E il resto? Il “patrimonio diffuso”, di cui qualcosa è presente in moltissimi dei Comuni italiani, e che costituisce la più autentica ricchezza della Penisola? È raro che qualcuno ci pensi e provveda. La Sovraintendenza capitolina (e siamo a Roma: nella capitale, la medesima città del Colosseo e della Fontana di Trevi) aveva chiesto 4 milioni di euro, in due anni, per soccorrere i siti transennati e chiusi a causa di crolli negli ultimi anni. Lo stanziamento è stato di zero euro. E chi volete che si mobiliti per un’area archeologica magari secondaria (ma nulla mai, nel settore, lo è), per giunta in periferia? Il russo Alisher Usmanov, presidente della Federazione internazionale di scherma, è intervenuto con mezzo milione di euro per la Fontana dei Dioscuri, di fronte al Quirinale, e altri ne verserà per restaurare la sala degli Orazi e Curiazi ai Musei capitolini: ma siamo pur sempre tra i beni più “pregiati” e visibili. Ancora a Roma, negli ultimi tempi della giunta Alemanno, è stato varato il restauro di altre sei fontane monumentali, famose, e nel centro città: le piazze del Popolo, del Tritone, di Spagna, Trilussa, e via elencando. La gara concedeva per otto mesi - quando i lavori in realtà richiedevano un tempo certamente inferiore - gli spazi per la pubblicità tutt’attorno al cantiere; abbonava metà della tassa prevista e tutta quella per l’occupazione del suolo pubblico. Alla contesa non partecipavano i restauratori, ma i concessionari di pubblicità. E hanno vinto, a quanto pare, anche aziende nate da non troppo tempo. Un restauro, oppure un buon affare, anzi ottimo?
Il conto delle inadempienze, dei bisogni e dei ritardi non finirebbe mai. Se a Pompei è stata riaperta un’area di sessantamila metri quadrati, con cinque “domus” che non si potevano vedere e grandi statue di Igor Mitoraj sul percorso, per quanto non va basta qualche esemplificazione. Ancora a Roma il museo di villa Pamphilj è chiuso da sedici anni, cioè da quando fu inaugurato. È costato 4 miliardi e mezzo, allora di lire (oltre due milioni di euro); è stato aperto ma, a parte poche mostre, subito chiuso; lo frequentano tre addetti alla pulizia e un custode, che vive accanto. A Torino i Giardini reali hanno riaperto, ma dopo diciannove anni che erano sbarrati. A Rieti aspetta da anni un intervento la chiesa di San Francesco, la seconda in ordine di tempo dedicata al suo culto dopo quella di Assisi, anche con un rarissimo affresco (da restaurare) del “poverello” ancora senza le stimmate. A Firenze dal 1985 è in agonia il complesso di Sant’Orsola in pieno centro: monastero dal 1309 alle soppressioni napoleoniche, fino al 1940 è un tabacchificio; quindi, ricovero per sfollati, aule universitarie e caserma della Guardia di finanza; nel 1985, i restauri iniziati dalle Fiamme gialle lo snaturano: profusione immensa di cemento; passa al demanio, poi alla Provincia; tre bandi per coinvolgere i privati sono falliti dal 2013 al 2015 (mica è famoso come il Colosseo, no?); intanto, c’è chi vi cerca le ossa di Lisa Gherardini, supposta Monna Lisa: per questo, e non per il restauro, i finanziamenti si trovano. E si potrebbe continuare assai a lungo. Per esempio, con Sa Tanca ‘e sa Mura di Monteleone Roccadoria, a trenta chilometri da Alghero: unico insediamento rurale punico nel Nord della Sardegna, e forse in tutta l’isola, che va da metà del IV secolo al I a.C. «Ci sono centinaia di buste di materiali di grande rilievo ancora inediti, da restaurare», spiega l’archeologo Marcello Madau. Attualmente il sito è sommerso dal bacino artificiale dell’alto Temo; ma pochi anni fa d’estate, in un momento di secca, nei pressi del paese che si sta spopolando si è svolto un importante scavo dell’insediamento medievale. Chi mai potrebbe prendersi a cuore un luogo, pur delizioso, del genere?
Ecco perché, in un paese troppo spesso infestato dalle tangenti, ancora in epoca recente, vogliamo proporne una, almeno stavolta a fin di bene. Negli ultimi tempi il ministro Franceschini ha firmato decine di decreti: ora si impegni a vararne uno perché, magari per un paio d’anni, il 10 per cento di qualsiasi sponsorizzazione confluisca in un fondo, gestito in modo trasparente dal Ministero, con cui eseguire i restauri di quei beni destinati a rimanere orfani degli aiuti privati, o delle aziende, che possano soccorrerli. Insomma, di quelli meno attraenti sotto il profilo del ritorno d’immagine. O perché si provveda ai reperti archeologici nei magazzini - frutto, spesso non catalogato, degli scavi -, preziosi materiali il cui accudimento, una volta chiuso il cantiere, è demandato alle soprintendenze (con sempre meno fondi).
Le due riforme Franceschini privilegiano i musei e la valorizzazione rispetto alla tutela, che versa in condizioni sempre più difficili. Per essa, non esistono sponsor possibili: perché la salvaguardia forse può colpire qualche interesse, ma certo non richiama chi la finanzia. Per i grossi interventi e per quelli che promettono visibilità i finanziatori si possono trovare: una quota del loro apporto, e di quello per le tantissime mostre in programma, non potrebbe contribuire a mantenere e salvare anche l’Italia “minore” (ma spesso tale non è), che costituisce la vera ricchezza della Penisola?