Studi e riscoperte. 1
Giotto, Warhol e la sintesi di un’epoca

IL SELEZIONATORE
DI ICONE CONDIVISE

L’abilità dei grandi artisti di sintetizzare l’essenza di un’epoca spesso è straordinaria. Che dire di Giotto e dei suoi affreschi raffiguranti architetture policrome, esaltazione e documento di edifici medievali? E di Warhol, capace, attraverso la riproduzione di miti, di offrire la complessità del tempo odierno? La parola al nostro direttore che ha collaborato con il protagonista della Pop Art nell’ultima mostra tenuta dall’artista.

Philippe Daverio

Percepire il sapore di un’epoca non è mai cosa facile. Spesso i filtri che la stessa epoca trasmette sono i primi a ingannare la visione che essa potrebbe dare. Ma poiché la Storia non è mai suscettibile di essere rivissuta, può solamente essere intuita, e talvolta la documentazione offerta dagli artisti maggiori è tale da consentire un’accelerazione di questo percorso percettivo. In questa ottica le opere di Giotto si fanno essenziali per capire non solo l’immaginario ma pure una parte della realtà vissuta dai popoli dell’Italia centrale agli albori del XIV secolo. Le città del Medioevo che nella percezione e nei restauri del XIX secolo dovevano apparire di pietra viva e quindi grigie erano invero, secondo Giotto, intonacate e policrome. Certamente le architetture autentiche non corrispondevano esattamente a quel misto emozionante di romanità esaltata e di Gotico fantasioso che si riscontra sulle pareti affrescate della basilica di Assisi; la raffigurazione artistica sublimava l’esistente per portarne il messaggio condensato nella pittura, ma i valori di base trasmessi erano proprio quelli autentici: il colore, la densità abitativa, l’ambizione urbana. I codici miniati della medesima epoca, ben meno noti al grande pubblico, confermano questa particolare visione policroma di un Medioevo che si affermava nella totalità della sua ricchezza e del suo fragore.

Guardare Giotto oggi corrisponde per conseguenza al compiere un tuffo nel tempo e intraprendere un viaggio nell’immaginario degli uomini nostri antenati di oltre venti generazioni fa. E la forza comunicativa di quegli affreschi nati alle soglie del XIV secolo corre parallela a immagini riscontrabili nei codici miniati, il che dà prova della loro veridicità. La superiorità di Giotto consiste nella capacità riassuntiva degli anni che ebbe l’avventura di vivere, sicché ciò che oggi salta alla vista non è tanto la realtà effettiva del primo Trecento quanto il senso stesso riassunto e sublimato di questa realtà, il quale supera ogni documentazione oggettuale del medesimo periodo. In ciò consiste la sua potenza icastica.


La forza comunicativa degli affreschi di Giotto corre parallela alle immagini dei codici miniati


Quando fra sette secoli i nostri discendenti tenteranno di percepire il mondo che si sviluppava nella “modernità” del XX secolo ormai per loro lontana, non sarà sufficiente rivedere i nastri in bianco e nero di un archivio televisivo ritrovato per caso in una grotta del mar Morto. Non sarà intuibile immediatamente l’atmosfera dei romanzi o dei film superstiti e restaurati. Le informazioni da decriptare saranno troppe e al contempo troppo poche. Il tuffo intuitivo nell’epoca nostra sarà invece accelerato dalle opere di Warhol.


Giotto, La cacciata dei diavoli da Arezzo, dal ciclo di affreschi con Storie di san Francesco (1296-1304), Assisi, San Francesco, basilica superiore.

La corrente complessiva della Pop Art sembra aver voluto sublimare il mondo nel quale evolveva per coglierne l’essenza; perciò ne raccolse gli elementi significanti. Il Mickey Mouse di Eduardo Paolozzi, la bandiera americana di Jasper Johns, il lipstick e la sigaretta di Tom Wesselmann sono tutti elementi costitutivi di una sensibilità collettiva portata ai minimi suoi termini. Ma richiedono tutti questi elementi parziali un’interpretazione ulteriore, una guida per l’uso cerebrale che se ne intende fare. Ben più semplificati sono i miti di Andy Warhol: gli incidenti automobilistici, le lattine di zuppa, le facce di Marilyn come quelle di Mao corrispondono a miti collettivi già certificati dalla moltiplicazione infinita delle loro apparizioni nel quotidiano prima di passare a fissarsi sulle tele. E vi era per lui, già nella scelta dell’argomento da affrontare, una operazione di concetto che consisteva nella selezione dell’icona fra la miriade di offerte messe a disposizione dal mondo della comunicazione. Era egli nato, umilmente, come disegnatore di articoli di abbigliamento; e da quelle scarpe colorate passò brevemente attraverso la pratica di disegnare i manifesti che le pubblicizzavano. Scoprì, da vero inventore, la passione per la tela come supporto per dare al suo percorso ludico una forma concreta e stabile. Le serigrafie necessarie alla realizzazione furono un modo geniale per abolire il colpo di pennello e la densità della materia pittorica. L’opera d’arte si fece quindi naturalmente riproducibile in quanto tecnicamente nata già riprodotta. Tutto corrispondeva a una cultura rinnovata dell’epoca che passò alla Storia come quella del consumismo. E di questo consumismo fu egli il cantore maggiore.

