoi marinai ricevendo in cambio dei passeggeri e una grande vela rosa, uno stendardo e un albero. Che si tratti di partenza o di arrivo, le differenze sembrano tradire una sostanziale mutazione di intenti di cui è emblematico segnale il passaggio del simulacro di Venere da erma a scultura compiuta. L’allusione ha ceduto il passo alla narrazione. Leggendo da destra a sinistra, ai piedi e alle spalle della coppia raffigurante l’innamoramento, le due aggiunte sembrano declinare al maschile e al femminile le aspettative amorose.
Lo scudo e l’elmo di Marte, accanto alla coppia in basso, sembrano indicare come per l’uomo l’amore rappresenti la resa, la fine delle ostilità, mentre esprime il tenero romanticismo femminile la fanciulla che sotto l’albero accoglie nella veste i fiori donati dal cavaliere: rose sacre a Venere che, offerte e accettate, simboleggiano l’amore condiviso nel personale lessico galante di Watteau. Non più mutila la statua di Venere, sensuale come un personaggio in carne e ossa, nel sottrarre a Cupido arco e frecce, segnala che, come il suo aiutante, è vigile e attiva. L’amore, che nella versione del Louvre assisteva impotente al suo effetto sull’umanità, nell’opera di Berlino è integro e pronto a cogliere il momento propizio per colpire. Una testa di satiro dal basamento della statua ricorda come senza l’istintivo desiderio l’amore non possa esistere. Considerate nell’insieme, le due opere si mostrano come una sorta di traduzione “moderna” del topos platonico della Venere Urania, idolo dell’amore spirituale, e della Venere Pandemia, icona dell’amore terreno, ma la chiave di lettura filosofica non esclude sfumature sovversive, segnali di reazione alla monarchia assolutista. La critica ha ravvisato infatti un collegamento fra i Pellegrinaggi e il balletto Les Amours déguisés creato da Louis Fuzelier nel 1713 in dichiarata polemica con l’opera danzata dall’analogo titolo di Ballet des Amours déguisés composto circa cinquant’anni prima da Jean-Baptiste Lully. Entrambi ambientati nell’isola di Venere, i due balletti si distinguevano per epoca e contenuti dacché se l’opera di Lully, ben inserita nella propaganda assolutista di Luigi XIV, presentava coreografie incentrate sulla figura del re, quella di Fuzelier, composta per l’Opéra di Parigi, era invece modulata sull’interazione fra le coppie e, grazie alla maggiore libertà corporea, si proponeva come antitesi al modello di riferimento. Costruiti su coppie dialoganti varie per atteggiamenti e abbigliamento, i Pellegrinaggi di Watteau richiamano, con i passi del minuetto, la Citera del balletto di Fuzelier e i suoi mascherati valori trasgressivi graditi al pubblico parigino ormai quantomeno lontano dalla corte di Versailles per stile di vita e ideali.
Inizialmente registrato nei verbali dell’Académie Royale, il titolo attuale venne poi corretto in Fête galante (Festa galante) una definizione generica che, rivelando tutta l’incertezza degli accademici nel riconoscere nell’opera il tema mitologico, attesta di fatto la nascita di una declinazione tutta francese della scena di genere consacrando Watteau a suo inventore.