CARRÀ, DE CHIRICO,
“VALORI PLASTICI”

Dei caratteri che fanno della Zingara addormentata un prototipo del realismo magico sono iniziali portatori due pittori italiani, Carlo Carrà e Giorgio de Chirico, nel libro di Roh rappresentati anche con opere apparentemente lontane dall’idea più diffusa che si ha ora della tendenza, per le radicali soluzioni stereometricamente semplificate (in Carrà) e la conclamata metafisica teatralità (in de Chirico).

Ma nonostante le apparenze, Il cavaliere dello spirito occidentale di Carrà si propone come figura reale che si muove in uno spazio altrettanto reale, mentre l’immaginazione di de Chirico costruisce piazze algidamente immobili, vuote, silenziose ma a loro volta “vere”, pure basate sulla rappresentazione di forme plastiche nettamente delineate e distinte, tra le quali si determinano invisibili tensioni. Quadri come questi hanno un significato archetipico che sviluppa e completa quello attribuibile a Rousseau: non a caso costituiscono le prime illustrazioni del libro di Roh, dove sono confrontati con altrettante opere “espressioniste” per rimarcarne distanza e novità.

Il paragone del Cavaliere di Carrà con uno dei cavalieri tendenzialmente astratti di Kandinskij evidenzia come nel primo «tutto è realtà solida, la figura è palpabile, nello spazio possiamo effettivamente entrare», mentre nell’opera di Kandinskij l’immagine sembra un sogno. Analogamente virtuale è lo spazio urbano dipinto dal Robert Delaunay della Squadra di Cardiff, un intarsio piatto di colori, anche carico di suggestioni sonore - i rumori della città -, ben diverso dalla piazza di de Chirico immobile e silenziosa. Quest’ultima è un luogo urbano d’invenzione, naturalmente, dove «una profondità reale però penetra nel quadro, da una piazza immaginaria se ne forma una vera che vuole attirarci al suo interno».

Risulta senza dubbio centrale e fondativa l’esperienza del gruppo italiano di “Valori Plastici”, di cui Carrà e de Chirico sono protagonisti; è proprio quel gruppo, secondo Roh, «a dare la spinta decisiva per l’intera svolta europea». Specialmente esemplare è il caso di Carrà, già futurista radicale, che dopo metafisiche stereometrie, come la ricordata, arriva a sovrapporre con esiti di arcaica e immutabile stabilità volumi plastici in sé astratti e forme esistenti in natura, sempre meno geometrizzate.

Carlo Carrà, Il cavaliere dello spirito occidentale (1917).


Carlo Carrà, Il figlio del costruttore (1918), prima versione, opera perduta.

È il passaggio che si compie dal Cavaliere dello spirito occidentale, passando per l’altro suo pezzo riprodotto da Roh, la prima versione (perduta) del Figlio del costruttore, a dipinti del 1919-1921 quali Le figlie di Loth e Pino sul mare, assai ammirati nell’ambiente artistico tedesco del tempo anche per i loro forti e dichiarati legami con la terrena solidità della grande tradizione della pittura italiana antica, tra Giotto e Masaccio.

Sia il Cavaliere occidentale di Carrà sia Il grande metafisico di de Chirico - scelti da Roh come illustrazioni d’apertura del suo Realismo magico - compaiono nel primo numero della rivista “Valori Plastici”, del 15 novembre 1918; nel secondo numero, febbraio-marzo 1919, è riprodotto un Paesaggio dove il francese Jean Metzinger ha già abbandonato il cubismo nella direzione di una specie di chagallismo più oggettuale e sintetico. Nel terzo fascicolo (aprile-maggio 1919) ritroviamo Carrà con Il figlio del costruttore pure ripreso da Roh, ma anche una Natura morta oltremodo “magica” di Giorgio Morandi, come quella pubblicata nell’ultima uscita del 1919: un numero chiave, dal nostro punto di vista, aperto da Le figlie di Loth (un cui disegno apre il numero dell’estate 1920) e contenente la prima puntata del testo di Carrà Il rinnovamento della pittura in Italia, nonché soprattutto l’articolo di de Chirico Il ritorno al mestiere, fondamentale contributo alla svolta del 1920. Il secondo numero del 1921 è largamente illustrato da lavori della pittrice lettone Edita Walterowna zur-Mühlen - stabilitasi dal 1912 definitivamente a Roma, poi diventata moglie di Mario Broglio, direttore della rivista - pure selezionata da Roh tra i realisti magici italiani (e già presente in un precedente numero, del giugno-ottobre 1919, con opere però d’intonazione mistico-espressionista).


Carlo Carrà, Le figlie di Loth (1919); Rovereto (Trento), Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.

