Pittore, scultore, educatore, scrittore, poeta, sperimentatore di tecniche fotografiche, sostenitore di un nuovo ruolo dell’artista nella società moderna, il poliedrico László Moholy-Nagy, nato in Ungheria, è protagonista in questi giorni di una grande mostra al Solomon R. Guggenheim Museum di New York (Moholy-Nagy: Future Present), la prima a lui dedicata da cinquant’anni a questa parte negli Stati Uniti, sua patria d’adozione dopo l’ascesa del nazismo.
Di famiglia ebraica, Moholy-Nagy nasce nel 1895 a Borsód (oggi Bácsborsód), un villaggio nell’Ungheria meridionale, allora sotto l’impero austroungarico. Di formazione cosmopolita, dopo la guerra inizia nel 1918 un articolato percorso artistico, ispirato dal costruttivismo russo ma anche dagli artisti dada incontrati Berlino nel 1920. Nel 1921 collabora con Hans Arp e altri al Manifesto dell’arte elementare, e un anno dopo espone con successo alla Galleria berlinese Der Sturm presentando assemblaggi, dipinti astratti e rilievi con materie industriali. Alla sua pratica artistica sempre più apprezzata e all’impegno antimilitarista unisce l’insegnamento sulla scia di Gropius a Weimar, Dessau e infine a Chicago. Le sue teorie puntano a rimpiazzare «i principi statici dell’arte classica con il dinamismo della vita universale», come scrisse lui stesso. Oltre all’arte astratta, che non deve riferirsi ad alcun oggetto reale, comincia a occuparsi di fotografia, suoni, filmati: luci, ombre, prospettive inconsuete, punti di vista enfatizzati contribuiscono all’idea di una “nuova visione” del mondo che sposta l’attenzione, appunto, dalla staticità della pittura alla dinamicità dell’arte cinetica.