Con la bandiera Catalana.
Miró figurativo
e neotradizionalista

Un semplice dettaglio si carica a volte di implicazioni non banali. È il caso delle piccole bandiere catalane issate da Miró sullo sfondo di tanti suoi quadri del primo periodo.

Le vediamo ondeggiare al vento sulle torri di Montroig, sui tetti delle fattorie o in mezzo ai campi arati. Talvolta si accompagnano a esse le bandiere spagnola e francese, quasi a stabilire una complessa alleanza di popoli, geografie, sensibilità, culture. Come già accennato, la componente geografica (o se si preferisce geopolitica) è particolarmente importante per la prima attività dell’artista. Miró lo dichiara esplicitamente dipingendo gli attributi del mestiere in una piccola natura morta della primavera del 1917. Tra di essi, in bella posa tra un libro di Goethe e un’anfora dalle sinuose apparenze matissiane, spicca la rivista “Nord-Sud”, pubblicata a Parigi dal poeta e critico Pierre Reverdy dal marzo 1917 all’ottobre del 1918. Prestiamo attenzione alle date: parrebbe proprio che Miró avesse ritratto il primo numero di “Nord-Sud”, e la circostanza non è casuale. In esso Reverdy traccia infatti un breve profilo del cubismo di Picasso e Braque e ne rivendica la severa originalità a fronte delle legioni di imitatori. «Avvertiamo la necessità di comprendere e stabilire intese più proficue», chiarisce Reverdy. «In troppi si richiamano a un indirizzo artistico con ragioni che sono diverse e perfino opposte». Il senso ultimo della novità cubista, per il poeta, è da cercare nella “disciplina” che regge la composizione. Capriccio e arbitrarietà non hanno alcun ruolo in Picasso o Braque.

«Dall’epoca in cui è nata la prospettiva», compendia, «in arte non si era più trovato niente di altrettanto importante. Ma la nostra è l’epoca in cui si è finalmente trovato un equivalente della prospettiva, questo strumento meraviglioso. La prospettiva ci permette di rappresentare gli oggetti secondo la loro apparenza visiva.

Il campo arato (1923-1924), particolare; New York, Solomon R. Guggenheim Museum.


Nord-Sud (1917).

Il cubismo costruisce invece il quadro senza tenere conto degli oggetti se non come elementi compositivi - si disinteressa dunque della loro esistenza considerata da punti di vista aneddotici». In Nord-Sud Miró scioglie un fantasioso omaggio alla “disciplina” cubista. Dispone gli oggetti secondo le esigenze del quadro. Dissolve i contorni che non gli sono utili a definire con precisione i termini dell’immagine. Moltiplica emblemi e allegorie. Così le forbici rinviano all’abilità o all’accortezza con cui il pittore cubista “taglierà” i suoi motivi, il frutto e il fiore al “profumo” semplice e fragrante della composizione, la ceramica all’impulso plastico elementare dell’ornamentazione. Il cardellino in gabbia personifica infine quell’«emozione» che per Braque, assai più di Picasso mentore di Reverdy alla data cui ci riferiamo, dev’essere pur sempre «corretta dalla regola» (è Braque stesso a scriverne su “Nord-Sud” nel numero del dicembre 1917).

C’è un elemento, nel quadro di Miró, che è risolutamente non cubista, quantomeno non nel senso in cui possono dirsi “cubisti” Picasso e Braque: la policromia. Sgargiante e tenuta su toni caldi, questa rimanda piuttosto a Delaunay, pittore che trascorre in Spagna e Portogallo gli anni dal 1914 al 1920 e di cui Miró sembra conoscere proprio le composizioni “mediterranee” del periodo di guerra. A differenza di Delaunay, tuttavia, Miró è tutt’altro che un cantore della modernità parigina: la sua arte appare tenacemente radicata nel suolo natale e sovverte umoristicamente, con narrazioni localistiche e “provinciali”, l’orgogliosa affermazione di primato francese racchiusa in tante composizioni di orientamento cubista.


Robert Delaunay, Donna portoghese (1916); Columbus (Ohio), Museum of Art.

