Forse nessun artista del XX secolo ha interpretato così realisticamente la perversione e gli istinti più inconfessabili, come Francis Bacon. E forse nessuno, prima di lui, ha scandagliato la bestia umana in maniera così dettagliata. Amava le forme scultoree ma godeva a straziarle, a volte in modo bizzarro, a volte con immensa crudeltà. Tracce di questa attrazione per la brutalità si ritrovano nelle crocifissioni, nei ritratti intimi dei tanti amanti, nonché nei preziosi materiali d’archivio ritrovati nell’atelier londinese, al 7 di Reece Mews, a South Kensington, dove l’artista autodidatta, omosessuale, emarginato, ha vissuto in isolamento quasi totale dal 1961 al 1992.
In una sala del Grimaldi Forum è stata ricostruita, attraverso la riproduzione fotografica, l’atmosfera che si respirava nella tana dell’alchimista “maledetto”, tana che dopo la morte dell’artista fu trasferita da Londra alla Hugh Lane Municipal Gallery of Modern Art di Dublino.
È un caos odoroso di pennelli, vernici, tavole, pagine staccate da un libro o ritagliate da un giornale, schizzi, appunti, soprattutto le fotografie che Bacon utilizzava come fonte d’ispirazione. Introvabili album con uomini nudi di John Deakin, o colti in frenetico movimento dal fotografo ottocentesco Eadweard Muybridge; immagini di Himmler e Goebbels prese dalla rivista “Picture Post”; dischi di Chopin, Aznavour, Barbara; radiografie di crani, torsi e di gabbie toraciche; un trattato di medicina sulle malattie della bocca, comprato in Francia, testo fondamentale per lo studio delle sue bocche aperte (nell’urlo) o socchiuse (con il ghigno dei denti scoperti) che diventarono un tratto ricorrente della sua opera: «Volevo dipingere una bocca [...] come fosse un tramonto di Monet»; preziosi fotogrammi del film di Ejzenštejn La corazzata Potëmkin: la faccia urlante con il “pince-nez” di Pope II è stata modellata distorcendo l’espressione del viso dell’anziana bambinaia, appena colpita da una pallottola sulla scalinata di Odessa. Il luogo dove Bacon lavorava, più che uno studio era uno spazio claustrofobico, in totale contrasto con l’ordine asettico e quasi maniacale della stanza accanto dove, nelle pause di lavoro, si concedeva alla birra e alle bizze dei suoi amanti. «Mi piace lavorare in mezzo a tutta questa confusione», spiegava, «trovo molto stimolante avere tutte queste immagini in giro, perché mi suggeriscono delle cose e generano altre immagini nella mia mente. Alla fine, voglio che i miei quadri abbiano un aspetto ordinato, ma per essere buoni, credo che debbano sorgere molto liberamente dal caos». In questa stanza dall’arredamento essenziale, rischiarata da un piccolo lucernario, strisciando sul pavimento viscido di vernici, invaso da cenci, vecchi pullover, cartacce, Bacon realizzava i suoi miracoli: papi, gabbie, ritratti e autoritratti, corpi. Di carattere curioso, conviviale, aveva molti amici e di alcuni, gli intimi, quelli che più lo affascinavano, fece anche il ritratto, alla sua maniera. Mai dal vero: Bacon spiegava che i modelli in carne e ossa gli inibivano l’ispirazione. Lavorava a memoria, aiutandosi con fotografie e riproduzioni delle sue “cavie” sparse sul pavimento, che consultava ansioso, e distruggeva sistematicamente, se non corrispondevano al suo modello mentale.