Arte in copia
Alis/Filliol

DENTRO ALLA SCULTURA
PER TESTARNE IL LIMITE

Singolare il lavoro di Gennarino e Respino, in arte Alis/Filliol. Accolgono l’eredità della tradizione scultorea ma fanno del loro lavoro creativo un continuo work in progress, mettendosi in gioco anche come performer nella realizzazione delle loro opere.

di Cristina Baldacci

Il lavoro di Alis/Filliol, nome d’arte che Davide Gennarino (Pinerolo, 1979) e Andrea Respino (Mondovì, 1976) si sono dati riprendendo i cognomi delle loro mamme, si definisce come un agire dall’interno, a livello tecnico-formale così come linguistico. Oltre a inserirsi nella lunga tradizione scultorea, di cui recuperano codici, materiali e procedimenti, che rinnovano attraverso una pratica altamente sperimentale, i due artisti si collocano in prima persona “dentro alla scultura” usando il proprio corpo come termine di paragone e misura. Cosa che permette loro di testare, e di conseguenza anche oltrepassare, un doppio limite: quello fisico del momento performativo e quello materico legato allo sviluppo processuale del lavoro, che tende, proprio per questo, a rimanere nella condizione del non-finito, o meglio, com’è stato giustamente notato, del «non finibile».

Di questo modo di procedere è un esempio Occupare il minor spazio possibile (2010). Mentre uno dei due artisti (Gennarino) stava rannicchiato su un pallet di legno costituendo con il suo corpo l’anima della scultura, l’altro (Respino) lo rivestiva prima di pellicola di alluminio e poi di poliuretano espanso per dare forma al calcoopera. Per riuscire a respirare in quella condizione claustrofobica, in cui ha rischiato l’asfissia - tanto che a un certo punto Respino lo ha sostituito -, Gennarino era attaccato, quasi fosse un cordone ombelicale con l’esterno, a un tubo-boccaglio, che è poi rimasto a far parte dell’opera.

Similmente sono nati i Ritratti di fantasma, una serie di corpi amorfi e sospesi - più per la loro incompletezza che per il fatto di essere a mezz’aria - in poliuretano, che si ergono su fragili piedistalli di legno. Il fantasma è qui il corpo dell’artista (o meglio di tutti e due) che, proprio come un’anima, non solo metaforica, ma anche testuale, sembra essersi liberato della sua soma. In un altro lavoro ancora, Robopac (2010), l’idea di base è rimasta la stessa, sono cambiati il metodo e i materiali. A fare da cardine per la futura scultura c’erano entrambi gli artisti che, in piedi su una pedana rotante azionata da una macchina impacchettatrice, si sono fatti avvolgere, strato dopo strato, da un bozzolo di pellicola di nylon.

In questo lavoro è evidente quanto il fatto di essere in due sia per Alis/Filliol un principio fondante, che determina non solo il processo ideativo e produttivo, ma anche l’idea che bisogna essere almeno in due per costituire, più ancora che un sodalizio, un nucleo sociale. Idea che riappare con forza, nonostante l’essenzialità dei mezzi, nell’immagine dei due guanti da carpentiere inchiodati alla parete (Destro diritto, destro rovescio, 2010). La loro particolarità è di essere ancora un paio di guanti, polverosi e sgualciti dall’usura (Alis/Filliol li hanno usati mentre erano al lavoro in una cava di marmo), pur essendo diventati tutti e due destri, dopo che uno è stato sfilato e capovolto.


Fratelli (2014).


Fusione a neve persa I (2008).

Alis/Filliol ci confermano che la scultura non è affatto una lingua morta


Questi strumenti del mestiere che non possono più essere utilizzati da uno solo degli artisti, ma unicamente da entrambi, diventano allora una sorta di autoritratto metonimico della coppia. Rappresentano due mani, e di conseguenza due teste, che sono l’una il corrispettivo dell’altra; come quel Giano bifronte di plastilina (Ianus n. 2, 2009) che Alis/Filliol hanno modellato stando uno davanti all’altro, ma al buio, condizione che li ha costretti a fare affidamento sulla sola memoria tattile. Quest’azione conoscitiva prosegue nel tempo: Ianus è stato pensato come una serie di autoritratti a cui i due artisti ritornano di tanto in tanto. Come a dire che l’identità, così come la materia di cui sono fatte le sculture, è mutevole, fluida, afferrabile solo per un istante (si pensi anche a Fratelli, 2014, altra coppia di autoritratti provvisori, poiché eseguiti con un materiale instabile come il grasso industriale).


