Le settanta e più opere presentate a Firenze vengono a comporre un unicum allegorico e narrativo incentrato sulla figura del cavaliere, uno dei temi cardine dell’intera produzione dell’artista: «Io sono il cavaliere della disperazione […] Io sono un’anima errante con una voce medievale che grida nel deserto del Rinascimento e aspetta il sale della nostra acqua corporea».
Fabre è il cavaliere solare - le sue armature e i suoi carapaci scintillano sui bastioni del forte come in piazza della Signoria - che lotta tragicamente contro le forze che si oppongono alla bellezza e alla spiritualità, e che vuole risorgere trasfigurato e trasformato in quell’epico scontro. Come in moltissimi lavori teatrali, nelle performance e nel lavoro scultoreo, anche nel film Lancelot (2004) Jan Fabre mette al centro il corpo dell’artista, quindi la sua eroica missione, che è il dramma della bellezza al di là del bene e del male, e la vulnerabilità dell’essere umano spinto a superare limiti fisici, psicologici, estetici e morali.
Il tema della metamorfosi, del cambiamento, ricorre in moltissime opere di Fabre, e in molti casi prende l’aspetto di un animale, di un’azione corporea che può anche essere un duello, una battaglia, un rito, una forma di iniziazione.
Al fine di liberare le infinite potenzialità dell’individuo, Fabre indaga, in questo modo, la natura umana nella sua complessità di essere animale razionale desideroso di bellezza e di infinito. Esperienza fondativa sia dell’arte sia del teatro, quindi tragica perché si scontra necessariamente tanto con l’esperienza di eros che con quella di thanatos, che sono anche esperienza del vuoto e del nulla. In tal senso, Fabre si avvale di un realismo eccessivo, di un’immaginazione surreale, di una raffigurazione espressiva.
Facendo ricorso a una personale arte della memoria, Jan Fabre ripopola la nostra cultura visiva, letteraria, di allegorie, di un nuovo e potente immaginario che raggiunge il suo obiettivo catartico provocando nello spettatore un’esperienza dionisiaca. Da scultore, gestisce lo spazio espositivo come fosse un palcoscenico sul cui piano rialzato ritualizzare combattimenti, sacrifici, metamorfosi, sublimazioni. In tal senso, forte Belvedere è la messa in scena di un arroccamento in difesa della bellezza e dell’utopia, dove anche restano sul campo i segni visibili di uno scontro armato. Altrettanto si può dire di piazza della Signoria, dove come un cavaliere donchisciottesco il calco in bronzo dell’artista cavalca un’enorme tartaruga, simbolo cosmologico e lunare, con il suo carapace a cupola, col quale l’animale protegge un corpo vulnerabile come quello degli scarabei che popolano i bastioni del forte.
La tartaruga - l’unico animale presente sulla terraferma da circa 250 milioni di anni - appare in molti miti della creazione. Con essa si intende rappresentare la stabilità della terra messa in contatto con il potere del cielo. La grande scultura in bronzo lucidato a specchio, intitolata Cercando Utopia, vuole parlare a tutti i popoli del mondo dialogando con le più diverse tradizioni simboliche, secondo una vocazione sincretica che anima la ricerca artistica di Fabre, grande sperimentatore di simboli e miti, di allegorie e leggende.
Personaggio dell’utopia è pure L’uomo che misura le nuvole, collocato sull’arengario di Palazzo vecchio, tra i giganti marmorei del David e dell’Ercole, a pochi metri dalla Giuditta e dal Perseo. Nella lotta con il male quei giganti di marmo e di bronzo incarnavano il giusto, l’eroe, quale strumento di bene. La bellezza si caricava di una funzione esorcistica con finalità taumaturgiche. In questo senso le opere di Fabre rimettono in funzione la stessa teatralizzazione dei simboli, dei miti e delle allegorie in favore del potere, e riattivano la natura scenica dello spazio monumentale della piazza. Salvo che in questo caso a essere celebrati sono la forza della fantasia, il potere salvifico della bellezza, l’esperienza vitale e inesauribile del sogno e dell’immaginazione.