Grandi mostre. 4
Tancredi Parmeggiani a Venezia

VISIONI
DI UN’ANIMA INQUIETA

Tra i vari aspetti che si possono cogliere nelle opere di Tancredi spicca sicuramente la matrice picassiana. Ma nel percorso compiuto dal più “maudit” degli artisti veneti, altri elementi affiorano in superficie. È quanto emerge dalla proposta espositiva in corso alla Peggy Guggenheim Collection.

Sileno Salvagnini

Potrebbe stupire che a distanza di cinque anni dalla grande retrospettiva su Tancredi Parmeggiani (Feltre 1927 - Roma 1964) curata da Luca Massimo Barbero nella città natale dell’artista, lo stesso curatore ne allestisca un’altra, non meno importante, alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia. In realtà in quest’ultima le novità sono molte, a partire dalla ricostruzione filologica delle diverse donazioni di opere del pittore da parte della collezionista newyorkese a diversi musei americani, molte delle quali sono presenti nella mostra odierna. Chi era Tancredi? Intorno al 1945, appena diciottenne entrò in contatto, a Venezia, con pittori come Guidi, Pizzinato e Vedova.

Il carattere indomabile lo spinse due anni dopo a tentare il viaggio a piedi in quella che allora veniva ancora ritenuta la patria degli artisti, vale a dire la Francia. Non riuscì tuttavia a giungere a Parigi e, non ancora maggiorenne, fu rimpatriato. Arrivato alla maggiore età, ed entrato in possesso di una piccola eredità, ritornò a frequentare l’ambiente veneziano, dove nel 1949, alla Galleria Sandri, ebbe la sua prima mostra personale. Tancredi dapprima conobbe gli astrattisti romani di Forma 1, poi gli spazialisti milanesi. Attraverso i primi, in particolare Turcato, riuscì a essere presente con tre dipinti alla grande mostra Arte astratta e concreta in Italia, che si tenne nel 1951 alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, allora condotta con grande passione e intelligenza da Palma Bucarelli. La vita avventurosa lo spinse poi nel 1952 ad andare a vivere in casa di Peggy Guggenheim. E fu l’unico artista, dopo Pollock, ad avere un contratto con la collezionista: segno che ella ne intuì e dunque capì lo spirito irritante ma anche rivoluzionario, l’anima tormentata di una sorta di “pittore maledetto”.

Tancredi fu l’unico artista, dopo Pollock, ad avere un contratto con Peggy Guggenheim


La mostra si articola in undici sale con oltre novanta opere. Nella numero 1 ci sono i primi disegni e i primi dipinti a partire dal 1946 fino al 1948. Sono piuttosto eloquenti perché mostrano un giovane, irrequieto quanto si vuole, ma attento e intellettualmente curioso, in un’affannosa ricerca di modelli pittorici che spaziavano dal primitivismo di Gino Rossi - pittore “maudit” assai ammirato in quegli anni a Venezia - al Novecento tardoimpressionistico di Arturo Tosi, dal pensoso impasto cromatico di Saetti al postpicassismo aleggiante nel Fronte nuovo delle arti, specie in Morlotti e Pizzinato. Un giovane dalla matita pensante assai rapida, come testimoniano i numerosi ritratti del maestro Conversano, mediocre pittore che lo ha svezzato. Per non parlare dell’infatuazione per Picasso che seguì alla grande mostra alla Biennale del 1948 - non la prima in assoluto sul pittore spagnolo organizzata nei Giardini dell’esposizione d’arte veneziana, ma sicuramente la più importante. Se ne ha traccia nei disegni e nelle numerose tempere senza titolo dal chiaro stile cubista; o in dipinti che paiono autoritratti (e uno lo è di certo) che sembrano isolare l’aspetto più tribale e totemico del verbo picassiano. Si passa alla sala 2 con la sorpresa di vedere Tancredi da inizio anni Cinquanta fervente discepolo dell’astrazione. 


Senza titolo (Autoritratto) (1946).

Andrebbe qui subito precisato che il paragone fra Tancredi e l’Action Painting di Pollock, che a prima vista si sarebbe invitati a fare - specie negli acquerelli e pastelli dei primi anni Cinquanta, provenienti dalla donazione Giorgio Bellavitis, oltreché ovviamente in quelli della Peggy Guggenheim Collection -, regge fino a un certo punto. Intanto perché a trionfare non è la materia pittorica, né il gesto, ma la pura bidimensionalità cromatica. In secondo luogo perché, quantunque Tancredi avesse visto nel 1948 alla Biennale la raccolta della collezionista americana - e quindi anche i Pollock - nell’immediato fu attratto, lo si è visto, più da Picasso che non dall’espressionismo astratto americano.

In questa stessa sala colpisce Primavera (1951), gouache e pastello di grandi dimensioni proveniente dal MoMa di New York, una delle opere donate da Peggy, dal sapore apertamente spazialista. Tendenza che prosegue nella successiva sala 3 con Senza titolo (Aspirazione a New York), oppure con opere del 1953 della Peggy Guggenheim Collection, o anche con Ricordo di Raoul, dello stesso anno, del Museo del Novecento di Milano, o ancora Natura vergine, del 1954, appartenente alla Fondazione Domus di Verona. 

