Studi e riscoperte. 1
Ledger Art

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Alcune testimonianze artistiche tra XIX e XX secolo, nell’ambito delle culture dei nativi nordamericani, mostrano la nascita di un linguaggio figurativo che trasporta su carta, spesso su quadernetti da ufficio, le raffigurazioni tradizionali: è la Ledger Art.

Philippe Daverio

Una trentina d’anni fa, o forse erano quaranta, Alberto Burri mi raccontava, seduto a Città di Castello dinanzi a un caffè corretto con anice, di aver scoperto la propria inclinazione alla pittura quando, da ufficiale medico dell’esercito italiano prigioniero in Texas alla fine della seconda guerra mondiale, gli furono dati dei colori per passare il tempo della reclusione. Era questa una pratica non del tutto nuova, in America, visto che già era successo quando gli “indiani” - sioux, cherokee e altri - erano stati confinati nelle riserve, alla fine del XIX secolo. Burri scopriva in quegli anni la primordialità estetica che si celava in fondo alla sua anima da ufficiale medico umbro. Oltre mezzo secolo prima gli indiani d’America avevano scoperto in modo analogo il mondo magico della carta e delle matite e lo avevano caricato dei loro fantasmi seguendo la visione estetica che precedentemente avevano usato per la decorazione dei teepee.

Una delle testimonianze più vivide delle arti visive dei popoli che abitavano le terre dell’America del Nord prima della definitiva colonizzazione del XX secolo è quella raccolta nei taccuini di carta che gli indigeni raccoglievano sin dalla fine del XVIII secolo e che erano per loro motivo di meraviglia. L’arrivo della carta e dei colori ad acquerello offriva loro un mezzo espressivo senza codice prestabilito; lo usarono seguendo una linea naturale che riprendeva in parte le loro tradizioni decorative ma al contempo scopriva la narrazione pittorica della loro tragedia.

Esemplare la storia di Howling Wolf, cioè Lupo Ululante (1849-1927). Cheyenne, aveva sedici anni quando venne confinato in un campo di prigionia presso Sand Creek, in Colorado. Nei giorni precedenti era stato spedito da quelle parti anche il capotribù Mokathavatah, detto Pentola Nera (Black Kettle), con i suoi guerrieri; nato nel 1801, difese con convinzione la sua tribù. Morirà poi nel 1868 sotto il piombo del generale Custer.

Nella nefasta giornata del 29 novembre 1864, a Sand Creek, essendo gran parte degli uomini adulti fuori dal villaggio, il colonnello John Chivington con il Primo reggimento dei volontari del Colorado decise di attaccare e uccise oltre un centinaio di indiani mutilandone poi i corpi e decorando, a quanto si narrava, il proprio copricapo con il vello pubico reciso di una cheyenne. Howling Wolf fu fatto prigioniero e successivamente incarcerato a Fort Still in Oklahoma per essere infine deportato a Fort Mason in Florida. Nell’esilio imparò l’inglese e si mise a dipingere su piccoli quadernetti contabili (“ledger”). Era iniziata così l’era della Ledger Art, che con gli anni divenne un linguaggio visivo stabile nelle riserve indiane. Ancora oggi, in memoria di quegli anni drammatici, quel linguaggio è ancora vivo nelle riserve, e in modo particolare a Pawnee, una delle aree riconosciute oggi indipendenti e autogovernate. L’antropologo Oliver La Farge ha studiato quei quaderni con particolare attenzione, pubblicando già nel 1931 la sua Introduction to American Indian Art, il che spinse vari musei degli Stati Uniti a iniziare a raccogliere opere dei nativi americani.


Howling Wolf in una foto scattata in uno dei suoi soggiorni in prigione.

Howling Wolf, Massacro a Sand Creek (1874-1875), Oberlin, (Ohio), Allen Memorial Art Museum.


Amos Bad Heart Buffalo, Truppe attraversano un fiume (1876).

Ciò che colpisce in modo particolare, in quelle raffigurazioni, è la rapida capacità di elaborazione di stilemi apparentemente tipici delle arti d’avanguardia; al punto che talvolta in questi rudimentali disegni si ha la sensazione di trovare autentiche citazioni o anticipazioni dell’astrattismo di Kandinskij. Le prime opere sono innegabilmente le più interessanti in quanto altro non sono che il trasferimento delle pitture che in passato dovevano decorare le loro tende, i teepee. Compagno di sventura di Howling Wolf era un altro guerriero cheyenne dal nome tribale O-kuh-ha-tu (1847-1931), che fu chiamato inizialmente Making Medicine per via di certo suo sapere sciamanico e che divenne poi pastore episcopale con il nome di David Pendleton Oakerhater; anch’egli si mise a dipingere sui quadernetti rimanendo assai primitivo nel segno espressivo benché avesse imparato a scrivere con una eccellente e matura calligrafia inglese.


