La pagian nera


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l’esIstente?

L’entrata in vigore dell’Art Bonus, che consente ai privati la defiscalizzazione per investimenti in arte e cultura, è sufficiente per contribuire a salvare il nostro patrimonio? Fino a oggi ne hanno beneficiato solo le opere più note. E i “piccoli” gioielli? Sono destinati a rimanere orfani?

di Fabio Isman

Il ministro Dario Franceschini è orgoglioso di aver riportato il bilancio del suo dicastero, dopo quindici anni, sopra i due miliardi di euro: dal 2000 (2.136 milioni durante il governo di Giuliano Amato) registrava un calo incessante e progressivo; nel 2016 ha ottenuto 500 milioni in più dell’anno precedente. È entrata in vigore anche una norma che ripara antichissimi torti: l’Art Bonus. Concede, a società e privati, di detrarre dalle tasse il 65 per cento di quanto speso per sostenere e restaurare i beni culturali; nel primo anno se ne sono giovati in settecentonovanta: con entrate, per lo Stato, superiori ai 33 milioni di euro. La norma “vendica” (in parte) remote inadempienze. Infatti, la prima defiscalizzazione in Italia è ormai degna dell’archeologia istituzionale: la legge 512 del 1982 (erano ministri Vincenzo Scotti, Beni culturali, e Rino Formica, Finanze) gode del primato assoluto di essere rimasta sempre priva di un regolamento che ne permettesse l’attuazione. Prevedeva anche la possibilità di pagare le tasse con opere d’arte, come è accaduto con la norma della “dation” con cui la Francia ha costituito, per esempio, il Musée Picasso di Parigi. Da noi, per pastoie burocratiche e per carenza di norme applicative, è successo raramente, e con estrema fatica. Progressivamente la legge è stata poi sempre più svuotata, con la riduzione delle quote di detrazione, fino a scomparire con il Codice Urbani del 2004. Ora è risorta, almeno parzialmente, con l’Art Bonus.


Il Colosseo, sottoposto a un progetto di restauro finanziato dal gruppo Tod’s di Diego Della Valle.

I capolavori trovano soccorritori nella grande industria: quale migliore pubblicità?


Il problema, tuttavia, è, a un tempo, semplice e drammatico: il patrimonio è tanto esteso e bisognoso di interventi (l’antica virtù della manutenzione si è perduta ormai da decenni), che lo Stato, da solo, non ce la fa. E neppure gli enti locali. Dopo di loro, il terzo finanziatore dei beni culturali italiani è rappresentato dalle banche; secondo l’Abi, l’associazione che le riunisce, in un anno i loro interventi nel settore sono stati 2.455, per, più o meno, 300 milioni di euro. Ma se circa cinquecento iniziative hanno riguardato la sponsorizzazione di mostre, appena quarantacinque hanno interessato i restauri (il regesto è di Costantino D’Orazio): ancora troppo poco. Ed è evidente che i più o meno grandi e pregiati tesori d’arte e di cultura trovano chi li soccorra quasi soltanto se sono importanti e visibili; cioè ammesso che rendano, in immagine, parte dei finanziamenti che assorbono. Diego Della Valle e la Tod’s, come Fendi e Bulgari, per citare qualche esempio, si sono lodevolmente impegnati, con cifre ragguardevoli; ma a parte che, almeno nella grande industria, non hanno avuto troppi emuli, gli interventi di restauro da loro finanziati riguardano capolavori tra i più famosi al mondo: il Colosseo, la Fontana di Trevi, la scalinata di Trinità dei Monti, con 25, 2,2 e 1,5 milioni di euro. Logicamente, non sono mai mancati finanziamenti per le tre fontane di piazza Navona: e in che modo ci si potrebbe fare maggior pubblicità?


Il complesso di Sant’Orsola nel centro storico di Firenze, in attesa da trent’anni di un intervento di ristrutturazione.

E il resto? Il “patrimonio diffuso”, di cui qualcosa è presente in moltissimi dei Comuni italiani, e che costituisce la più autentica ricchezza della Penisola? È raro che qualcuno ci pensi e provveda. La Sovraintendenza capitolina (e siamo a Roma: nella capitale, la medesima città del Colosseo e della Fontana di Trevi) aveva chiesto 4 milioni di euro, in due anni, per soccorrere i siti transennati e chiusi a causa di crolli negli ultimi anni. Lo stanziamento è stato di zero euro. E chi volete che si mobiliti per un’area archeologica magari secondaria (ma nulla mai, nel settore, lo è), per giunta in periferia? Il russo Alisher Usmanov, presidente della Federazione internazionale di scherma, è intervenuto con mezzo milione di euro per la Fontana dei Dioscuri, di fronte al Quirinale, e altri ne verserà per restaurare la sala degli Orazi e Curiazi ai Musei capitolini: ma siamo pur sempre tra i beni più “pregiati” e visibili. Ancora a Roma, negli ultimi tempi della giunta Alemanno, è stato varato il restauro di altre sei fontane monumentali, famose, e nel centro città: le piazze del Popolo, del Tritone, di Spagna, Trilussa, e via elencando. La gara concedeva per otto mesi - quando i lavori in realtà richiedevano un tempo certamente inferiore - gli spazi per la pubblicità tutt’attorno al cantiere; abbonava metà della tassa prevista e tutta quella per l’occupazione del suolo pubblico. Alla contesa non partecipavano i restauratori, ma i concessionari di pubblicità. E hanno vinto, a quanto pare, anche aziende nate da non troppo tempo. Un restauro, oppure un buon affare, anzi ottimo? 