In un testo apparso nel 1958, ma verosimilmente concepito molto prima, dal titolo Lavoro come un giardiniere, Miró sviluppa il paragone tra la sua attività e quella di chi coltiva un orto o accudisce una vigna. «Qui ci sono carciofi», illustra, «laggiù le patate. Le foglie devono essere tagliate in modo che le verdure possano crescere. A un certo momento devi sfoltire [...]. Ogni cosa ha bisogno di tempo». Ironico e pungente, il paragone è meno candido di quanto desideri apparire. È vero: «l’arte popolare mi ha sempre commosso», aggiunge Miró, «e i pittori che mi [fanno] una più forte impressione [sono] Van Gogh, Cézanne e il Doganiere Rousseau». Non tutto è così semplice, tuttavia; né vale incondizionatamente per ogni periodo dell’attività dell’artista.

L’orto e l’asino è una composizione tra le più ambiziose e vivaci dell’artista catalano. Datato 1918, il quadro è perlopiù considerato come uno dei tanti paesaggi regionali dipinti da Miró sul finire del decennio. In realtà è un’allegoria, come è facile verificare, e introduce quel confronto tra “pittura” e orticoltura su cui l’artista torna a distanza di decenni.

Procediamo con ordine. Eseguito nello stile vitreo e minuzioso su cui ci siamo già soffermati, “alla fiamminga”, L’orto e l’asino sembra raffigurare un esterno. Vediamo l’orto, l’asino, il cielo e le case del paese. Colpisce la regolarità dei riquadri di terra, l’ordine e la disciplina con cui l’ignoto coltivatore ha suddiviso il suo piccolo terreno. 


L’orto e l’asino (1918); Stoccolma, Moderna Museet.

Se una composizione cubista è usualmente descritta al tempo come un “prisma” o “cristallo” che ricompone il mondo aggregandolo in superfici geometriche regolari, bene, Miró sta facendo qualcosa di simile - dunque: dipinge “cubista” - ma riportando gli esperimenti dell’avanguardia parigina a una sapienza popolare millenaria, a un uso per così dire vernacolare della geometria, al senso “naturale” che il contadino catalano (o “mediterraneo”) ha dell’unità nella molteplicità. In altre parole: l’artista si appropria dei più innovativi linguaggi dei moderni per adattarli (o meglio ritrovarli) nell’antico che resiste e sopravvive. Il suo gioco oscilla ambiguamente tra modernismo e antimodernismo e sembra volersi fare beffe di presunzione o superbia metropolitana. Come non riconoscere, in questo suo atteggiamento, l’eco di un artista come Derain, da sempre vicino alle innovazioni più radicali - prima “fauves”, poi cubiste - e tuttavia pronto a tradirle nel nome di una “semplicità” o di una “emozione” consegnata per sempre a stili arcaici (romanico, gotico, “bizantino”) o vernacolari (le insegne di osteria, le stampe anonime)? La Veduta di Saint-Paul de Vence (1910) di Derain è un precedente immediato delle immagini di villaggi catalani dipinte da Miró tra 1917 e 1918, come Prades. Il villaggio. Ritroviamo le scelte di media distanza, l’ordinata rappresentazione delle case raccolte attorno alla chiesa e alla torre campanaria, l’implicito elogio dell’armonia con cui un antico insediamento rurale si inserisce nella natura circostante, in parte lasciata a bosco, in parte adibita a coltivi.


André Derain, Veduta di Saint- Paul de Vence (1910); Colonia, Museum Ludwig.

Prades. Il villaggio (1917); New York, Solomon R. Guggenheim Museum.


Casa con palma (1918).

