A PArigi. CorteggiAndo
lA “tAbulA rAsA”

Se consideriamo le immagini-tipo eseguite da Miró nel 1924 e nel 1925, comprendiamo meglio il processo di trasformazione e adattamento cui la sua attività va incontro in seguito al consolidarsi di relazioni con la scena artistica parigina.

Si può ragionevolmente dubitare che lo stile dell’artista nella seconda metà degli anni Venti sia “surrealista” in un qualsiasi senso definito e concreto del termine: in esso non troviamo traccia di “automatismi psichici” - al contrario: Miró procede con estrema circospezione e cautela, e dipinge non di rado facendo riferimento a studi preliminari e abbozzi - mentre il riferimento contemporaneo più saldo non è a un qualche artista del movimento ma senza dubbio a Picasso. Inoltre: la commistione tra ideogramma e figura, come già visto, è avviata da tempo e non riflette certo fascinazioni improvvise. È vero tuttavia che la progressiva rarefazione di riferimenti a geografie affettive o a tradizioni consolidate riflette una propensione condivisa, nella cerchia surrealista, per la “tabula rasa” (data non a caso al 1921, al primo periodo parigino, la rottura di Miró con l’amico pittore Enric Cristòfor Ricart i Nin, neotradizionalista e regionalista catalano avverso agli sperimentalismi parigini).

Il Ritratto di Madame K. (1924) è uno dei numerosi ritratti finzionali (o meglio pseudoritratti) che Miró esegue come per interrogarsi sul problema dello “stile” e della “figura”. Come dipingere oggi? Come e cosa “rappresentare”? Queste le sue domande. Il quadro prende l’aspetto di una verifica sperimentale. L’artista saggia la validità di questa o quella ipotesi figurativa - vale a dire la validità di questo o quello “stile”, questo o quel modello di “realtà” e figura. Il procedimento si fa più astratto che non in precedenza. Supponiamo pure che esista una modella, anche se faremmo meglio a dubitarne. È tuttavia evidente che l’artista sceglie di distanziarsi quanto più possibile dalle apparenze ordinarie della figura per scomporre, separare, sostituire. La testa diviene un manichino, la chioma si contrae nei tentacoli di una piovra.

Sopravvive un solo orecchio, immenso, quasi a rinviare ad attitudini mistico-introspettive, e il corpo smarrisce il proprio contorno. Vediamo la colonna vertebrale, ridotta a una fascia verticale; il cuore; il bacino (trasformato in un semplice anello); i due seni, magnificati e proposti secondo due punti di vista differenti, alla maniera “cubista”; il pube e le gambe divaricate. È tutto.

Se avvicinassimo il Ritratto di Madame K. da punti di vista tradizionali dovremmo parlare di anatomia, e non di ritratto: prevalgono sezioni interne del corpo. Osservato invece da punti di vista etnografici il Ritratto si rivela un’interpretazione della (presuntiva) modella in termini di idolo, mostro e feticcio: l’immagine manca del tutto di verosimiglianza, amplifica a dismisura l’importanza di seni e vulva e indaga clinicamente l’incidenza della selezione sessuale sui comportamenti di genere. Miró si diverte a rappresentare la donna in termini di preda sessuale e l’uomo in termini di frusto cacciatore. Rivolta al seno di sinistra, la freccia a forma di piccolo cuore visibile al centro della composizione porta umoristicamente in scena il desiderio maschile: questo, suggerisce maliziosamente Miró, si orienta inevitabilmente ai “genitalia” e appare del tutto indifferente al volto, poniamo, o all’intelligenza muliebre.


Ritratto di Madame K. (1924), particolare.