Il conto delle inadempienze, dei bisogni e dei ritardi non finirebbe mai. Se a Pompei è stata riaperta un’area di sessantamila metri quadrati, con cinque “domus” che non si potevano vedere e grandi statue di Igor Mitoraj sul percorso, per quanto non va basta qualche esemplificazione. Ancora a Roma il museo di villa Pamphilj è chiuso da sedici anni, cioè da quando fu inaugurato. È costato 4 miliardi e mezzo, allora di lire (oltre due milioni di euro); è stato aperto ma, a parte poche mostre, subito chiuso; lo frequentano tre addetti alla pulizia e un custode, che vive accanto. A Torino i Giardini reali hanno riaperto, ma dopo diciannove anni che erano sbarrati. A Rieti aspetta da anni un intervento la chiesa di San Francesco, la seconda in ordine di tempo dedicata al suo culto dopo quella di Assisi, anche con un rarissimo affresco (da restaurare) del “poverello” ancora senza le stimmate. A Firenze dal 1985 è in agonia il complesso di Sant’Orsola in pieno centro: monastero dal 1309 alle soppressioni napoleoniche, fino al 1940 è un tabacchificio; quindi, ricovero per sfollati, aule universitarie e caserma della Guardia di finanza; nel 1985, i restauri iniziati dalle Fiamme gialle lo snaturano: profusione immensa di cemento; passa al demanio, poi alla Provincia; tre bandi per coinvolgere i privati sono falliti dal 2013 al 2015 (mica è famoso come il Colosseo, no?); intanto, c’è chi vi cerca le ossa di Lisa Gherardini, supposta Monna Lisa: per questo, e non per il restauro, i finanziamenti si trovano. E si potrebbe continuare assai a lungo. Per esempio, con Sa Tanca ‘e sa Mura di Monteleone Roccadoria, a trenta chilometri da Alghero: unico insediamento rurale punico nel Nord della Sardegna, e forse in tutta l’isola, che va da metà del IV secolo al I a.C. «Ci sono centinaia di buste di materiali di grande rilievo ancora inediti, da restaurare», spiega l’archeologo Marcello Madau. Attualmente il sito è sommerso dal bacino artificiale dell’alto Temo; ma pochi anni fa d’estate, in un momento di secca, nei pressi del paese che si sta spopolando si è svolto un importante scavo dell’insediamento medievale. Chi mai potrebbe prendersi a cuore un luogo, pur delizioso, del genere? 

Ecco perché, in un paese troppo spesso infestato dalle tangenti, ancora in epoca recente, vogliamo proporne una, almeno stavolta a fin di bene. Negli ultimi tempi il ministro Franceschini ha firmato decine di decreti: ora si impegni a vararne uno perché, magari per un paio d’anni, il 10 per cento di qualsiasi sponsorizzazione confluisca in un fondo, gestito in modo trasparente dal Ministero, con cui eseguire i restauri di quei beni destinati a rimanere orfani degli aiuti privati, o delle aziende, che possano soccorrerli. Insomma, di quelli meno attraenti sotto il profilo del ritorno d’immagine. O perché si provveda ai reperti archeologici nei magazzini - frutto, spesso non catalogato, degli scavi -, preziosi materiali il cui accudimento, una volta chiuso il cantiere, è demandato alle soprintendenze (con sempre meno fondi). 

Le due riforme Franceschini privilegiano i musei e la valorizzazione rispetto alla tutela, che versa in condizioni sempre più difficili. Per essa, non esistono sponsor possibili: perché la salvaguardia forse può colpire qualche interesse, ma certo non richiama chi la finanzia. Per i grossi interventi e per quelli che promettono visibilità i finanziatori si possono trovare: una quota del loro apporto, e di quello per le tantissime mostre in programma, non potrebbe contribuire a mantenere e salvare anche l’Italia “minore” (ma spesso tale non è), che costituisce la vera ricchezza della Penisola?


La chiesa di San Francesco a Rieti aspetta da anni un intervento.

La foto di apertura dell’articolo è tratta dal volume di Giuseppe Anfuso, Roma del Nolli dal cielo, Roma 2014.

ART E DOSSIER N. 333
ART E DOSSIER N. 333
GIUGNO 2016
In questo numero: DARE FORMA ALL'EMOZIONE La scultura in terracotta di Niccolò dell'Arca, Mazzoni e Begarelli. CAVALLI E ALTRI ANIMALI Fare arte con i batteri; Il circo di Calder; Sculture equestri tra Quattro e Cinquecento. IN MOSTRA Fabre a Firenze, Picasso scultore a Parigi, Vetri e architetti a Venezia.Direttore: Philippe Daverio