Ritroviamo persino il proposito celebrativo: in entrambe le immagini il villaggio ci viene presentato come un prodigio. Derain usa a questo scopo due grandi quinte arboree poste ai lati: a mo’ di cortina sacra, esse si dischiudono sul torreggiante piccolo borgo dello sfondo. Miró varia sul tema della cortina: al suo posto troviamo motivi geometrici eseguiti con vivaci policromie. Che senso hanno, possiamo chiederci? Quale origine? Non è difficile rispondere, purché si conoscano le vivaci cornici ornamentali che adornano le pagine di un qualsiasi Beatus catalano o spagnolo di epoca mozarabica, cioè i commentari all’Apocalisse di Giovanni (o meglio: al commento che di questa ha dato un monaco spagnolo vissuto nell’VIII secolo, il Beato di Liebana) illuminati da questo o quel monaco tra X e XI secolo: motivi architettonici e a mosaico, arabeschi zoomorfi, cornici lineari racchiudono qui l’immagine maggiore con inventività senza pari. Miró può ben conoscere i repertori decorativi della miniatura mozarabica attraverso illustrazioni o per esperienza diretta: un codice tra i più mirabili, il Beatus di Girona, scritto in caratteri visigotici su due colonne e risalente al X secolo, è conservato nella cattedrale di Girona, non distante da Barcellona. Quale che sia la fonte di cui Miró si avvale - troviamo cornici ornamentali “dissimulate” anche nel Villaggio di Montroig (1918), in Vigne e olivi a Tarragona (1919) e nella Casa con palma, ancora del 1918 - è indubbio il proposito: consacrare la terra natale e trasformarla in oggetto di entusiastica devozione. Niente potrebbe essere più lontano dalla mera topografia di questi paesaggi di piccolo formato.


Vigne e olivi a Tarragona (1919).

Torniamo adesso all’Orto e l’asino. Disponiamo di migliori strumenti per considerarne la diversità da un comune quadro di paesaggio. Osserviamo in primo luogo la bizzarra forma “a scatola” dell’immagine: forma che sembrerebbe addirsi a un interno, non a una veduta di paese. Tuttavia è proprio così: Miró dipinge il suo orto come se questo si sviluppasse nei limiti di una stanza, o meglio: di un atelier. Ecco che le pareti delimitano in estensione il piccolo appezzamento di terra sia ai lati che sullo sfondo. Ma che dire allora del “paesaggio” che pure vediamo? Le case, il cielo con i cirri, gli alberi, le siepi? Miró gioca con noi: ci propone sì dei “paesaggi”, ma noi non abbiamo ragione di crederli davvero esistenti. E se si trattasse di paesaggi dipinti, simili a quelli che i fotografi dell’epoca tengono in studio per “simulare” sfondi esotici o naturalistici nei ritratti individuali, familiari o di gruppo? Proprio questo è il caso. Anche il cielo, se guardiamo bene, “vira” in corrispondenza del soffitto, e segue i profili dello studio. È dunque un cielo finzionale, una tela raffigurante il cielo, non il cielo stesso. Un dipinto nel dipinto. Così come dipinti nel dipinto sono le case, la vegetazione laterale e verosimilmente persino l’uccello (una gazza?) mostrata in primo piano sulla destra.

Con lo Studio rosso (1911, Museum of Modern Art, New York) Matisse aveva cantato la gioia dell’isolamento d’artista, trasformando in Eden l’atelier. Miró si pone in scia a Matisse, ma indulgendo a un istrionico illusionismo. Per di più l’intreccio tra “interno” ed “esterno” è certo cubista, ma non è cubista l’accuratezza con cui Miró dipinge i dettagli e situa l’immagine in un preciso contesto storico, geografico e culturale. Con L’orto e l’asino ci troviamo all’interno dell’atelier dell’artista. Questo atelier, ci dice Miró, non è ovunque e in nessun luogo. È in Catalogna, più precisamente nella campagna catalana. Qui, su suolo benevolo e fecondo, l’immaginazione dell’artista nasce e si dispiega come gli ortaggi dell’orto: in tutta serenità e pienezza di tempo.


Autoritratto (1919); Parigi, Musée Picasso. Miró si autoritrae qui per metà come contadino, per metà come Dio Padre, il volto posto nel centro esatto delle sfere celesti. Conferisce al suo busto apparenze rocciose e proporzioni monumentali.

