XXI secolo
Jack Vettriano

EROTISMO
VELATO DI NOIR

Seduzione, passione, possesso, piacere avvolgono le figure femminili dipinte da Vettriano, scozzese autodidatta che tra citazioni dirette e gesti allusivi mette in scena nelle sue tele l’ammaliante gioco dell’eros.

Alessio Costarelli

Il tema erotico si snoda lungo la storia dell’arte nelle più diverse declinazioni, sempre evidenziando la compresenza di opposte e complementari visioni di esso: amore e passione, poesia e perversione, libertà e oppressione si mescolano in un’alternanza di piani semantici ed evocativi mai del tutto isolabili l’uno dall’altro. A questa caratteristica non si sottrae nemmeno il pennello di uno dei più noti e originali artisti contemporanei. Jack Vettriano(1), autodidatta formatosi sugli impressionisti (la cui lezione mai rinnegherà benché sempre attraverso il filtro della propria forte personalità artistica), rievoca nelle proprie tele - anche stilisticamente - ambientazioni anni Cinquanta alla Hopper (pittore peraltro molto interessato agli impressionisti), mentre con i suoi interni scuri illuminati da fioche lampade si inserisce con onore in un filone che da El Greco conduce a Georges de La Tour e oltre.

La sua intera produzione può essere ripartita in linea di massima tra soggetti d’esterno e d’interno: i primi, illuminati da una chiarissima luce diffusa, sono caratterizzati da una rappresentazione quasi hollywoodiana(2) dell’amore e dei sentimenti in generale, immersi in una quotidianità sottilmente pervasa di risvolti psicologici; i secondi, certo i più coinvolgenti, prediligono la penombra di bar e camere private (pur con splendide eccezioni), si nutrono d’indomabili passioni e narrano il più delle volte un intenso erotismo velato di noir.

Protagoniste delle sue storie sono le donne, con la loro ambivalente carica di fragilità e seduzione, di spavento e perdizione. Non è mai chiaro tuttavia se siano i personaggi femminili - figure tentatrici guidate da ipnotica concupiscenza - a solleticare e intrappolare quelli maschili, oppure se viceversa le donne si ritrovino - quasi calpestati giacinti di saffica memoria - come burattini tra le mani di uomini dei quali possono solo sperare di arginare la prorompente pulsione sessuale attraverso un accorto uso del proprio corpo.

Un epicureismo decadente che conquista il pubblico concedendogli quanto forse non potrà mai avere


Spesso però queste donne, discinte e sensuali, a loro modo aristocratiche, incarnano al massimo grado il desiderio umano (la cui poliedricità è il vero tema degli ombrosi quadri “indoor” di Vettriano) e di esso sono talvolta elevate a simulacri. Tuttavia, l’etimologia del termine desiderio (dal latino “de-sidera”, letteralmente “condizione da cui sono assenti le stelle”) allude a una “mancanza”, a un qualcosa che risiede al di fuori, spesso nel futuro, talora nel passato: ed è al passato che l’artista guarda con insistenza, mai con nostalgia. Il suo pennello non segue un sogno utopico, anzi, lo legge senza illudersi, consapevole dell’anacronismo di questa sua personale “mise en scène” degli anni Cinquanta: rifugiandosi nel passato egli lo reinterpreta, lo narra innovandolo e facendolo proprio attraverso il filtro della fantasia.

Da un certo punto di vista, i parti della sua mente sono infatti una straordinaria materializzazione del concetto sartriano di immaginazione, cui forse è utile rifarsi per comprendere quella che potremmo definire l’astrazione realistica di Jack Vettriano. Per Jean-Paul Sartre l’immagine è un atto, coscienza di qualcosa il cui contenuto non deriva però dal mondo esterno: l’immaginazione infatti non è “mimesis”, imitazione, bensì un’attività del tutto libera che mai soggiace a giudizi di verità o falsità e la cui funzione è invece derealizzante, ossia di tenere il reale, cui pure si rifà, a debita distanza. Immaginare è un atto di libertà nei confronti del mondo e qui l’artista lo compie verso il proprio mondo, relegato in un passato ancora prossimo.

Tutto è molto serio nelle opere di Vettriano: quasi non esistono sorrisi a intaccare l’impassibilità dei volti dei suoi personaggi, costantemente fermi in meste o ambigue attese oppure arresi al dominio di istinti primordiali che non possono controllare e che in fondo, nel piacere e nel possesso, li pervadono e li spaventano. Perché gli uomini e le donne ritratti in questa tormentata intimità non sono i veri attori delle sue scene. Più propriamente lo sono le loro maschere (“personae”), veicoli figurativi per la rappresentazione visiva di quanto v’è di più recondito nel rapporto che l’uomo ha con l’amore e con quella che per l’artista, come già per Dante, è la sua inevitabilità.


The Administration of Justice (1993).