Mofocracy (2012).

La cecità, che nel caso dell’esecuzione di Ianus è reale, per Alis/ Filliol ha un ruolo primario anche quando è simbolo o sinonimo di errore, scarto, cambio di prospettiva; quando cioè nel processo esecutivo entra in gioco il caso, che annulla la progettualità e obbliga i due artisti a una continua negoziazione con la materia. Citiamo a questo proposito Fusione a neve persa I (2008) e Mofo (2012), due lavori con cui Alis/Filliol si sono confrontati con la tecnica della fusione. «Per entrambi», hanno dichiarato in un’intervista in occasione della loro prima mostra alla galleria Pinksummer di Genova, «si tratta di colare materiale semiliquido, cera o poliuretano, all’interno di uno stampo instabile. E in seguito portarne alla luce i pezzi, scavandoli come si trattasse di ritrovamenti archeologici».


Ultraterra (2016).

Nel primo caso, la forma in cera che di solito viene sacrificata in favore della scultura definitiva in metallo diventa essa stessa l’opera. Il titolo accenna al procedimento: non si tratta di una fusione a cera persa, ma “a neve persa”. La forma nasce dalla solidificazione della cera liquida che viene fatta scorrere, in modo più o meno libero, in un blocco di neve precedentemente forato. Mofo, che nasce da un calco eseguito nella terra e di cui Mofocracy è una successiva versione, sembra invece uscita dalla fucina di Efesto: è una scultura magmatica, metamorfica, un vero “monstrum”, nel senso etimologico del termine. Un prodigio, una cosa straordinaria, misteriosa, perturbante, che rievoca forme conosciute, ma non combacia con nulla di esistente. Impressione ripetuta anche in una delle anguste celle del padiglione Italia alla Biennale del 2015, dove Alis/Filliol hanno stipato Jir, altra forma aliena in poliuretano; una sorta di meteorite gigante piombato da chissà dove che impediva la relazione con lo spazio, respingendo il visitatore verso l’esterno.

Con Ultraterra (2016), uno dei loro ultimi progetti, lo spettatore si trova invece letteralmente all’interno della scultura, che si è espansa a tal punto da diventare ambiente (l’allargamento riguarda qui il confronto con lo spazio, ma anche con altri media, in particolare la fotografia). Il tutto è nato da una testa di Venere che Alis/Filliol hanno prima modellato e riempito di poliuretano, poi fatto esplodere. La testa così deformata è servita da calco per un modello in gesso, di cui hanno deciso di usare soltanto lo stampo in gomma per restituire l’idea del volume, senza però più mostrare la scultura in sé. Privata della sua sostanza, si è tramutata, attraverso la ripresa fotografica, in un’immagine bidimensionale, un “wallpaper” con cui gli artisti hanno ricoperto le pareti dello spazio espositivo per ottenere un diverso tipo di tridimensionalità. Come la pecora (un assemblaggio di materiali trovati) che i due artisti hanno posizionato ironicamente davanti a una delle pareti, anche noi spettatori guardiamo attoniti il paesaggio sublime che ci circonda; un magma dal quale potremmo essere travolti da un momento all’altro. Con questa continua metamorfosi e spostamento dei limiti tecnico-linguistici, Alis/Filliol ci confermano che la scultura non è affatto una lingua morta. Anzi, è più viva che mai: ogni artista che come loro è impegnato a rinnovarne il vocabolario ne plasma nuovamente i termini «a partire dal materiale concettuale e verbale che ha sotto mano, costruendo un’opera d’arte che è essa stessa una risposta alla domanda: che cos’è la scultura?»(*).

(*) Cfr. G. Harper, Scultura spogliata: scorticata, deformata, estraniata, in Quando è scultura, a cura di C. Baldacci e C. Ricci, Milano 2010, p. 181.

Grazie a Marco Scotti e allo Csac - Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma per aver messo a disposizione la registrazione dell’intervento che Alis/Filliol hanno tenuto nell’ambito del workshop Presenze scultoree (25 luglio 2016).

ART E DOSSIER N. 338
ART E DOSSIER N. 338
DICEMBRE 2016
In questo numero: PHILIPPE DAVERIO: la volta che mostrai a Warhol il Cenacolo di Leonardo. AI WEIWEI: l'intervista. IN MOSTRA Dietro la tenda a Düsseldorf, Miniature a Venezia, Rubens a Milano, Tancredi a Venezia, Warhol a Genova, Lindbergh a Rotterdam, Bob Wilson a Varese.Direttore: Philippe Daverio