Quanto vediamo è interamente frutto dell’immaginazione che reinventa e consacra: l’asino, la terra bruna, le verdure dell’orto, le case del paese. Niente esiste “davvero”, tutto è invece cantato dall’artista-poeta nel silenzio del suo studio e trasposto su piani simbolici. Nel suo studio, Miró è quasi come Dio: crea un mondo a sua immagine e somiglianza. Ed è infatti come Cristo Pantocratore, Sovrano, Giudice e Reggitore del mondo che si rappresenta in un Autoritratto di poco posteriore: la fissità pressoché minerale del corpo, la forma del disco cosmologico allusivamente impressa sul volto e parzialmente ripetuta sul collo, la rigidità sovrumana della postura, lo sguardo concentrato e inflessibile. Osserviamo il cielo dell’Orto e l'asino: ha tratti prismatici che non sono semplicemente “naturali”. Presenta discontinuità e fratture a tutta prima incomprensibili, mutamenti di tono e colore e una singolare esecuzione “a fascia” in alcune parti. Cercheremmo invano di spiegare la circostanza se non potessimo ricorrere a un’analogia fantastica, tratta dalla storia dell’arte: come non riconoscere, nelle “costole” che Miró traccia nell’azzurro, l’eco figurativa delle più antiche figure di Cristo, del costato in particolar modo, disegnato e quasi ridotto a ideogramma dai più antichi pittori e miniatori; e quasi un modo per descrivere il cielo sopra Montroig in termini esclamativi, come manifestazione e presenza di un Cristo equinoziale?

Il paragone tra agrimensura e cubismo trae il proprio senso ultimo dal recupero di una “radice” fantastica e religiosa - in Italia diremmo “metafisica” - profondamente correlata a un luogo e a una comunità. La molteplicità di punti di vista assicurata dai nuovi principi compositivi dev’essere sviluppata, per Miró, su piani immaginativi che trattino delle cose ultime. Non ci si deve limitare al ritratto o alla natura morta, ma impegnare invece nel poema figurativo, nel canto, nella più audace invenzione “lirica”. Al tempo stesso, ai suoi occhi, il cubismo parigino è colpevole - non tanto in Picasso e Braque, quanto negli imitatori - di affettazione e inutile preziosità. Questa deriva del cubismo in termini di “chic internazionale” dev’essere per lui contrastata. L’asino dunque, refrattario, umile e tenace: non serve proprio a questo? Se davvero L’orto e l’asino è un paesaggio in interni, una visione (o “visitazione”) occorsa all’artista in studio e da lui resa letterale nel modo che abbiamo ricostruito, l’asino non è forse l’alter ego del pittore, pronto a rivelarne la più profonda e riposta attitudine interiore?

Per avere una riprova del carattere “costruito” del paesaggio di Miró non abbiamo che da confrontarlo con una veduta provenzale di Moïse Kisling, dipinta alla stessa data. Anche Kisling, seguace di Derain e amico di pittori figurativi come Modigliani e Pascin, si fa qui interprete dell’esigenza di ricomposizione dell’immagine - a distanza di pochi anni si sarebbe detto “ritorno all’ordine”. Versa dunque il suo tributo, oltreché al Doganiere Rousseau, ai primitivi italiani e restituisce ai fusti degli alberi quella saldezza che avevano perduto con gli impressionisti.


Natura morta con coniglio (1920-1921).

D’altra parte le chiome, l’orto di lattughe, i colli a distanza sono raffigurati con l’amabile precisione di un pittore di predelle e come enumerati da un artista che intende dare prova di una ritrovata “ingenuità” antisperimentale. Tuttavia il quadro risponde alle convenzioni del genere “paesaggio” e si presenta indiscutibilmente come “esterno”.

La pennellata è soffice e sfumata, conforme alle consuetudini del “plein air”. Niente autorizza a supporre che Kisling fantastichi in studio e stia dipingendo una visione anziché un motivo colto dal vero. A differenza dell’Orto e l’asino di Miró, il Paesaggio provenzale rende pur sempre omaggio alla grazia della pittura a olio, che l’artista si guarda bene dal tradire, e alla soavità atmosferica a essa associata. Miró opta invece per un partito preso “calligrafico” che non si lascia spiegare con riferimento alla tradizione francese recente, possiede anzi precise implicazioni polemiche. Rinvia alla miniatura e all’intreccio tra arte e culto quale si realizza nella quotidianità dell’amanuense.
Tra 1919 e 1921 Miró realizza una serie di nature morte allegoriche: chiarisce i termini della propria attività allestendo enigmi figurativi e perfezionando emblemi. Nella Natura morta con coniglio (1920-1921), dipinta a cavallo dei suoi primi soggiorni a Parigi, Miró sfida il modernismo della capitale in nome di posizioni sagacemente neotradizionalistiche e di una “radice” presentata come sacra. La natura morta ha caratteri genericamente “metafisici”, e presuppone una conoscenza almeno indiretta delle composizioni di De Chirico e Carrà.