L’importanza dell’ultimo numero del 1919 sta nel fatto che - a prescindere dall’apparato illustrativo - vi emergono idee anticipatrici del ben più articolato sistema critico costruito da Roh nel saggio del 1925. Carrà scrive della necessità di «continuare i buoni antichi studi» (è dal 1916 che Giotto, Paolo Uccello e altra «gente remota» cominciano a occupare i suoi pensieri), deplora la «frenetica mobilità» dei tempi e dice «dei nostri errori», con evidente allusione al proprio passato «espressionista», per dirla con Roh. Entrando maggiormente nel merito del comporre pittorico, nella terza parte del suo scritto sottolinea come «qui in Italia, più che altrove, l’amore per le superfici bene ordinate e per la corposità equilibrata - che è classicità in atto - è naturalmente sentito» e come l’obiettivo sia ora «una forma d’arte sintetica riposata e tranquilla», ben lontana da quella dei «paesi freddi e nebbiosi degli gnomi e delle streghe […] alchimista, analitica, verista e romantica».

Nello stesso numero 11-12 di “Valori Plastici” gli fa eco de Chirico con il già citato articolo emblematicamente intitolato Il ritorno al mestiere, che in modo più esplicito entra nel merito della questione.

La polemica è rivolta contro i «pittori ricercatori che da mezzo secolo in qua si scalmanano, si arrabattano a inventare scuole e sistemi» ed escogitano una quantità di «trucchi» per apparire originali, anche nel nome di una presunta spiritualità: si tratta proprio del variopinto insieme dei pittori “espressionisti” nell’accezione sopra accennata, cui de Chirico oppone la necessità di una pittura dalle «forme più concrete e chiare, […] superfici che possano testimoniare senza troppi equivoci quello che uno sa e quello che può fare». Per centrare l’obiettivo, a suo dire, la prima cosa è ritornare alla pratica del disegno, la cui corretta esecuzione, a cominciare dalla copia delle statue antiche, diventa la condizione essenziale per la bontà del risultato pittorico: «Un quadro ben disegnato», continua citando Ingres, «è sempre dipinto abbastanza bene». «Pictor classicus sum», conclude, così sintetizzando un’idea - poi centrale per tanta parte del realismo magico - di immutabilità nel tempo e di condensazione di significati duraturi e profondi dietro le apparenze fuggevoli delle cose. Nell’Autoritratto pubblicato da Roh, il busto di de Chirico si staglia in un interno scuro che si apre su un’architettura antica; la mano destra regge l’iscrizione «Et quid amabo nisi quod rerum metaphysica est?» (“E che cosa amerò”, si potrebbe tradurre con una certa libertà, “se non quanto c’è oltre la fisicità delle cose?”).

Il terzo quadro di de Chirico scelto da Roh per il suo libro, il Paesaggio romano del 1922, rispecchia alla perfezione proprio l’idea del realismo magico come rappresentazione del mistero che si nasconde dietro il frammento di mondo di volta in volta portato in scena. A reggere l’insieme è una strana atmosfera sospesa che in primo luogo avvolge le architetture: edifici ancora realmente esistenti a Roma restituiti alla maniera di una veduta prospettica di città in una pittura del Quattrocento. Da una parte la spettrale apparizione di una figura affacciata; dall’altra l’apparente geometrizzazione astratta del volume architettonico fatta confliggere con l’assai realistico dettaglio della tapparella abbassata, spinta in fuori. Nella stessa casa, figure immobili in conversazioni pacatamente enigmatiche convivono con statue antiche in gran parte individuabili con precisione - a cominciare dal Meleagro col cane dei Musei vaticani - sovrastate da una gran roccia, coperta in sommità da una vegetazione scura che le conferisce un aspetto quasi zoomorfo, vivo, inquietante. La generale staticità è contraddetta con leggerezza dall’aquilone sospinto da un alito di vento; è lo stesso soffio vivificante che gonfia il mantello di Aura, sorprendente presenza mitica, seduta su una nuvola a dominare la scena e a suggerirne una chiave di lettura. Aura, infatti, si tiene la testa perché Afrodite l’ha fatta impazzire: parrebbe qui significare, coerentemente con il pensiero di de Chirico, la “grande pazzia” albergante dietro la tranquilla immobilità del tutto.


Edita Walterowna zur-Mühlen, Frutto delizioso, (1920); in “Valori Plastici”, 1921.

Giorgio de Chirico, Autoritratto (1920). L’idea di de Chirico di ricercare il mistero che si nasconde dietro l’apparenza delle cose è elemento essenziale del realismo magico: dichiarata nell’Autoritratto e teatralmente messa in scena nell’atmosfera sognante e sospesa del Paesaggio romano.


Giorgio de Chirico, Paesaggio romano (1922).

REALISMO MAGICO
REALISMO MAGICO
Antonello Negri
La presente pubblicazione è dedicata al Realismo magico. In sommario: La bibbia del realismo magico; Carrà, De Chirico, ''Valori Plastici''; Passato e presente; Altri italiani e non solo; La magia delle cose, al di là degli stili; Walter Spies, Paul Citroen, Max Ernst. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.