Non è un caso allora che, come in Renoir, i personaggi - specie se maschili - spesso non mostrino tratti somatici definiti oppure siano parzialmente celati da ombre e cappelli, o visti di spalle: la schiena si fa spesso cardine della composizione, l’impersonalità del profilo primeggia sul dialogismo della frontalità, inquadrature parziali ostacolano lo spaziare della vista. Quasi mai accade che i personaggi - così fortemente legati fra loro - si volgano verso lo spettatore, infrangendo quella sorta di finzione teatrale che tanto l’arte contemporanea (ma non solo) si sforza di superare. Tutto il significato è affidato al gesto, prepotentemente imposto all’attenzione dell’osservatore grazie a inquadrature ravvicinate e a luci sapientemente orchestrate nella generale oscurità. Alla guida del platonico carro dell’anima, Vettriano favorisce evidentemente il destriero irrequieto della passione e lo fa attraverso il corpo della donna, per lui molto più di una musa: la sua intrinseca bellezza è la lingua parlata dal suo pennello.

Quello dell’artista scozzese rimane comunque un erotismo puro, composto e potente, fatto di intensità di sguardi, di gesti allusivi, di carni dischiuse, toccate, possedute. Molto di tutto ciò ruota infatti attorno alla tattilità e alla vista: i suoi personaggi esperiscono, toccando con invadenza od osservando distaccati, attimi di seduzione che s’arrestano sempre un istante prima, che ci conducono fin sulle soglie della passione e poi, dopo averci irretito i sensi con mille dettagli, lasciano alle nostre personalissime perversioni il compito di immaginare quanto si compie oltre il tempo del quadro. Anche la temporalità è però qui ambigua, in bilico tra l’arresto di un istante e l’eternità di un gesto dal valore universale. Momentaneità e ritualizzazione echeggiano ricorsivamente: e se da un lato la pulsione erotica improvvisa e irrefrenabile lega i corpi di amanti quasi sempre con ancora indosso parte degli abiti, l’affermazione della supremazia dell’istinto conduce il pittore, attraverso il ponte dell’erotismo come gioco, a infondere a molte scene un afflato prettamente rituale, iniziando l’osservatore a una mistagogia, un’iniziazione erotica dall’inusitata immediatezza comunicativa.

Il successo di Vettriano sta tutto qui, nel suo essere uno straordinario creatore di icone nel significato più novecentesco del termine. Eppure, mai sarebbe potuto essere figlio della Factory: rifuggendo quell’attualità che Warhol e compagni tanto ricercavano, egli mitizza una quotidianità che è - originalmente - solo emotiva e privata, mai esteriore, “pubblicitaria”, e in fondo proprio per questo da tutti ben più condivisa delle Marilyn di Warhol o della Coca-Cola di Schifano. Qual è però il senso di questo erotismo vintage, indeciso tra il “bondage” e il rito misterico? È chiaro che trattare in modo così esplicito eppure al contempo così allusivo un tema che Vettriano riesce nuovamente (e magistralmente) a rendere scabroso non può ricondursi a una semplice provocazione, a un espediente commerciale per una facile notorietà. Il suo è piuttosto uno sguardo sincero e tormentato alla natura umana e, prima ancora, alle proprie pulsioni e fantasie. 


Percorrendo con coscienza la linea che separa l’eros dalla pornografia, egli si sente irresistibilmente attratto da quel mondo di passioni e piaceri, spesso fugaci, spesso occasionali, che si pongono innanzi all’esistenza come l’unico antidoto all’intrinseca infelicità e incompletezza umana. Un epicureismo decadente, dunque, che traducendo visivamente l’animo del pubblico, lo interroga e lo conquista, concedendogli quanto forse non potrà mai avere. «I borghesi vogliono l’arte erotica e la vita casta. Meglio sarebbe il contrario», affermava Adorno, ed è come se Vettriano li accontentasse in ogni tela; col pregio di non confondere mai, nell’unire le sfere di fantasia e realtà, i confini tra gioco e amore. Scriveva Pasolini: «Non è vero che il sesso e l’amore siano una cosa sola: anzi, quasi sempre sono due cose del tutto dissociate. Anche se è vero che una goccia d’amore c’è sempre». Jack Vettriano, questo, è riuscito a dipingerlo.

(1) Alla nascita Jack Hoggart (Methil, Regno Unito, 1951). Vettriano è il cognome da nubile della madre, assunto nel 1988 come spartiacque tra la sua precedente vita e produzione dilettantistica d’arte e il nuovo e personalissimo stile, che lo consacrò come il favorito del pubblico e dei collezionisti fin dalla sua prima apparizione pubblica, in quello stesso anno, presso la Royal Scottish Academy. Per ulteriori dettagli biografici, cfr. A. Quinn, Jack Vettriano, Milano 2008.

(2) Ricorrente nell’arte di Vettriano è l’allusione al mondo del cinema e della musica, tanto importante che meriterebbe una trattazione a sé stante. Si noti poi la convergenza tra questo influsso e il modello hopperiano, di cui sono celebri proprio le ambientazioni e le inquadrature tanto di frequente ispirazione per registi e fotografi.

ART E DOSSIER N. 338
ART E DOSSIER N. 338
DICEMBRE 2016
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO: la volta che mostrai a Warhol il Cenacolo di Leonardo. AI WEIWEI: l'intervista. IN MOSTRA Dietro la tenda a Düsseldorf, Miniature a Venezia, Rubens a Milano, Tancredi a Venezia, Warhol a Genova, Lindbergh a Rotterdam, Bob Wilson a Varese.Direttore: Philippe Daverio