La narrazione localistica si sposta però adesso su piani emblematici. Il riferimento alla campagna è sempre presente, assicurato dagli animali da cortile e dalle verdure dell’orto. Gli uni e le altre acquistano sensi simbolici più immediati, tanto da richiamare il mistero cristiano dell’eucarestia.

A cosa, se non a Cristo, rinviano il pesce deposto nel piatto, il gallo del tradimento di Pietro, il tralcio di vite? Ecco che la pianta simbolicamente incisa alla base del tavolo, e replicata ovunque, diviene citazione dell’“albero di vita” del Paradiso terrestre, e rimanda al mistero della conoscenza del Bene e del Male, dell’eternità o della vita oltre la morte. Miró non è un teologo, ma un artista: confida qui la sua convinzione che l’arte equivalga a qualcosa come una redenzione sia per l’artista, che ne trae una costante possibilità di rigenerazione, sia per gli oggetti, che riusciamo a vedere in modo nuovo. Proprio gli oggetti-emblema disseminati nella composizione assicurano a questa la sua spiccata originalità. In assenza di simbolismo e mito, suggerisce Miró, una semplice natura morta “cubista” si riduce a quell’inerte diagramma lineare o al ripetitivo contrasto di toni che intarsia il piano del tavolo e attraversa l’intera composizione.

La fattoria (1921-1922) è il documento più ambizioso, da parte di Miró, della trasposizione del genere “paesaggio regionale” sul piano della pittura di religione. Al tempo stesso è un congedo dallo stile “particolaristico” del primo periodo catalano: dipinto il quadro, l’artista si lascerà alle spalle la minuta ricostruzione di borghi e campagne catalane per adottare modi più astratti e sovraregionali o “universali” (come suggerisce Eluard in Donner à voir, 1939).


Natura morta con guanto e giornale (1921); New York, MoMA - Museum of Modern Art.

A un primo sguardo La fattoria ci sembra del tutto simile a immagini che abbiamo già commentato. In parte è proprio così. Sullo sfondo di un cielo di tarda estate colto al momento del crepuscolo, quando l’azzurro è più intenso, un grande albero sorge in mezzo all’aia, forse un carrubo. La sua scorza è dura, oscillante tra i toni del grigio e del bruno: Miró dedica grande attenzione a raffigurarla, quasi intendesse segnalare l’importanza per così dire totemica della pianta, originaria del bacino mediterraneo e tradizionalmente apprezzata per la vasta ombra che offre. Nei pressi del carrubo gli animali da cortile si sono ormai ritirati nel loro riparo: vediamo capre, conigli, piccioni, galli e galline. Ciascuno di essi è disegnato con grande precisione e persino con tenerezza, in modi che ricordano a distanza i “souvenirs” di campagne russe dipinti da Chagall. La tecnica di Miró è tuttavia più disegnativa e calligrafica. Il disegno traccia contorni netti e separa le singole figure come lettere di un alfabeto in parte misterioso. L’ombra accentua il prodigio di vita individuale sotteso non solo agli animali e alle piante, ma alle singole cose: secchi, annaffiatoi, sassi, steccati. Una donna lava i panni, un cavallo è agganciato alla pompa del pozzo, un secondo cavallo, visibile solo per la parte posteriore, è già nella stalla, al piano terreno della grande casa contadina. Il bimbo ha apparenze singolari e una postura ieratica: sembra una divinità dei tarocchi, o forse il Cristo delle più antiche scene di Battesimo, accompagnato dalla colomba dello Spirito santo. Ma il tratto ieratico dell’immagine non si esaurisce nelle molteplici allusioni a episodi biblici, né nel disegno immobile e solenne di colombe o galli, presentati come messaggeri di una qualche rivelazione celeste.

Di fatto Miró concepisce La fattoria come una pagina miniata. Ogni elemento è allegorico, e rimanda (o conferma, o ricapitola) una storia non semplicemente profana. Così il pane in primo piano, smisurato, e l’acqua del pollaio, meravigliosamente illuminata dal plenilunio. Così la chiocciola e la colonna in rovina, citazione manifesta, quest’ultima, di tante Natività della tradizione. Così la vasca dell’acqua e il lavatoio attorno a cui fatica la giovane madre: se osserviamo con attenzione “macchie” e “gocciolamenti” riconosciamo facilmente la forma di spermatozoi e perfino le apparenze dello sperma, quasi Miró avesse desiderato trasformare una semplice scena domestica in un’Annunciazione pagano-cristiana.

