IntroduzIone

«Trascorsi gli anni eroici dell’espressionismo astratto, la più giovane generazione di artisti si impegna oggi a costruire un nuovo regionalismo americano. Questo nuovo regionalismo ha tuttavia dimensioni immediatamente nazionali grazie ai media e diviene persino esportabile in Europa perché, dal 1945, abbiamo accuratamente preparato e ricostruito l’Europa a nostra immagine».


Henry Geldzahler in A Symposium of Pop Art, a cura di P. Selz, in “Arts Magazine”, aprile 1963

con pochi altri artisti immensamente celebri, Andy Warhol è la sfinge dell’arte contemporanea. Non intendo con questo cantarne convenzionalmente la grandezza, riconosciuta da storici e critici e apprezzata in misura iperbolica dal collezionismo planetario. Ma solo affermare che a suo riguardo tutti i tentativi di interpretazione, se troppo univoci o moralizzati, rischiano di rivelarsi fallaci. Nel loro ostinato essere se stesse e nient’altro - non simboli, non allegorie, non “concetti”, non pedagogie - le immagini più note di Warhol ammettono piattezza e trivialità. Di più: corteggiano l’una e l’altra.

Mentore ambivalente di stelle fugaci, come Divine, Edie Sedgwick o più tardi Jean- Michel Basquiat, precursore di artisti-imprenditori come Jeff Koons o Damien Hirst, Warhol si è tal punto proposto di incarnare la mutazione sociale e culturale degli anni Sessanta e Settanta da apparire inscindibile, ai nostri occhi, da ciò che chiamiamo “contemporaneo”, dalle sue sorti e dalla sua reputazione. Immagini ironiche e accondiscendenti che sfidano la pubblicità sul suo stesso terreno di umoristica semplificazione; o al contrario immagini dall’impatto immediato e violento, da prima pagina di tabloid, insofferenti di sofisticate mediazioni culturali. Rituali collettivi e performance multimediali esemplate sul modello del concerto rock, come l’Exploding Plastic Inevitable. Brusche letteralizzazioni del sogno, della differenza e del desiderio: tutto questo per noi è Warhol, insieme all’inflessibile proposito di successo commerciale. Business e controcultura, mellifluità e scaltrezza, pietà e pornografia: è possibile trovare un accordo tra questi contrari? Warhol sembra esserci riuscito. Così ne acclameremo il genio sinché avremo preservato entusiasmo per la sua trasformazione in senso carismatico e pulsionale del nostro modo di rivolgerci all’arte. Altrimenti, persuasi che l’ambito estetico resti appannaggio della più riflessiva esperienza individuale, saremo liberi di prenderne le distanze.
Il ricorso warholiano alla serigrafia e a procedimenti collettivi di “produzione” vanifica la distinzione tra “arti meccaniche” e “arti liberali”. Cercheremmo invano la delicatezza o il guizzo prodigioso della mano del maestro in una qualsiasi serigrafia con Elvis Presley e Marlon Brando o nelle serie con i biglietti da un dollaro. Perché tanto spiccato disinteresse per l’esecuzione o la “sensibilità individuale”? Questa è una buona domanda da cui cominciare. L’ammirazione per la democrazia americana e il mondo della produzione industriale spiegano solo in parte il desiderio di divenire simile a una “macchina”. L’interesse per la ripetizione seriale ha profonde radici nella tradizione europea, e rimanda ai complessi rapporti che si stabiliscono, nell’attività di Warhol, tra intermittenza dell’“idea” e quotidianità della routine.

Maneggiare con cura. Vetro. Grazie (1962); Mönchengladbach, Städtisches Museum Abteiberg.


Il disastro dell’ambulanza (1963); New York, DIA Art Foundation.

Andy Warhol e la Factory, una scena di Exploding Plastic Inevitable (Los Angeles, Trip, 1966).


Torso Doppio (1967).

A partire da due importanti mostre che si tengono a Stoccolma e Kassel tra 1967 e 1968, in un momento di scarsa fortuna americana dell’Arte pop, Warhol acquista in Europa fama di artista corrosivo. Gli si attribuiscono propositi di denuncia della società capitalistica o della ferocia dello “star system” americano. L’assunzione è in buona parte fuorviante. Warhol concepisce le proprie immagini in termini di indeterminatezza: esse ammettono una molteplicità di interpretazioni rimanendo pressoché indifferenti a ciascuna di esse. Blasfemia e celebrazione, adesione e rifiuto coabitano stabilmente nelle “icone” warholiane in ogni periodo dell’attività dell’artista. La stessa ambiguità si ripropone negli omaggi resi ai maestri del passato, talvolta “doppi” in un sottile senso allegorico. È vero: Warhol dispiega i “miti e i riti” della “middle-class” americana colta all’apice della sua prosperità, sul punto di avvincere e conquistare irreversibilmente tutte le “classi medie” del pianeta. Tuttavia non si muove mai da storico, sociologo o etnografo della società di massa, adottando tecniche di inchiesta. Calcolo e capriccio gli sono più congeniali di attitudini scettiche o distaccate. Warhol non è un intellettuale radicale sul modello di Barthes, Sontag o Pasolini, per quanto la sua attività sia stata precocemente determinata da punti di vista “queer” che prefigurano micropolitiche della differenza; e la sua fortuna, soprattutto in Europa, abbia potuto poi confluire nel vasto ambito delle controculture.


Gioconda doppia (1963); Houston, Menil Collection.

WARHOL
WARHOL
Michele Dantini
Un dossier dedicato a Andy Warhol (Pittsburgh 1928 - New York 1987), il padrino della Pop Art. In sommario: Introduzione; La tradizione dada-concettuale; Pittura e cinema; Le tribù della Factory e il cinema underground; Artista, produttore, imprenditore; I disegni giovanili a inchiostro e foglia d'oro. Warhol e le primizie dello stile ''camp''; Warhol e l'America. L'arte pop tra ''diario intimo'' e ''sociologia''; Wahrol, Dalì, Rauschenberg; La stampa serigrafica e le sue implicazioni sul piano dello ''stile''; Wahrol, Johns e l'eredità americana di Duchamp; Zuppe, Campbell e celebrità hollywoodiane; La scatola Brillo; L'ultimo Warhol. Teschi, omaggi, ''camouflages''. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.