Come che sia, in ogni sua fase Miró rende inservibile la tradizionale categoria di evoluzione artistica. Non nel senso che non esista per lui qualcosa come la “novità” o l’innovazione stilistica. Ma nel senso che la storia dell’arte smette di presentarsi ai suoi occhi come una sequenza lineare di stili o una cronologia, una vicenda provvista di autorità, incontestabile e normativa. Tutto può tornare in vita, con inventivo eclettismo. Oppure, al contrario, gli stili di ieri possono rivelarsi del tutto incompatibili con le esigenze dell’oggi, mentre proprio l’Arcaico, il Remoto e il Desueto guadagnano in incandescente attualità. Non si tratta tanto di chiamare in causa modelli primitivistici di arte extraeuropea africana e oceanica, che certo Miró non ignora e cui non manca di riferirsi, anche se in modo più sporadico di quanto comunemente si ritenga; ma di riconoscere invece che l’arte cristiana primitiva, così bene attestata in Catalogna, lo attrae per le dimensioni di potenza, immediatezza e per la contiguità che si stabilisce in essa, per esempio nella miniatura, tra immagini e parole.
Non mancano frequenti richiami ai più antichi maestri del fantastico, Bosch per esempio, o a pittori nordici di tradizione simbolista e decadente, da Böcklin a Munch. Miró gioca con la propria genealogia modificando e ricombinando per un partito preso di inafferrabilità. L’arte più recente, “pleinairista” e impressionista, smarrisce precocemente ai suoi occhi una qualsiasi autorità, e la storia dell’arte diviene una sartoria teatrale, un esuberante trovarobato cui attingere costumi e “stili” adatti all’occorrenza. «Si fa fatica a immaginare », declama Apollinaire nella poesia Vittoria, «sino a qual punto il successo renda stupidi e mansueti / [...] O Bocche, l’Uomo è alla ricerca di una lingua nuova / cui nessun grammatico potrà mai contribuire». A distanza di anni gli fa eco Breton, che nel Secondo manifesto del surrealismo, diffuso nel 1929, afferma: «l’approvazione del pubblico è da fuggire più di ogni altra cosa. Bisogna assolutamente impedire al pubblico di entrare se si vuole evitare la confusione. Aggiungo che bisogna tenerlo esasperato alla porta con un sistema di sfide e provocazioni». Oggi tendiamo a credere che il significato delle opere d’arte sia autoevidente, e che basti assumere da parte nostra un atteggiamento come di rilassata devozione per averne la migliore esperienza possibile. Ma non sempre è stato così: per larga parte del Novecento gli artisti hanno giocato con l’osservatore comune disseminando di trappole i percorsi interpretativi, complicando e sviando o attingendo a fonti inconsuete. Questa ritrosia modernista, a tratti maliziosa, giunge all’apice nel primo anteguerra e nutre ancora l’immaginazione surrealista: contribuisce in parte a spiegare i repentini cambi di stile di Miró.