Le tribù deLLa Factory
e iL cinema underground

Sarebbe assurdo pretendere di definire in modo unitario e complessivo il cinema di Warhol, o associarlo a uno “stile” distintivo. Eccettuati i film del primo periodo, tra 1963 e 1964, come i già citati Sleep o Empire, che costituiscono quasi, per l’uso della camera fissa, una naturale estensione della serie serigrafica, ogni film costituisce una storia a sé per la varietà dei propositi, le tecniche usate, il montaggio, il rapporto tra recitazione e sceneggiatura, l’apporto del caso. L’autore è collettivo e si chiama Factory. Non è infrequente che esistano dubbi in merito all’autografia - è il caso di Lonesome Cowboys (1968), attribuito a Warhol ma scritto da Morrissey - né che un film sia poi “incapsulato” in altro e modificato rispetto al proposito originale. Più costante si rivela invece la strategia soggiacente alla produzione di film. È soprattutto attraverso il cinema che la Factory diviene quel porto di mare che la rende celebre, e in cui tutti gli ingegni brillanti del tempo si incontrano con gli ambiziosi, gli influenti e gli avidi di gloria: divi poprock come Bob Dylan o Mick Jagger e soubrette in ascesa (Liza Minnelli), irregolari di ogni genere, attivisti politici e dei diritti civili e attori di Hollywood come Dennis Hopper, artisti (Arman, Oldenburg, Hockney), scrittori e poeti (Kerouac, Ginsberg, Corso, Capote), collezionisti, editori. Le differenze più stridenti transitano per l’affollato studio e casa di produzione di Warhol sino ad attenuarsi e dissolversi, e gli scenari più ampi si riflettono in microstorie individuali. Si fanno film su Juanita Castro, sorella dissidente di Fidel, in esilio volontario negli Stati Uniti, collaboratrice della Cia (The Life of Juanita Castro, 1965); e allo stesso tempo “ritratti cinematografici” di Giangiacomo Feltrinelli, che dal 1964 è legato a Castro da rapporti personali e politici (Screen Test, 1966). Molti film di Warhol sono ritratti collettivi di una generazione e di una cerchia sociale, o di più cerchie sociali che alla Factory si congiungono per sovrapporsi, sfidarsi, impollinarsi reciprocamente, autocelebrarsi. Con una sottile e innovativa mutazione di ruoli, è l’artista - non il critico, non il gallerista - a procurare a tutti fama e notorietà.

Artista, produttore, imprenditore
Esiste un pericolo nell’ordinare cronologicamente, in chiave biografica, l’attività di Warhol. Per farlo, dovremmo assumere che esista qualcosa come un’“evoluzione” dell’artista, una stabile corrispondenza tra “stile” e psicologia individuale. Ma non è proprio questo il caso. A partire dai secondi anni Sessanta, “Andy Warhol” diventa un marchio collettivo - un brand aziendale. L’attentato di Valerie Solanas (1936- 1988), femminista radicale che tenta di uccidere Warhol nel giugno del 1968 e lo ferisce gravemente con un colpo di pistola, non fa che precipitare l’orientamento preesistente. Possiamo certo cogliere una differenza d’accento in questa o quella opera, o segnalare l’attimo di sincerità di un artista solitamente inafferrabile. Ma il successo o l’utilità della nostra impresa sarà comunque sporadico, e l’insistenza warholiana sull’importanza del successo economico nella conduzione di un’impresa artistico-industriale, tale la Factory dopo il 1968, deve essere considerata in tutta la sua attendibilità. Warhol perde rapidamente interesse alla propria attività di artista per identificarsi sempre più con il ruolo di “self-capitalist”: titolare di uno studio professionale, produttore cinematografico e musicale (dei Velvet Underground, per esempio), editore e imprenditore di cultura determinato a esplorare i confini tra arte, moda e costume.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, in coincidenza con le prime mobilitazioni contro la guerra in Vietnam e la crescente ostilità per la società dei consumi, l’euforia pop viene rapidamente meno tanto in America quanto in Europa. Quando, nel 1966, l’amico Geldzahler è nominato commissario per gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia, Warhol si attende di essere invitato: non lo sarà, con sua grande delusione, e la sua stella sembra ormai destinata al declino. È questa la congiuntura in cui l’“artista” Warhol appare dissolversi nell’impresa collettiva della Factory, cui prendono parte, in qualità di comparse o coautori, innumerevoli collaboratori. Le ragioni per cui Warhol, tra 1966 e 1968, celebra a suo modo il rito della “morte dell’arte” sono insieme personali, commerciali e culturali. Quando, nel 1972, riprende a dipingere con i ritratti di Mao, il senso della sua attività è mutato. La serialità ha implicazioni industriali e la disponibilità a eseguire ritratti su committenza, che avvicinano l’artista ai committenti più facoltosi, riconosce alla pittura un’importanza ormai solo residua e strumentale. Il “quadro” decade a semplice arma di un’offensiva autoimprenditoriale condotta sul piano delle pubbliche relazioni. È “Interview”, la rivista che Warhol fonda nel 1969, il progetto che lo appassiona di più per tutti gli anni Settanta. Ammette con convinzione e apprezzabile sincerità questo suo mutamento di interessi. Niente, afferma, è più importante che costruirsi una solida reputazione a New York e imporsi nella competizione professionale. Considerate con riferimento all’intero catalogo di Warhol le serie serigrafiche toccano, con i ritratti eseguiti su commissione, il limite estremo di impersonalità. Non hanno caratteri di “diario intimo” o di racconto autobiografico, compongono invece un campionario dove determinati modelli di immagine, “prodotti” e stili riconoscibilmente aziendali si ripropongono a distanza di anni, spesso in forme sottilmente variate e semplificate rispetto agli originali, in base alle contingenze di produzione, a questo o quel proposito di comunicazione e alla domanda di mercato. La semplice cronologia ha un’importanza marginale per chi si proponga di comprendere determinate costanti dell’attività di Warhol o le implicazioni più innovative della sua attività più matura e divulgata. Occorre invece avvicinare le singole serie cercando di mostrarne con chiarezza origini e specificità.

Mao II (1973). Warhol si serve qui come modello di una fotografia scattata nel 1963, quando Mao ha settanta anni; e destinata a fissare l’immagine ufficiale del “Quattro volte grande”. Replicato innumerevoli volte in diverse combinazioni di colori, il ritratto warholiano del Presidente del Partito comunista cinese risulta ideologicamente ambiguo. Rende sì omaggio al politico più influente e popolare di uno stato comunista. Al tempo stesso celebra il riavvicinamento tra USA e Cina, cui il repubblicano Nixon ha contribuito in misura decisiva. La Cina aderisce all’ONU nel 1971. Nel 1972 Nixon incontra Mao a Pechino.

WARHOL
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Michele Dantini
Un dossier dedicato a Andy Warhol (Pittsburgh 1928 - New York 1987), il padrino della Pop Art. In sommario: Introduzione; La tradizione dada-concettuale; Pittura e cinema; Le tribù della Factory e il cinema underground; Artista, produttore, imprenditore; I disegni giovanili a inchiostro e foglia d'oro. Warhol e le primizie dello stile ''camp''; Warhol e l'America. L'arte pop tra ''diario intimo'' e ''sociologia''; Wahrol, Dalì, Rauschenberg; La stampa serigrafica e le sue implicazioni sul piano dello ''stile''; Wahrol, Johns e l'eredità americana di Duchamp; Zuppe, Campbell e celebrità hollywoodiane; La scatola Brillo; L'ultimo Warhol. Teschi, omaggi, ''camouflages''. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.