La tradizione
dada-concettuaLe

In questo mio breve saggio cercherò di presentare Warhol prestando attenzione ai procedimenti cui l’artista ricorre, e che lo inseriscono in una precisa tradizione dada e concettuale.

Sono persuaso che solo ricostruendo lo specifico sfondo storico-artistico su cui Warhol si staglia giungeremo a comprenderne la figura in modo persuasivo e circostanziato. Scopriremo che le innumerevoli Marilyn Monroe non hanno in origine caratteri meramente illustrativi o aneddotici; e che le lattine di zuppa fanno riferimento alla biografia dell’artista o alla storia dell’arte più che alle abitudini alimentari degli americani. Neppure il partito preso dell’immagine seriale “fatta male in modo giusto”, che caratterizza la Factory warholiana nei primi anni, giunge inatteso o isolato. Non si tratta solo, per Warhol, di simulare l’impersonalità dell’esecuzione, ma di riconoscere un limite intrinseco al controllo che l’autore può esercitare sul significato delle proprie opere. Duchamp insegna agli artisti americani del secondo dopoguerra, direttamente o più spesso attraverso la mediazione di John Cage (1912-1992), musicista e performer, che la definizione pubblica del “senso” di un’immagine è in piccola o grande parte affidata al caso. Lungi dal costituire un problema, la circostanza invita invece ad accogliere la casualità tra le componenti dinamiche del processo creativo. Cosa, se non un’immagine in apparenza trascurata e casuale, ci incoraggia a completare inventivamente il “significato”? Se considerata in relazione a quella che lo storico dell’arte angloaustriaco Ernst Gombrich (1909-2001) chiama «la parte dello spettatore », una crosta non è meno feconda del capolavoro, al contrario. Con la sua perfezione, questo può infatti dissuadere l’osservatore dal prendere parte al libero gioco delle associazioni.

Annuncio a pagina intera per il film Flesh, pubblicato sul “Los Angeles Free Press” del 20 giugno 1969.


Poster per il film Chelsea Girls (1966), progettato e stampato appositamente per una proiezione speciale presso l’Arts Lab, 182 Drury Lane, Londra.


David Bailey, Andy Warhol (ritratto fotografico) (1965).

Pittura e cinema
La predilezione per l’“incompiutezza” ha naturalmente una lunga storia in pittura e in scultura, e non è questa la sede per indagare le origini remote, classicorinascimentali, di un tema maliziosamente riformulato da Duchamp in un’opera fondativa della tradizione modernista americana, il Grande vetro (1915-1923). Ammettere che un particolare interesse per l’incompiutezza è costantemente all’opera in Warhol ci permette tuttavia di riconoscere i punti di contatto tra la sua pittura, le sculture-installazioni e i film. Fatte salve eccezioni come Chelsea Girls (1966), co-diretto da Paul Morrissey (1938), i film di Warhol sono sprovvisti di intreccio e prediligono l’immagine fissa - non considero qui i film scritti o diretti dal solo Morrissey, come Lonesome Cowboys, del 1968, ufficialmente attribuito a Warhol; Flesh (1968), Trash (1970) o Heat (1972), caratterizzati da un più vivace sviluppo narrativo. Sleep del 1963, Empire o Henry Geldzahler, entrambi del 1964, rispondono a una strategia comune. La camera inquadra il soggetto e delega interamente a questo, volto o paesaggio, il compito di introdurre svolgimento e narrazione. È certo che tra le emozioni che Warhol si propone qui ironicamente di destare, o meglio di sfidare, è la noia. Perché, sembra chiedersi, dovremmo supporre che l’arte abbia l’obbligo di essere interessante per altri che non siano l’autore o al più i suoi amici più intimi, e di procacciare stimoli a una società che, è evidente, ne va avidamente in cerca? Nell’insinuare dubbi sul ruolo di stupefacente o narcotico che il mondo contemporaneo assegna alle opere d’arte, Warhol riflette ancora una volta, o pone noi in condizione di riflettere, sull’arbitrarietà dell’attribuzione di “senso” o importanza a un qualsiasi documento figurativo. Non è l’opera in sé che nasce con le stigmate del capolavoro: a decidere in tal senso è piuttosto un’intricata catena di contingenze, mode, aspettative poste in larga parte al di fuori del controllo dell’autore. Warhol si limita a proporre uno spettacolo ripetitivo e disadorno, che non offre azioni avvincenti né corpi o volti di irresistibile bellezza. Prevede che sia la cerchia adorante ed entusiasta degli spettatori a cercare motivi di fascino in immagini perlopiù neutre, e ad attribuire al regista intenzioni recondite. Sa che saremo noi a “creare” il significato.

WARHOL
WARHOL
Michele Dantini
Un dossier dedicato a Andy Warhol (Pittsburgh 1928 - New York 1987), il padrino della Pop Art. In sommario: Introduzione; La tradizione dada-concettuale; Pittura e cinema; Le tribù della Factory e il cinema underground; Artista, produttore, imprenditore; I disegni giovanili a inchiostro e foglia d'oro. Warhol e le primizie dello stile ''camp''; Warhol e l'America. L'arte pop tra ''diario intimo'' e ''sociologia''; Wahrol, Dalì, Rauschenberg; La stampa serigrafica e le sue implicazioni sul piano dello ''stile''; Wahrol, Johns e l'eredità americana di Duchamp; Zuppe, Campbell e celebrità hollywoodiane; La scatola Brillo; L'ultimo Warhol. Teschi, omaggi, ''camouflages''. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.