L’immagine svela il proprio doppio senso satirico nella congiunzione di “colonna vertebrale” e “bacino”: l’ingranaggio che ne risulta rinvia schematicamente al coito, e finisce per equiparare sia l’uomo che la donna alle due metà di un congegno copulatorio, o per meglio dire di una “macchina celibe” di tradizione dadaista. Proprio se collocato sullo sfondo di dissacranti immagini meccaniche, tuttavia, il Ritratto di Madame K. rivela la propria eclettica originalità. I “simboli” disseminati nella composizione sono a tratti insolitamente risonanti e accurati: sfuggono o resistono alle convenzioni del “disegno tecnico” associate al rifiuto duchampiano della pittura. Il pube per esempio: ha ricci modellati in modo da richiamare la colomba, dunque l’Annunciazione, di cui l’artista si propone di dare qui una versione profana. Cos’è allora la squadra esibita due volte nell’immagine, se non la metafora figurativa di uno “Spirito santo” invocato e atteso, che giunga nello studio del pittore e ponga fine alla sua amletica infecondità? Miró non è certo isolato, sulla scena di Parigi, a giocare con le iconografie della tradizione sacra. Lo fanno anche Picasso e Chagall (quest’ultimo per esempio nell’Apparizione del 1917-1918). Di fatto possiamo considerare Donna in poltrona (1913) di Picasso la fonte immediata del Ritratto di Madame K. Lo rivelano non solo il drappo che circonda la vita della modella picassiana, che richiama immediatamente il dettaglio corrispondente nell’immagine di Miró; ma l’uso di sezionare parti anatomiche e di affiggerle con chiodi e spilloni.

In Donna in poltrona, quadro che documenta, nelle intenzioni stesse di Picasso, il desiderio di tornare alla “figura” con tecniche non convenzionali, l’artista gioca tra aulicità e profanazione. Dispone morbidamente le pieghe del drappo in modo da evocare la figura di una colomba ad ali spiegate (particolare che Miró mostra di conoscere assai bene). Adagia la figura su morbidi velluti trapunti di colore rosa. E fa sì che il contorno esterno della poltrona ricordi la mandorla tradizionalmente associata alla figura di Maria trasfigurata. Tuttavia non manca di sfoggiare gli ampi seni rigonfi, la piccola ascella e il levigato basso ventre della giovane donna - dettagli che si addicono a una Madonna profana. Interpreta infine, prefigurando i procedimenti adottati da Miró nel Ritratto di Madame K., l’intera immagine come un’umoristica sessione di bilanciamento tra parti ugualmente instabili o provvisorie - accorgimento cui Miró ricorre anche in Maternità (1924); e come verifica sperimentale di traslati o “equivalenze” figurative.

Maternità (1924); Edimburgo, Scottish National Gallery of Modern Art.


Il corpo della mia bruna... (1925).

Torniamo per un attimo ai seni immaginativamente appuntati sul foglio o sulla tela: Picasso non ci nasconde, in questo caso, il carattere artificioso della rappresentazione. In altre parole: non nasconde che sta dipingendo un “analogo” della realtà. Non la realtà stessa. Alla modella in carne e ossa sostituisce una “costruzione” o un assemblaggio che ha buffe apparenze di giocattolo, di pupazzo disarticolato o manichino. L’abilità, sembra suggerire, è molto più nell’inventare “analoghi” che nell’incoraggiare l’illusione naturalistica. L’enfasi cade tutta sul prodigio della rassomiglianza, e cioè sul modo ingegnoso, talvolta funambolico attraverso cui il pittore-mago trasforma le cose nel segreto del suo atelier; e ancor più sulla distanza che passa tra il mondo artistico delle forme e il mondo della percezione quotidiana. Picasso rigetta la tradizionale pratica dell’“imitazione” di tradizione classico-rinascimentale, certo. Al tempo stesso, quasi a tornare sui propri passi e a smentire le composizioni cubiste del periodo “analitico”, si mostra del tutto refrattario a ciò che intendiamo con il termine “astrazione”.


Edvard Munch, Madonna (1894-1895); Oslo, Munch Museet.


Edvard Munch, Il bacio (1897); Oslo, Munch Museet.

Con Il corpo della mia bruna..., datato 1925, Miró ci propone ancora un ritratto finzionale, in cui sperimenta tecniche e “stili” innovativi. Il mutamento è evidente: la parola prende il posto dell’immagine e suggerisce essa stessa il motivo.

Il quadro vive della simultanea compresenza del visivo e del verbale: il nudo femminile è sommariamente raffigurato da una silhouette tracciata in negativo, attraverso il contorno esterno. A fronte di un disegno sbrigativo e parziale, il testo è molto più evocativo, e indugia ludicamente sulla passione sensuale che unisce gli amanti. La figura femminile riproduce il gioco di bilanciamento sperimentato in precedenza e pone grande enfasi sui caratteri sessuali della donna, seni (duplicati) e pube in primo piano. Per di più Miró sembra non curarsi troppo di dissimulare la fonte figurativa del nudo, tanto la somiglianza è manifesta: eseguita in più versioni e diffusa da una fortunata serie di litografie e incisioni su legno, la Madonna di Munch presta alla “bruna” di Miró la posa voluttuosamente inarcata e l’accorgimento di una chioma lunga e folta.