I soldati crociati di Federico II alle porte di Gerusalemme nel 1229, miniatura tratta dal Descriptio Terrae Sanctae di Burcardus Theutonicus o Burcardo di Monte Sion, manoscritto (XIV secolo), Padova, Biblioteca del Seminario vescovile.


Campbell’s Soup Can (Turkey Noodle) (1962), Venezia, Ca’ Pesaro - Galleria internazionale di arte moderna

Warhol non intese parafrasare l’affresco di Leonardo, ma le migliaia di riproduzioni che circolavano per il mondo


Ebbi la fortuna di collaborare con lui nell’organizzazione dell’ultima mostra della sua vita, quella dedicata all’Ultima cena di Leonardo che si tenne a Milano nel 1987 e che Alexandre Iolas gli aveva commissionato per l’inaugurazione della galleria espositiva voluta dal Gruppo Credito Valtellinese in occasione dell’apertura della nuova sede nel Palazzo delle Stelline. Il palazzo si trova di fronte a Santa Maria delle Grazie dove, nel refettorio dei domenicani, sopravvive l’affresco di Leonardo. Warhol vide l’affresco solo all’inaugurazione della sua mostra. L’opera originale era del tutto ininfluente per il lavoro che aveva eseguito. Non intendeva infatti parafrasare l’affresco, bensì le migliaia di repliche e riproduzioni che di questo circolavano per il mondo. Non fu, la sua, altro che una mostra dedicata al mito. E ricomparve la composizione leonardesca in versione “camouflage” militare, oppure in versione strisce di quei colori acidi delle bottiglie di medicinali che ossessionavano Andy, oppure ancora coperta da strisce di colore trasparente come se si dovesse rivelare dietro a filtri. L’effetto fu travolgente. Andy se ne tornò a New York soddisfatto del bagno di folla durante l’inaugurazione e irritato solo perché in albergo non gli avevamo messo i gladioli nei vasi di vetro, quei gladioli banali che si suole vedere sulla poppa delle barche di lusso quando sono all’ancora; avevamo commesso l’errore di richiedere i fiori a un sofisticatissimo fiorista milanese che gli aveva preparato un grande vassoio di primule rare che avrebbero fatto la gioia di una contessa asburgica ma non di un artista nato in una famiglia proletaria cattolica di origine slovacca e il cui cognome Varchola era stato americanizzato in Warhol. I gladioli sono un mito pop che passerà alla Storia, le primule milanesi certamente no. Un mese dopo, il 22 febbraio 1987 alle 5.45, in un ospedale newyorchese che la mitologia pop pone fra i migliori del mondo, Andy Warhol morì in seguito a un intervento alla cistifellea. Aveva allora cinquantanove anni. E i prezzi iniziarono a salire vertiginosamente. Giotto era morto a settant’anni, nel tardo Medioevo.


Philippe Daverio alla mostra di Andy Warhol dedicata all’Ultima cena di Leonardo nella galleria del Gruppo Credito valtellinese nel Palazzo delle Stelline a Milano (gennaio 1987).

Andy Warhol davanti a una delle molte versioni del ciclo dedicato all’Ultima cena di Leonardo realizzato in occasione della mostra milanese.


Andy Warhol, L'ultima cena (1986), New York, MoMA - Museum of Modern Art.

ART E DOSSIER N. 338
ART E DOSSIER N. 338
DICEMBRE 2016
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO: la volta che mostrai a Warhol il Cenacolo di Leonardo. AI WEIWEI: l'intervista. IN MOSTRA Dietro la tenda a Düsseldorf, Miniature a Venezia, Rubens a Milano, Tancredi a Venezia, Warhol a Genova, Lindbergh a Rotterdam, Bob Wilson a Varese.Direttore: Philippe Daverio