Grandi mostre. 3
Andy Warhol a Genova

PENSARE DA RICCO
SEMBRARE POVERO

Ha creato uno stile, ha rappresentato uno spartiacque nella scena internazionale del secolo scorso e continua ancora oggi a far sentire il suo peso. Come potrebbe essere diversamente per Warhol, il re del Pop? Ce lo racconta qui il curatore della retrospettiva a Palazzo ducale.

Luca Beatrice

il prossimo 22 febbraio saranno passati trent’anni esatti dalla morte di Andy Warhol. Eppure, nonostante un tempo già abbastanza lungo la sua influenza è ancora palpabile nel nostro presente ed è ben lungi dal considerarsi esaurita. Il cinema continua a interessarsi alla sua figura - è recente la notizia che nel 2017 Jared Leto, attore di culto, interpreterà il divo pop in un film di cui ancora non si sa molto. E poi la pubblicità, la moda, la televisione (che l’artista fece appena in tempo a conoscere, senza sfruttarne appieno le possibilità), la musica, l’editoria fino addirittura alla più importante invenzione del nostro inizio secolo, ovvero quei social network che incarnano la più celebre delle sue innumerevoli profezie: «Ciascuno in futuro avrà diritto ad almeno quindici minuti di celebrità».

La ragione del persistere dell’interesse nei suoi confronti sta semplicemente nel fatto che con Andy Warhol comincia l’arte contemporanea così come noi oggi la intendiamo. Certo, molto si deve al fatto che la sua esplosione coincide con gli anni Sessanta, decennio d’oro per l’Occidente postbellico in cui l’asticella creativa era posizionata davvero in alto. Se nel calendario della musica pop c’è un ante e un post Beatles, allo stesso modo in quello dell’arte dobbiamo parlare di un “before Andy” e di un “after Andy”.

Fin da quando, nel 1949, dalla provincia di Pittsburgh Warhol si trasferisce a New York a cercare fortuna, capisce innanzitutto che deve lavorare su se stesso affinché la gente si accorga di lui, a cominciare dai propri limiti e difetti, avvalendosi dei preziosi consigli e dell’assistenza della mamma Julia che decide di seguirlo per stargli vicino. È pallido, brufoloso, gracile, perde i capelli ma trova il modo di indossare una parrucca biondo platino, poi argento - il suo colore preferito -, collezionandone diversi modelli.

Apparire significa sintetizzare in pieno la “filosofia di Andy Warhol”, che nella sua stranezza si sforza di apparire normale. Lievemente eccentrico come lo può essere un “metrosexual” a New York nei primi anni Sessanta, pensa che il suo stile possa essere tranquillamente replicabile proprio come la sua arte, e tutti quelli che gli girano attorno tendono a imitarlo e a mostrarsi all’incirca come lui.

Lo stile e l’arte di Warhol confermano la sua assoluta flessibilità e il desiderio di sperimentazione senza alcun preconcetto, vivacemente contraddittorio. Non ostenta in alcun modo il fatto di essere un personaggio, anzi uno dei cardini del suo pensiero è «pensare da ricco, sembrare povero», validissimo slogan per la moda di oggi. Diversi capi di abbigliamento e accessori usati da Warhol possono tranquillamente far parte di un guardaroba contemporaneo: il giubbotto di pelle nera, i jeans stretti alla caviglia e lo stivaletto “beatle” reso famoso da Lennon, Mc- Cartney & company, i Ray Ban Wayfarer neri che poi diventano il segno distintivo della “sua” rockband, i Velvet Underground, qualche volta lo smoking o la camicia di raso colorato per le occasioni davvero speciali. 


Warhol in Drag (1981).

Non c’è nulla di davvero artistico nel suo vestire, tranne forse la maglietta bianca a righe orizzontali blu con scollo a barchetta, la classica marinaretta di tradizione bretone, molto simile a quella indossata da Picasso, Coco Chanel, Brigitte Bardot e dalle attrici della Nouvelle Vague, da Edie Sedgwick reginetta della Factory, ripresa da diversi stilisti tra cui Jean-Paul Gaultier e Paul Smith.


Nella sua stranezza si sforza di apparire normale


Warhol, inoltre, ha trasformato lo studio dell’artista in uno spazio aperto, alla moda, frequentato da persone di ogni tipo, non tutti raccomandabili. Insegue la celebrità a ogni costo, ma la celebrità è un’arma a doppio taglio. Il 3 giugno 1968 Andy Warhol è vittima dell’attentato che per poco non gli costa la vita (Valerie Solanas gli esplode contro tre colpi di pistola che lo feriscono gravemente).

Dopo settimane di ospedale, quando torna al lavoro, riduce drasticamente le apparizioni pubbliche, terrorizzato dal possibile ripetersi di simili episodi. E scherza con la morte, certamente per esorcizzarla. Accetta così di posare per Richard Avedon, mostrando all’obiettivo il torace pieno di cicatrici. E poiché deve trascorrere un periodo di convalescenza, si ritrova a passare molte ore del giorno e della notte davanti alla televisione: «Prima che mi sparassero», raccontava, «ho sempre avuto il sospetto che, invece di vivere un’esistenza reale, stessi guardando la televisione. Quando ti capita qualcosa davvero, è come guardare la tv: non senti niente. Nel preciso istante in cui mi sparavano seppi che stavo guardando la televisione. Ho sempre pensato di non essere del tutto presente. Ho sempre avuto l’impressione non di vivere, ma di guardare la tv. Un’intera giornata di vita è come un’intera giornata di televisione. Una volta cominciati i programmi, la tv non stacca e io neanche. Alla fine, l’intera giornata sarà un film».


Dollar Sign (1981), Nizza, Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain.

Andy Warhol. Pop Society

a cura di Luca Beatrice
Genova, Palazzo ducale
piazza Matteotti 9
fino al 26 febbraio 2017
orario 9.30-19.30, lunedì 14.30-19.30, venerdì e sabato 9.30-22
catalogo 24 Ore Cultura
www.palazzoducale.genova.it

ART E DOSSIER N. 338
ART E DOSSIER N. 338
DICEMBRE 2016
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO: la volta che mostrai a Warhol il Cenacolo di Leonardo. AI WEIWEI: l'intervista. IN MOSTRA Dietro la tenda a Düsseldorf, Miniature a Venezia, Rubens a Milano, Tancredi a Venezia, Warhol a Genova, Lindbergh a Rotterdam, Bob Wilson a Varese.Direttore: Philippe Daverio