Studi e riscoperte. 2
Un esemplare del De arte venandi cum avibus

a caccia
con l’imperatore

Nell’arco di circa un trentennio Federico II di Svevia partecipò alla stesura del De arte venandi cum avibus, un prezioso codice miniato ma anche un autentico trattato scientifico sulla caccia. Il manoscritto originale è andato perduto ma in Europa esistono altre versioni. Tra queste l’esemplare della Bibliothèque Nationale de France, di cui presentiamo qui alcune pagine.

Pasqualina Pasquetti

Ben nota è la passione che l’imperatore Federico II di Svevia aveva per la caccia, in particolare quella col falcone. Egli stesso diceva: «Un giorno senza falconeria è un giorno perso». Forse meno conosciuta è la splendida opera che collaborò a realizzare riguardo proprio all’attività venatoria: De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli).

In assoluto era il suo passatempo preferito; ma era anche un’esibizione compiaciuta del proprio prestigio, oltre a un’occasione per conoscere la natura e dominarla come Gran falconiere, metafora di un potere che rispecchiava le sue ambizioni di egemonia imperiale. In un’ottica più pragmatica, la caccia era pure un modo per avere contatti con persone di alto rango; questa attività, infatti, era molto costosa, appannaggio di una cerchia ristretta della nobiltà: un falco addestrato poteva costare quasi quanto un intero podere.

Il manoscritto è un trattato d’osservazione rivolto al mondo fenomenico, in sintonia con il pensiero federiciano di rappresentare le cose quali sono: «Manifestare ea quae sunt sicut sunt». Il testo è lontano dai bestiari dell’epoca, enciclopedie zoologiche in cui i dati naturalistici erano intrisi di mitologia, teologia e superstizione. Federico si procurò trattati di ornitologia e caccia e, grazie ai suoi contatti con l’Oriente - già tra i suoi precettori ricordiamo un imam islamico - poté approfondire le conoscenze sulla falconeria araba, caratterizzata da tecniche più sofisticate di quelle praticate in Occidente. Maturò così l’idea di scrivere di proprio pugno, o almeno collaborare alla stesura di un codice che rappresentasse una complessa rivisitazione dei precedenti trattati, come quelli arabi fatti tradurre in latino dallo stesso imperatore, tra cui il De scientia venandi per aves del siriano Teodoro di Antiochia.

Circa un trentennio occorse per la stesura del testo, strutturato in sei libri, in un latino chiaro e lineare, stile che si addice a un trattato scientifico, forse il più “moderno” del Medioevo. Nel primo libro, prima di parlare delle tecniche specifiche della caccia, ci si sofferma su un’approfondita trattazione di ornitologia. Attraverso l’osservazione diretta si descrivono «le meravigliose operazioni che la provvida natura» ha realizzato nel mondo animale, in particolare riguardo all’avifauna, il tutto corredato da immagini ambientate in luoghi che l’imperatore conosceva a menadito, come le zone boschive del Vulture (Basilicata), della Capitanata (Puglia), del Grossetano, riserve privilegiate per le sue spedizioni. Questa prima parte è propedeutica all’arte della falconeria vera e propria: non è possibile, per Federico, aspirare a diventare falconieri se non si è prima educati alla conoscenza approfondita dei volatili.


Tre falconieri collocano i rapaci a riposo, foglio 126v.

Rappresentare il mondo naturale in tutta la sua vivida ed evocativa realtà


I cinque libri successivi sono dedicati ai vari aspetti della pratica venatoria, dalla cattura dei rapaci al loro addestramento, fino ad arrivare ai diversi tipi di caccia col falcone.

Tanto era nota la passione che nutriva il sovrano per questa attività, che se ne servirono anche i suoi detrattori per screditarlo. Scrisse di lui un biografo di papa Gregorio IX: «Egli aveva trasformato il titolo di Maestà in una carica relativa alla caccia, si circondava non d’arme e leggi bensì di cani e di uccelli vocianti, e ancor peggio, aveva dimenticato d’imporre la giusta vendetta sui suoi nemici, preferendo sguinzagliare le sue aquile trionfali nella caccia con gli uccelli». Fu proprio questa passione a fargli perdere il suo prezioso manoscritto. Infatti, secondo la tradizione, durante l’assedio della città di Parma, nel 1248, Federico si allontanò dal campo fortificato di Vittoria proprio per una battuta venatoria.


Astori e falconi a caccia di volatili e lepri, con due stambecchi, maschio e femmina, foglio 79r.

Le forze guelfe approfittando della sua assenza si introdussero a sorpresa nell’accampamento, lo saccheggiarono e lo distrussero, depredando tutti i tesori, compresi la corona imperiale e il codice miniato.

Del manoscritto originale, rimasto incompiuto, si sono perse le tracce. Ne possediamo due versioni realizzate dai figli di Federico, una prima da Manfredi e una da Enzo, re di Sardegna.

Il codice di Manfredi (Biblioteca apostolica vaticana, Palatino latino 1071) è in due libri, ornato di pregevoli miniature, in una delle quali è effigiato lo stesso “rex Manfridus”. Questa redazione fu quindi realizzata quando egli era re di Sicilia (1258-1266). Il manoscritto cadde in mani francesi a seguito della battaglia di Benevento, in cui lo stesso Manfredi morì, sconfitto da Carlo d’Angiò; ricomparve nel Cinquecento in Germania, dove ne fu curata un’edizione a stampa, infine fu donato a papa Gregorio XV all’inizio del secolo successivo.