Esiste un immaginario collettivo che porta ogni essere umano ad avere paralleli ontologici con i suoi simili?


In queste raffigurazioni per così dire più “autentiche” e innegabilmente autogene appaiono segni che si riscontrano misteriosamente anche in altre pitture su carta di origine ben più sofisticata, e cioè, per esempio, le miniature mogul. E qui la questione non solo si complica ma si fa estremamente interessante. I cheyenne non conoscevano i mogul e tantomeno anticipavano Kandinskij che negli stessi anni, attorno al 1889, era andato a studiare le tribù komi dalle parti della Finlandia. A tutto questo immaginario condiviso doveva sottostare una radice apparentemente comune.
Dal sanscrito “g’ ânya” (forza creatrice) proviene il “genius” etrusco che da spirito benevolo segue la vita d’ogni uomo; tradizione ripresa dai latini antichi sicché per i pragmatici romani chi entrava in sintonia con il genius scopriva l’“ingenium”, l’abilità del sapere. Per la cristianità la figura del genius si assimila a quella dell’angelo custode.

David Pendleton Oakerhater, Villaggio (1875), Washington, Smithsonian Museum.


Caccia all’orso (1875), Washington, Smithsonian Museum.


Disegno Black Hawk (1880 circa) raffigurante uno Spirito del tuono cornuto.

Da questa medesima radice proviene anche la parola “djans” persiana che corrisponde allo spirito individuale dell’essere ma anche quella semitica di “ginn” (genietto) che ricompare nelle tradizioni arabe. I geni sono ovunque e negli anni della conquista mogul dell’India aiutano Dhu al-Qarnayn, che sarebbe “quello bicornuto” e cioè Alessandro Magno - detto nella tradizione araba Iskandar -, a combattere i diavoli Gog e Magog, anche loro già citati nei testi del profeta Ezechiele.

Queste creature preoccupanti sono quindi presenti in tutte le tradizioni del Medio Oriente e quando vengono raffigurate nelle miniature persiane del XVI secolo appaiono i “jinn” benevoli, con pelle maculata e corna, quelle che nelle tradizioni medievali europee diventeranno invece attributo specifico del diavolo. Diavoli, corna e macchie sembrano attraversare gli oceani e i deserti senza spiegazione plausibile.


Howling Wolf, Howling Wolf e Feathered Bear corteggiano due ragazze a una fonte (1874-1875), Oberlin (Ohio), Allen Memorial Art Museum.

Esiste quindi un immaginario collettivo che porta ogni essere umano ad avere paralleli ontologici con i suoi simili? Sarebbe innegabilmente questa l’unica spiegazione di certi inattesi parallelismi primordiali che sembrano apparire in stadi diversi di evoluzione nell’immaginario d’ogni cultura. Le ricerche genetiche recenti sul DNA mitocondriale presente nel citoplasma delle cellule sembrerebbero dare ragione a questa curiosa tesi. Il mitocondrio è stabile nella discendenza delle femmine in quanto è l’unica parte della cellula che non contiene i cromosomi di entrambi i genitori (che stanno nel nucleo e sono dunque variabili). Discendiamo quindi tutti quanti dalla medesima Eva primordiale, mutata casualmente solo 180.000 anni fa in Africa, dalle parti del lago Ciad. La tesi sembra provata dal fatto che da quelle parti il mitocondrio è il più differenziato del mondo, per motivi di pura casualità stocastica ovviamente, trattandosi di una differenziazione avvenuta in tempi più lunghi che altrove e che potrebbe indicare quella popolazione come la più antica esistente. Avremmo tutti noi, uomini della terra, la medesima antenata e saremmo provvisti di alcune eredità di filogenesi che ci accomunano. L’evoluzione ontologica del singolo individuo ne dovrebbe ogni volta ripercorrere la storia misteriosa: ecco perché i disegni infantili sono i medesimi nel mondo intero e assomigliano a quelli dei popoli rimasti più primordiali.

ART E DOSSIER N. 336
ART E DOSSIER N. 336
OTTOBRE 2016
In questo numero: ARTE ALTRUI Culture, tradizioni, creatività non europee dalla Cina agli Inuit, dal vudu ai nativi americani. BIBLIOTECHE Le parenti povere dei Beni Culturali. PITTURA COME CINEMA Toulouse-Lautrec: l'intuito del regista. IN MOSTRA Ai Weiwei a Firenze, Espressionismo astratto a Londra, Magritte a Parigi, Ariosto a Ferrara.Direttore: Philippe Daverio