tra eclettismo
e azzardo sperimentale

In un saggio apparso a metà degli anni Trenta del secolo scorso, dal titolo La crisi della civiltà, l’illustre storico olandese Johan Huizinga osservava che l’epoca contemporanea sembrava caratterizzarsi per un’inedita mancanza o “impotenza di stile”.

A suo avviso le arti figurative costituivano una formidabile testimonianza di questa impasse: il tumultuoso avvicendarsi di “novità”, superamenti o “ismi” non faceva che rendere più visibile la «distruttiva trasformazione di tutta la cultura» occidentale, e cioè la perdita di un saldo radicamento «in valori etici e metafisici supremi».

Per quanto distanti possano apparirci i termini della questione, le domande che Huizinga si poneva nel 1935 riflettono uno smarrimento al tempo condiviso. Al pari di storici dell’arte di grande reputazione, come Wind o Panofsky, o di intellettuali “apartitici” alla Julien Benda, Huizinga temeva che il culto dell’arte per l’arte e il rifiuto di una norma estetica comune avrebbe aperto la strada a speculazioni di ogni genere, indotte dal «commercio, dalla pubblicità e dalla mobilitazione» politico-ideologica. Le recinzioni che avevano protetto l’ambito estetico dagli ambiti pratici o strumentali, questa la sua tesi, stavano rapidamente venendo meno: che ne sarebbe stato della tradizionale autonomia dell’“arte” e della “cultura”?


Il campo arato (1923-1924); New York, Solomon R. Guggenheim Museum.

Quale che sia il nostro punto di vista in proposito, non c’è dubbio sul fatto che la litigiosa comunità di artisti, scrittori, intellettuali e attivisti raccoltasi nel corso degli anni Venti del Novecento attorno ad André Breton e Paul Eluard è all’origine del processo che Huizinga contesta. Chi, se non i surrealisti con crescente determinazione, ha posto per primo l’esigenza che l’arte prenda parte alla trasformazione del proprio tempo, abbandoni cioè i territori dell’Ideale, sacri alle muse e distanti dall’attualità, per situarsi in un contesto storico, politico e sociale determinato, sempre di nuovo innescata e per così dire pronta a deflagrare?

La relazione tra surrealismo e “rivoluzione” è tra le più controverse e complesse che si possa immaginare. Innanzitutto una precisazione: quando parliamo di “surrealismo” in termini politici non presupponiamo affatto che tutti coloro che a diverso titolo, con minore o maggiore intensità, hanno orbitato attorno al movimento si siano per ciò stesso posti immediatamente al servizio di una causa politica. Lo hanno fatto taluni tra gli scrittori che hanno preso parte alla fondazione del movimento, come Pierre Naville, che abbandona il surrealismo per entrare nelle fila del Partito comunista francese, e Louis Aragon, che lo segue in scia.


Musica - la Senna, Michel, Bataille e io (1927); Winterthur, Kunstmuseum.

Breton stesso, con non poche ambiguità, si iscrive al partito nel 1927, ma la sua posizione risulta sempre dibattuta e invisa ai vertici del partito. In realtà i surrealisti (o ex surrealisti) avvicinatisi al comunismo diffidano della Russia sovietica, in cui vedono un Moloch che distrugge ogni libertà, e mantengono posizioni antistaliniste. Sono più vicini a Trockij, cui sono spesso uniti da relazioni di stima e amicizia personali, e questa loro eterodossia, lungi dall’essere accettata dai comunisti francesi, desta rifiuto e avversione.

Malgrado il catalogo surrealista abbondi di ritratti di gruppo, la relazione tra individui o cerchie interne al movimento è tutto fuorché unanime. Come già nel caso del Dada parigino, così anche per i surrealisti vale una regola precisa: gli scrittori e “ideologi” del movimento sono su posizioni più politicizzate e radicali degli artisti figurativi, che non hanno interesse a portare la “rivoluzione” al di fuori del proprio specifico ambito di attività. Se Breton o Aragon insistono sul fatto che il surrealismo non è un “indirizzo” artistico tra gli altri, che il rinnovamento dell’arte non è né deve essere il fine ultimo, che la scrittura o il disegno “automatico” non sono semplici pretesti di “stile”, ma cospirano per un più ampio e generale mutamento delle coscienze, i “pittori” del movimento stanno sempre bene attenti a non farsi trasportare sul terreno ideologico e sociale. Posti nel 1929 da Breton davanti a un aut aut, e obbligati a scegliere tra arte e politica, non esitano a declinare qualsiasi proposito di “azione comune”, rigettando così, con stanchezza crescente per le parole d’ordine del movimento, gli universi pratici della “rivoluzione”.


Il carnevale di Arlecchino (1924-1925); Buffalo, Albright-Knox Art Gallery.

