Ed «Ecco Ninfa…», scriveva lo storico-viaggiatore Ferdinand Gregorovius sul finire dell’Ottocento, «ecco le favolose rovine di una città che con le sue mura, torri, chiese, conventi e abitati giace mezzo sommersa nella palude, sepolta sotto l’edera foltissima. In verità questa località è più graziosa della stessa Pompei, le cui case s’innalzano rigide come mummie tratte fuori dalle ceneri vulcaniche. Sopra Ninfa s’agita invece un olezzante mare di fiori, ogni parete, ogni muro, ogni chiesa e ogni casa sono avvolti in un velo d’edera e su tutte le rovine sventolano le bandiere purpuree del dio trionfante della primavera».
A dispetto del nome, Ninfa però non è un ninfeo, bensì un fantastico esemplare di giardino con ruderi sorto sulle rovine di un’antica città nel territorio di Cisterna di Latina, progettato dalla famiglia Caetani attraverso la valorizzazione della flora ruderale e la simbiosi controllata tra natura e bene artistico.
Alexander Fleming è noto a tutti per la scoperta della penicillina. Ma forse ben pochi sanno che fu il primo scienziato nella storia moderna a utilizzare consapevolmente microrganismi per creare opere d’arte.
Già nei primi del Novecento Fleming si dilettava a dipingere quadri utilizzando batteri vivi variamente colorati, producendo disegni su tela semplici ma dal carattere fortemente innovativo. All’epoca questo aspetto non venne molto considerato dalla regina Mary, la quale, in visita al Saint Mary’s Hospital a Londra, dove Fleming lavorava, non degnò di alcuna considerazione la mostra di “arte batterica” allestita per l’occasione dal futuro premio Nobel.
Bisognerà aspettare gli anni Ottanta del XX secolo, dopo le grandi scoperte scientifiche in campo biomolecolare e genetico, per vedere nuovamente all’orizzonte quell’alleanza tra arte e scienza profetizzata nel 1863 da Pasteur all’inaugurazione del primo laboratorio di diagnostica nell’arte all’Ecole des Beaux-Arts di Parigi. Dai laboratori di tutto il mondo si riversarono nei media immagini e rappresentazioni sempre più dettagliate e spettacolari della biologia dei viventi. Corse elettroforetiche, proteine fluorescenti, cellule variopinte divennero vere e proprie icone nell’immaginario collettivo contemporaneo e il principale medium di una corrente di artisti sempre più simili a scienziati e di scienziati sempre più simili ad artisti.
Le colture di muffe e batteri con le loro forme e colori sgargianti sono state tra le più sfruttate per la creazione di opere astratte o figurative.
Il microbiologo Zachary Copfer riesce a trasformare le colture batteriche in una sorta di materiale fotosensibile, simulando un vero e proprio processo fotografico. Il suo metodo consiste nel proiettare un fascio di luce germicida su un film cellulare costituito dal purpureo batterio Serratia, interponendo un’immagine positiva reticolata trasparente per un periodo sufficiente a sterilizzare le cellule colpite dalla radiazione. Laddove la luce non è bloccata dalle ombre dell’immagine, si formano zone sterilizzate, i chiari dell’immagine.
Le proprietà bioluminescenti di alcuni microrganismi sono state invece impiegate da altri scienziati per uscire dai laboratori e occupare gli spazi dell’arte. è il caso delle installazioni videoperformative di Annalisa Balloi ed Eleonora Gioventù, la prima biologa molecolare e la seconda restauratrice, create sfruttando le proprietà luminose del batterio Pseudomonas fluorescens.
La Bioarte è stata sviluppata parallelamente anche da artisti non scienziati che hanno utilizzato il vivente per opere il cui significato concettuale trascende la dimensione estetica e tecnologica, speculando su tematiche quali la corruzione della materia, la manipolazione della natura e altri aspetti etici legati alla biologia. La collaborazione tra il fotografo tedesco Edgar Lissel e la biologa Patrizia Albertano, purtroppo recentemente scomparsa, è un esempio perfetto di Bioarte scaturita dalla sinergia tra arte concettuale e scienza.