Nel 1953 a una mostra alla Galleria del Naviglio di Milano, stabilendo un affascinante confronto, Tancredi scriveva: «Mondrian ha riconfermato un termine relativo visivo di spazio. Io, ricollegandomi a lui ho trovato un termine relativo, illusivo di spazio: il punto, in quanto è il più piccolo spazio mentalmente considerato». In effetti, lavori come Senza titolo (1954) della Peggy Guggenheim Collection, o Senza titolo (Soggiorno a Venezia), di Ca’ Pesaro - Galleria internazionale d’arte moderna, entrambi nella sala 4, ricordano il primo Mondrian. Ancora una volta, quindi, non la coeva arte americana.

Nelle sale 5 e 6 troviamo alcuni dei capolavori più commoventi di Tancredi: Senza titolo (Composizione) del 1954, e Composizione (1957), entrambi della Peggy Guggenheim Collection; Senza titolo (Composizione) del 1957, gigantesca tela di oltre due metri donata da Peggy al Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford (Connecticut), e Spazio, acqua, natura, spettacolo, altra enorme tela dell’anno dopo, sempre donata da Peggy al Brooklyn Museum di New York.


Ricordo di Raoul (1953), Milano, Museo del Novecento.

Radi ectoplasmi privi di corpo sembrano riscattati da un colore che resta immanente


A metà degli anni Cinquanta Tancredi lascia definitivamente la casa di Peggy, dove era ospitato, e nella quale aveva avuto una relazione con la figlia della collezionista, Pegeen. Della produzione successiva si possono fare - e sono stati fatti - riferimenti a molti artisti, dal momento che Tancredi era raffinato ma soprattutto simpatetico conoscitore di opere d’arte: a Deluigi ovviamente per la luce che genera il colore, per continuare con una vasta gamma che va da Matisse, a Tobey, al gruppo Cobra - penso per esempio a Senza titolo (W la pittura astratta), del 1960, della sala 10 -, a Wols, allo stesso Dubuffet.

Senza titolo (Composizione) (1957), Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art.

Quello che tuttavia a nostro avviso i grandi “teleri” - e usiamo appositamente questa parola per ricordare la grande passione per il quadro che Tancredi aveva - comunicano è una sorta di amore per la pittura tutto italiano, anzi veneto; in particolare verso l’arte del Cinquecento, che a suo dire poteva - e ciò forse gli creava trepidazione - gareggiare con quella dei grandi referenti europei e d’oltreoceano, e anche primeggiare. E se proprio si volessero cercare suggestioni verso la pittura coeva, ebbene Tancredi non le trova in quella materica ma al massimo in quella gestuale e segnica di Hartung: l’esempio è un pastello senza titolo del 1950 donato da Peggy Guggenheim a Christina Thoresby. In Norvegia, del 1959 (sala 9), al pari di un moderno Monet, Tancredi registra quasi la sensazione ottica del freddo Nord. Impressionanti e toccanti a un tempo, nella sala 11, i tre dipinti dedicati a Hiroshima, che vengono esposti insieme per la prima volta: nei quali la sorta di radi ectoplasmi che fluttuano privi di corpo sembrano riscattati da un colore che comunque, a onta dell’olocausto, resta immanente. Nella medesima sala consolidano ulteriormente questo inno spasmodico al colore i Diari paesani e i Fiori dipinti da me e da altri al 101%, tutti eseguiti fra 1961 e 1962.

Questi cicli ricordano stranamente nell’evoluzione di Tancredi - e della sua malattia: si suiciderà due anni dopo - il valore taumaturgico che rivestiva in Van Gogh un quadro ricco di colore, per noi sconvolgente ma per lui rassicurante, come Corvi in un campo di grano, dipinto pochi giorni prima del suicidio (1890). Una specie di difesa, secondo la magistrale lettura dell’opera da parte di Meyer Schapiro, contro la disintegrazione dell’artista, come di colui che s’aggrappa disperatamente a colori e suggestioni cercando così di superare la nevrosi.


Senza titolo (Ciclo dei Diari paesani) (1961).

La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba.
Tancredi. Una retrospettiva

a cura di Luca Massimo Barbero
Venezia, Peggy Guggenheim Collection
Dorsoduro 701
fino al 13 marzo 2017
orario 10-18, martedì chiuso

catalogo Marsilio
www.guggenheim-venice.it

ART E DOSSIER N. 338
ART E DOSSIER N. 338
DICEMBRE 2016
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO: la volta che mostrai a Warhol il Cenacolo di Leonardo. AI WEIWEI: l'intervista. IN MOSTRA Dietro la tenda a Düsseldorf, Miniature a Venezia, Rubens a Milano, Tancredi a Venezia, Warhol a Genova, Lindbergh a Rotterdam, Bob Wilson a Varese.Direttore: Philippe Daverio