Come ci appare, oggi, la cangiante pluralità di stili (o “anti-stili”) che modella di luogo in luogo, di anno in anno, la comunità surrealista? Gli artisti figurativi più dei poeti e dei letterati sembrano incarnare quell’inquietudine che a Huizinga appariva sotto una luce sfavorevole. Quanti mutamenti e svolte a tratti paradossali in Masson e Miró, Ernst o Magritte! Per non parlare di artisti che orbitano al margine del movimento surrealista, spesso prefigurandone gli orientamenti ma non accettando mai di farne parte, come Duchamp e Picabia. Che dire poi dei grandi predecessori del movimento, De Chirico e Picasso, nella cui scia troviamo prima o poi tutti i “surrealisti” in senso stretto? La domanda per noi diviene: è lecito comprendere l’infedeltà stilistica come “impotenza di stile”? Vale la pena nutrire ragionevoli dubbi. Quello che leggiamo come incapacità potrebbe rivelarsi come un’intenzione positiva e determinata: sfuggire a procedimenti sempre uguali. Divenire, dislocarsi e mutare. Rendersi inclassificabili, cioè diffidare dello “stile” individuale.

Di volta in volta acclamato come “pittore-fanciullo” o accusato di eccessiva facilità, Miró esemplifica bene l’attitudine deliberatamente instabile e oscillante del primo surrealismo. Giunto a Parigi una prima volta nel 1919, in precoce contatto, oltreché con Picasso, con Masson, Tzara e Reverdy, il pittore catalano sfoggia sorprendenti mutamenti di stile in un giro di anni relativamente breve e, quel che più conta, il costante proposito di invalidare teorie o “modelli” ritenuti prescrittivi. Ai suoi occhi la storia dell’arte non ha un corso univoco, non è cioè retta da criteri di “avanzamento” o “progresso”, al contrario: epoche dimenticate e perdute, opere d’arte da lungo tempo ignorate o svalutate come “minori” e tradizioni popolari possono ai suoi occhi fare al caso dell’artista moderno molto più di “formule” in auge.


Interno olandese III (1928); New York, Metropolitan Museum of Art.

Gli anni tra il 1917 e il 1923 ci mostrano un artista narrativo e “ingenuo”, quasi un cantastorie se non un antico lirico d’amore, un menestrello o un trovatore preoccupato di stabilire un rapporto di affetto e grata familiarità con la sua terra natale, la Catalogna. Miró dipinge semplici borghi pirenaici, la casa di campagna della famiglia, gli amici e i conoscenti. Il quotidiano trapassa nell’eterno e nell’immutabile. Aulico e popolare appaiono commisti, e così pure poetico e politico: la causa del nazionalismo catalano è ben presente a Miró. Lo stile è calligrafico e minuto, singolarmente sprovvisto di atmosfera, come nei più antichi quadri a olio fiamminghi, cui rimanda il meticoloso esercizio descrittivo di tessuti, stoffe, coltivazioni. Nelle lettere agli amici del periodo di guerra parla di sé come di un aedo infiammato da sentimenti di fraternità “mediterranea”: la contrapposizione bellica tra nazioni dell’Intesa e Imperi centroeuropei si riflette anche nella neutrale Catalogna.

Mutiamo scena. Tra 1924 e 1929 Miró propone uno stile policromo e fantastico, caratterizzato da ampie estensioni di colore indifferenziato e linee arabescanti, quasi “Art Nouveau”. Vengono meno i minuti “censimenti” figurativi di orti, fattorie e villaggi, così caratteristici degli anni precedenti, e la raffigurazione si concentra su dimensioni chimeriche e teatrali. Salgono sul palco i “personaggi” di Miró, buffe creature d’invenzione dispiegate una prima volta in quadri come Il campo arato (1923) e soprattutto Il carnevale di Arlecchino (1924), scarmigliato “pastiche” alla maniera di Bosch; e riproposti poi nella celebre serie degli Interni olandesi. Subito dopo, con più forza a partire dal 1925, la tela si svuota, si spoglia gradualmente delle sue attrattive figurative e affabulatorie: è il momento degli sfondi monocromi. Miró muove una prima offensiva contro la pittura a olio, quasi a umiliarne eleganza e seduzione. Corrisponde così a propositi di rottura condivisi da artisti a lui vicini, come Masson. E privilegia la parola sull’immagine: nascono le prime composizioni recanti frasi e brevi testi.


Collage (1929). Attorno alla fine degli anni Venti Miró reagisce al dirompente ingresso in scena di Salvador Dalí inibendosi l’amabilità ornamentale delle tele con citazioni di antichi maestri. L’impiego di materiali “poveri” e dalle apparenze inattraenti, come bitume, filo di ferro, sassi, carta abrasiva, risponde a un proposito per più versi programmatico.

