MirÓ contro la
“buona pittura”

Tra 1928 e 1930 Miró mette a segno un’offensiva contro il quadro a olio senza precedenti, nella sua attività, per robustezza e intraprendenza.

Dapprima semplifica l’immagine trasformandola in un minimo progetto. Poi si sbarazza del pennello e del tubetto di colore per ridurre il proprio impegno a quello, feroce e sommario, del carpentiere e dell’imbullettatore. Nascono così manichini elementari, come nella serie delle Ballerine spagnole. Collage di bitume, sabbia, gesso e fil di ferro. E infine spogli rilievi in legno e metallo che rimandano al più ruvido (anti) artigianato Dada-costruttivista.

È difficile ritrovare la figura nei due collage dal medesimo titolo eseguiti a Parigi tra il tardo inverno e la primavera del 1928. Dov’è la “ballerina spagnola”? Nel primo caso vediamo solo l’immagine di una scarpetta tratta da una rivista di moda; due linee ad angolo - presumiamo siano le gambe; una linea verticale - la “figura” intera; e un punto di colore. Nient’altro che il kit di montaggio di una “ballerina”. Nel secondo caso la riduzione si spinge oltre. L’intera figura è ricondotta a una spilla da cappello e a una piuma, omaggio alla leggerezza della danzatrice oppure (chissà?) all’inafferrabile psiche femminile - l’“eterno femminino” dei poeti. Nell’uno e nell’altro caso Miró sembra esortarci a qualcosa come a un estremo “fai-da-te” immaginativo: sta a noi completare l’immagine per divenirne a tutti gli effetti coautori. A commento della propria stringatezza Miró inserisce nel primo collage un riquadro di carta smeriglio: il suo modo di tracciare “tipi” o profili umani, suggerisce, non è meno abrasivo della carta con cui levighiamo le superfici.


Ballerina spagnola (1928).


Collage (Testa di Georges Hauric) (1929); Zurigo, Kunsthaus.

Un’attenzione particolare merita il ricorso a materiali di scarto, umili e desueti. Nel Trattato sullo stile, corrosivo pamphlet critico-culturale pubblicato nel 1928, Aragon descrive se stesso come «il gioielliere delle materie decadute, l’incastonatore di cascami senza più scopo». E aggiunge in vertiginosa sequenza: «spigolo [i campi] a seguito delle tempeste, i capelli rasati dalla primavera. Agli abburattatori chiedo il loglio, allo staccio il residuo sdorato. Il crudele cilicio delle castagne, le palpebre sottili delle bacche di alchechengio sono i modi abituali del mio linguaggio. Ho raccolto i legnetti con gemma, le piume cadute, i grani. Ho collezionato muffe. I licheni mi chiamano per nome. Elitre rotte, vecchi carapaci di scarabei, piumette, frammenti di conchiglia, tele di ragno, bave di lumaca, bozzoli, pollini: tutti ho preso per mano. Nell’ala spezzata di una mosca ho visto le grandi invasioni». Troviamo qui, con un catalogo di “materie decadute” destinato a rimanere valido da Miró a Dubuffet e Burri, quell’elemento di pietà mista a insubordinazione così caratterizzante la ricerca surrealista: è indubbio che Miró intenda contribuire a questa (anti)estetica dello scarto con i suoi collage e le costruzioni a rilievo.

Possiamo tuttavia considerare il suo interesse per i detriti in modi meno patetici e politicamente (o socialmente) impegnati, alla luce di un gioco e di una sfida. Viene utile riferirsi anche in questo caso a Picasso e alla sua produzione di piccole sculture-assemblaggio in materiali residui e fortuiti, avviata almeno dal 1912 con la Maquette per chitarra oggi al Museum of Modern Art di New York e proseguita poi con i Bicchieri di assenzio e le Nature morte del 1914. Miró condivide con Picasso «l’amore per le cose già viste dagli altri e disdegnate» (la citazione è da Brassaï). Le sue sculture-assemblaggio oscillano tra stile severo e fantasticheria, riduzione iconoclasta e gaia policromia, con un picco di antagonistica durezza raggiunto sul finire degli anni Venti e una maggiore fluidità maturata in seguito e tradotta in ultimo nelle serie di piccole ceramiche tarde. Non ha senso inseguire rigide generalizzazioni: il proposito di satira sociale si intreccia indissolubilmente e in modo sempre diverso, nell’artista, alle vicissitudini dei materiali e alle allegrezze del “mestiere”.


Costruzione (1930).

Oggetto (1936); New York, MoMA - Museum of Modern Art. Uccelli in gabbia, catene, lucchetti, chiodi, “cadaveri squisiti”: Miró dissemina le sue opere di “figure” della crudeltà e della coercizione persuaso che il processo creativo maturi in circostanze tragiche e si nutra di pulsioni ambivalenti, a tratti antisociali.


Oggetto di tramonto (1936); Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou.


Testa (1954); New York, MoMA - Museum of Modern Art.

MIRÓ
MIRÓ
Michele Dantini
La presente pubblicazione è dedicata a Joan Miró (1893-1983). In sommario: Tra eclettismo e azzardo sperimentale; Con la bandiera catalana. Miró figurativo e neotradizionalista; A Parigi. Corteggiando la ''tabula rasa''; Sguardi, dardi, bersagli; Miró contro la ''buona pittura''; Autoritratti di gruppo. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.