Il pittore moltiplica le cornici attorno a questo o quel particolare della Fattoria quasi a sottolineare l’aspetto rivelato (e antinaturalistico) dell’immagine. Ripete per ben due volte, al centro dell’aia prospiciente la casa e ancora nel pollaio, la forma della “A” maiuscola, quasi a rinviare, nei modi maestosi di un incipit di codice, alla descrizione del Cristo come “alpha” e “omega” della creazione. Traccia appunto un “omega” alla base del grande carrubo, trasformando in abissale geroglifico nero-inchiostro l’aiuola entro cui sorge la pianta. Dissemina infine di cavità circolari il carrubo come per reinventare il manto “pieno di occhi” degli animali dell’Apocalisse, un tema caro, questo, ai miniaturisti mozarabici. Possiamo pensare che tutto questo avvenga per caso? Miró pone in primo piano una testata di quotidiano, “L’intransigeant”. Sceglie di farlo non perché voglia stabilire connessioni tra il dipinto e il notiziario politico o rinviare a una circostanza di interesse pubblico. Per niente. Vuole invece dare risalto a un contrasto. L’evento sacro, suggerisce, accade oggi, proprio oggi, nell’“oggi” cui ogni quotidiano rimanda. Ma ha connotazioni paradossali. Ecco che l’arte, ai suoi occhi, svela un tempo - o un “calendario”, se si preferisce - che aderisce solo paradossalmente e in modo improprio al “tempo” (al calendario) comune. In realtà l’arte trascende il tempo delle nostre occupazioni quotidiane, fuoriesce da esso, annienta la cronaca. 


Il bell’uccello rivela l’ignoto a una coppia di innamorati (1941), dalla serie Costellazioni; New York, MoMA - Museum of Modern Art.

La lettera Alpha, la “Maiestas Domini” e i ritratti degli autori, Ms. Beatus di Girona (fine X secolo), f. 19 r; Girona, cattedrale.


E si installa in un tempo diverso, perlopiù inosservato e come “nascosto” nel tempo ordinario. L’arte è sempre una Natività: perché ci aiuta a vedere le cose in modo intatto e originario. Ogni volta che un poeta nomina il Mondo, o che un pittore lo dipinge, questo rinasce a se stesso, come creato ex novo. Appare rigenerato dalla trivialità e dal luogo comune.

È per questo stesso motivo che, nella Fattoria, Miró sviluppa l’equivalenza tra immagine e parola con una radicalità da lui sconosciuta sino a quel momento: non c’è differenza, ai suoi occhi, tra chi usa parole e chi invece linee o colori. Entrambi cospirano per un nuovo inizio.

Se l’artista prende esplicitamente a inserire parole e frasi nelle composizioni solo a una data leggermente successiva, come nel Cacciatore (1923-1924), è tuttavia lecito affermare che già nella Fattoria porta a maturazione una fondamentale propensione ermetica allo scambio tra visivo e verbale. La trasformazione dell’immagine in testo si viene definendo nella seconda parte del decennio anche in rapporto a Ernst, Masson e soprattutto Klee, di cui Miró si rende familiare l’opera a partire dal 1924. È una trasformazione che ha implicazioni assai ampie su piani tecnici e stilistici, e che alimenta un’inquietudine crescente per i limiti della pittura. L’interesse “ideografico” non viene meno con la fine del decennio, costituisce anzi un tratto tra i più caratterizzanti dell’attività dell’artista, ed evolve inventivamente almeno sino alle tarde Costellazioni.

MIRÓ
MIRÓ
Michele Dantini
La presente pubblicazione è dedicata a Joan Miró (1893-1983). In sommario: Tra eclettismo e azzardo sperimentale; Con la bandiera catalana. Miró figurativo e neotradizionalista; A Parigi. Corteggiando la ''tabula rasa''; Sguardi, dardi, bersagli; Miró contro la ''buona pittura''; Autoritratti di gruppo. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.