Due falconieri, in un padiglione turrito, nutrono i rapaci, foglio 149v.

In sei libri, come l’originale federiciano, è invece il manoscritto, della seconda metà del XIII secolo, voluto dall’altro figlio, Enzo, durante gli anni della sua prigionia a Bologna (Biblioteca universitaria). Forse proprio a questa sventurata circostanza si deve l’apparato iconografico molto ridotto, di sole sette miniature.

Delle altre versioni sparse per l’Europa una fu tradotta in francese dall’originale di Manfredi (L’art de la chace des oisiaus, Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Français 12400), commissionata agli inizi del Trecento da Jean signore di Dampierre e Saint-Dizier, i cui avi avevano combattuto a Benevento al fianco di Carlo d’Angiò. Jean, appassionato di falconeria, dedicò l’opera al figlio Guillaume, così come Federico II aveva fatto con Manfredi. Lo stesso Guillaume la fece completare con un ricco apparato illustrativo liberamente ispirato alle miniature del codice manfrediano.
Lo splendido esemplare francese è completo della data di ultimazione, 1310, e del nome del miniatore, Simon d’Orléans. È articolato in centottantasei fogli, recto e verso, con centoquarantaquattro iniziali ornate; il testo è organizzato su due colonne e tutti i capoversi sono rubricati in rosso.

Questa versione francese del De arte venandi testimonia l’approccio laico al mondo naturale offerto da Federico II alla cultura europea


Il corredo illustrativo, benché richiami le immagini del codice vaticano, su cui si modella anche l’organizzazione sintattica del testo, appare in una veste nuova, aggiornata sulle novità in campo miniatorio sviluppatesi durante gli ultimi anni nella Francia del Nord. Se le immagini del libro duecentesco si distinguevano per uno stile gotico venato da suggestioni bizantine e orientali, le miniature del codice dei Dampierre sono pregne del nuovo linguaggio formatosi negli atelier parigini: il Gotico cortese, dalla linea nervosa e sinuosa, dai colori vivaci e dall’ornato sciolto, stilizzato e graffiante.


Stagno con uccelli acquatici che catturano pesci, foglio 6r.

I volatili che si cibano delle loro prede con voracità ci suggeriscono uno degli intenti dell’opera: rappresentare il mondo naturale in tutta la sua vivida ed evocativa realtà. Molte specie volteggiano tra le pagine, si ristorano tra zolle erbose e fiori variopinti, oppure stanno nei loro nidi scavati in aspre rocce. Appaiono stagni con onde azzurre e verdi, popolati da anatre, aironi, cicogne, cigni, pellicani, che nell’acqua trovano il pasto o si rifugiano, al sicuro dai predatori. Non solo la natura, rigogliosa e viva, è protagonista. Ritroviamo edifici dalle architetture eleganti, tipicamente gotiche, con cornici lobate, torri, pinnacoli, esili bifore, di sapore quasi fiabesco. Eppure il maggior fascino è nelle figure umane, in particolare nei recto dei primi tre fogli, in cui vengono presentati i protagonisti dell’opera, con chiaro intento celebrativo e programmatico. Nel primo, in alto troneggia Federico, in basso un monaco benedettino, il traduttore, detta a un giovane scrivano; dietro, il committente Jean de Dampierre sta in piedi, finemente vestito e con un falcone sul braccio; la scena si completa con “drôlieres” (bizzarre figure) e l’emblema araldico della famiglia. Nel secondo, in cui inizia il prologo di Federico, l’imperatore è in compagnia del giovane Manfredi sotto una preziosa tenda, con un rapace nella sinistra, mentre tre falconieri presentano due splendidi uccelli al suo cospetto. Nel terzo è raffigurato di nuovo lo svevo, che in abiti regali al di sotto di un padiglione finemente decorato riceve due falconieri. Spesso i falconieri torneranno a popolare le pagine del codice con i loro lunghi abiti colorati e il copricapo a punta.

Questa versione francese del De arte venandi ancora testimoniava, a distanza di oltre un cinquantennio dal testo originale, lo slancio innovativo e l’approccio laico al mondo naturale che Federico aveva offerto alla cultura europea. Tenendo presente che fu figlio del suo tempo, con tutte le connotazioni politiche e umane che la Storia ci rimanda, lo ricordiamo con le parole del benedettino Matteo Paris: «Federico fu il più grande principe del mondo, colui che stupì e cambiò il mondo». E tuttora, otto secoli dopo, non smette di stupirci e affascinarci.


L’imperatore Federico II sotto un baldacchino e due falconieri con volatili incappucciati, foglio 3r.

Jean de Dampierre, il committente del codice qui illustrato, con traduttore, scrivano, “drôleries” (bizzarre figure) e l’emblema araldico della famiglia, foglio 1r.


Manfredi di Svevia e tre falconieri con volatili, foglio 2r.

ART E DOSSIER N. 337
ART E DOSSIER N. 337
NOVEMBRE 2016
In questo numero: UNA STAGIONE DI GRANDI MOSTRE Kirkeby a Mendrisio, Soffici a Firenze, i Nabis a Rovigo, Zandomeneghi a Padova, Impressionismo a Treviso, il Seicento di Vermeer all'Aja. CINQUANT'ANNI FA L'ALLUVIONE Firenze restaurata. FAVOLE ANTICHE Il paradiso di Bosch, le cacce dell'imperatore. Direttore: Philippe Daverio.