Personaggio (1925); New York, Solomon R. Guggenheim Museum.


Dama che passeggia sulla rambla a Barcellona (1925); New Orleans, Museum of Art.

Munch è un artista cui Miró guarda spesso ancora nel terzo decennio, interessato ai drammi di amore e morte, crudeltà e dipendenza portati in scena dalle sue tele - si riferisce ancora a una delle composizioni più celebri dell’artista norvegese nel Bacio (1924), che trasforma in una competizione evolutiva tra organismi monocellulari, ospite e parassita. Nel Corpo della mia bruna... la trasparenza della citazione può sorprendere, considerate le professioni di “tabula rasa” che animano il periodo: tuttavia è chiaro che la pittura a olio, per Miró a questa data, è una sorta di lingua morta cui attingere in modi più o meno ruvidi o brutali, quasi in termini di “readymade”. A sorreggere il processo creativo è la versatilità tecnica. Miró cerca scampo all’esaurimento di una tradizione nella poesia visiva, nel collage o nella “costruzione” polimaterica.

Il progressivo svuotamento dell’immagine che si dispiega nell’attività di Miró nella seconda metà degli anni Venti è accolto con favore da un critico e testimone attento come Aragon, che vi vede conferma della bontà di talune sue intuizioni. A distanza di decenni questo giudizio può lasciare perplessi: le composizioni con brevi testi o “minutiae” ideografico-figurative disperse su grandi superfici monocrome appaiono oggi meno potenti o persuasive che in passato, quasi eco debilitate di motivi esausti ripetuti in serie - il circo, la corrida, il contadino catalano, la danzatrice spagnola. 


Paesaggio (Paesaggio con gallo) (1927).

I “paesaggi” catalani anteriori alla svolta del 1923 o 1924 non sono tanto più emozionanti di composizioni semi-astratte abitate da piccoli spettri, blande satire del sentimentalismo contemporaneo che ci sembrano a tratti illustrative e persino vagamente stucchevoli? All’iniziale repertorio di temi e motivi regionalistici Miró torna di fatto ad attingere in ogni fase della sua attività, nei momenti più potenti ed espressivi, per dichiarare il proprio desiderio di libertà, celebrare la schiettezza e semplicità del mondo rurale o denunciare la violenza politica. Occorre però considerare che al tempo in cui Miró dipinge Il corpo della mia bruna... il punto di vista è instabile e carico di aspettative future: si crede, per più versi a ragione, che la pittura surrealista debba ancora venire. «Alla fine, per ammantarsi di un’alba / occorre che il cielo sia tanto puro quanto la notte », vaticina Eluard in Joan Miró, ritratto in versi apparso nel 1925. Proprio il recente distacco di Miró da narrazioni localistiche minuziosamente descrittive appare più stimolante e meritevole al poeta, che celebra l’atto del “togliere” e del ridurre a nudità. La consapevolezza dell’importanza crescente della fotografia come pratica artistica induce a cercare la specificità della pittura al di là della mera rappresentazione. «Forse è da qui», ammette Aragon commentando il Carnevale di Arlecchino e l’Eremitaggio, tele entrambe del 1924, «che comincia l’antipittura e nasce quella scrittura novella che, dischiusasi come al termine di una preistoria trascorsa nelle grotte, esce finalmente incontro al senso geroglifico del mondo e istituisce il massimo contrasto tra la violenza dei colori e le rivendicazioni del segno».

Questo è il colore dei miei sogni (1925). Se la fotografia è descrittiva, suggerisce Miró, la pittura evoca stati d’animo e travalica l’ambito del sensibile. Agli occhi dell’artista essa riesce vittoriosa nel paragone.


L’eremitaggio (1924); Filadelfia, Museum of Art.

MIRÓ
MIRÓ
Michele Dantini
La presente pubblicazione è dedicata a Joan Miró (1893-1983). In sommario: Tra eclettismo e azzardo sperimentale; Con la bandiera catalana. Miró figurativo e neotradizionalista; A Parigi. Corteggiando la ''tabula rasa''; Sguardi, dardi, bersagli; Miró contro la ''buona pittura''; Autoritratti di gruppo. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.