Una terza fase nella produzione di Miró ha inizio verso la fine del decennio, più precisamente nel 1929, quando l’artista si dedica a “costruzioni” e collage. La scelta polimaterica non è ovvia né neutra: giunge anzi come rottura nel contesto della carriera di Miró. Questi, che conosce bene l’avanguardia italiana del periodo della prima guerra mondiale, ha sempre corteggiato dimensioni “antigraziose”, buffe e popolareggianti: lo stile da insegna d’osteria esibito tra 1917 e 1918 ne è un felice documento. Ma nelle “costruzioni” o nei collage di fine anni Venti si fa strada un proposito polemico e persino iconoclasta sconosciuto in precedenza, quasi un’estetica della desolazione o dello squallore che impone materiali poveristici - bitume, sabbia, sassi, filo di ferro. Con questa improvvisa, intenzionale durezza Miró vuole rispondere alle critiche rivoltegli da Breton? Parrebbe di sì. Nel saggio sul Surrealismo e la pittura, apparso nel 1928, lo scrittore e critico lo aveva infatti accusato, non ha torto se consideriamo le opere al tempo più recenti, di essere artista troppo amabile, “surrealista” sì ma nel senso in parte futile o ornamentale di un “grazioso” contemporaneo. «Armonie personali, senza dubbio. Ma pur sempre armonie, armonie imbecilli»: così, lapidario, aveva rilanciato Aragon a distanza di due anni nel breve testo La pittura messa alla prova, a conferma che le riserve di Breton non erano del tutto peregrine.


Il cacciatore (Paesaggio catalano) (1924), particolare; New York, MoMA - Museum of Modern Art.

Come che sia, in ogni sua fase Miró rende inservibile la tradizionale categoria di evoluzione artistica. Non nel senso che non esista per lui qualcosa come la “novità” o l’innovazione stilistica. Ma nel senso che la storia dell’arte smette di presentarsi ai suoi occhi come una sequenza lineare di stili o una cronologia, una vicenda provvista di autorità, incontestabile e normativa. Tutto può tornare in vita, con inventivo eclettismo. Oppure, al contrario, gli stili di ieri possono rivelarsi del tutto incompatibili con le esigenze dell’oggi, mentre proprio l’Arcaico, il Remoto e il Desueto guadagnano in incandescente attualità. Non si tratta tanto di chiamare in causa modelli primitivistici di arte extraeuropea africana e oceanica, che certo Miró non ignora e cui non manca di riferirsi, anche se in modo più sporadico di quanto comunemente si ritenga; ma di riconoscere invece che l’arte cristiana primitiva, così bene attestata in Catalogna, lo attrae per le dimensioni di potenza, immediatezza e per la contiguità che si stabilisce in essa, per esempio nella miniatura, tra immagini e parole.

Non mancano frequenti richiami ai più antichi maestri del fantastico, Bosch per esempio, o a pittori nordici di tradizione simbolista e decadente, da Böcklin a Munch. Miró gioca con la propria genealogia modificando e ricombinando per un partito preso di inafferrabilità. L’arte più recente, “pleinairista” e impressionista, smarrisce precocemente ai suoi occhi una qualsiasi autorità, e la storia dell’arte diviene una sartoria teatrale, un esuberante trovarobato cui attingere costumi e “stili” adatti all’occorrenza. «Si fa fatica a immaginare », declama Apollinaire nella poesia Vittoria, «sino a qual punto il successo renda stupidi e mansueti / [...] O Bocche, l’Uomo è alla ricerca di una lingua nuova / cui nessun grammatico potrà mai contribuire». A distanza di anni gli fa eco Breton, che nel Secondo manifesto del surrealismo, diffuso nel 1929, afferma: «l’approvazione del pubblico è da fuggire più di ogni altra cosa. Bisogna assolutamente impedire al pubblico di entrare se si vuole evitare la confusione. Aggiungo che bisogna tenerlo esasperato alla porta con un sistema di sfide e provocazioni». Oggi tendiamo a credere che il significato delle opere d’arte sia autoevidente, e che basti assumere da parte nostra un atteggiamento come di rilassata devozione per averne la migliore esperienza possibile. Ma non sempre è stato così: per larga parte del Novecento gli artisti hanno giocato con l’osservatore comune disseminando di trappole i percorsi interpretativi, complicando e sviando o attingendo a fonti inconsuete. Questa ritrosia modernista, a tratti maliziosa, giunge all’apice nel primo anteguerra e nutre ancora l’immaginazione surrealista: contribuisce in parte a spiegare i repentini cambi di stile di Miró.

MIRÓ
MIRÓ
Michele Dantini
La presente pubblicazione è dedicata a Joan Miró (1893-1983). In sommario: Tra eclettismo e azzardo sperimentale; Con la bandiera catalana. Miró figurativo e neotradizionalista; A Parigi. Corteggiando la ''tabula rasa''; Sguardi, dardi, bersagli; Miró contro la ''buona pittura''; Autoritratti di gruppo. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.