Dopo le due riforme del ministro Franceschini, il dicastero del “Bel paese” è strutturato in questo modo: al vertice resta il segretario generale; le direzioni generali diventano dodici: si aggiungono quelle per i musei e l’educazione e ricerca; quelle per il turismo e la valorizzazione e promozione del patrimonio culturale, e quella per l’arte e architettura contemporanee e per le periferie urbane; sono raggruppate le “arti” e l’archeologia, non le biblioteche e gli archivi. In più, nascerà un Istituto nazionale di archeologia, e non si capisce bene se sarà nuovo di zecca, o verrà rivitalizzato quello, già esistente, di Archeologia e storia dell’arte. A livello periferico, scompaiono i direttori generali regionali, sostituiti da diciassette segretari regionali (dirigenti non generali: di rango inferiore, quasi “primi inter pares”); avranno funzioni di coordinamento e di stazioni appaltanti. Trenta tra musei e aree archeologiche godranno di autonomia, e gli altri dipenderanno da diciassette poli museali, cui spetterà anche di autorizzare i prestiti delle opere d’arte per le varie mostre.
Le soprintendenze saranno uniche: Belle arti, Paesaggio, Archeologia; al loro interno saranno suddivise in sezioni; si occuperanno essenzialmente della tutela, radicalmente separata dalla valorizzazione. Abolite le diciassette soprintendenze archeologiche, quelle unificate diverranno trentanove in tutta la penisola, già con qualche polemica: cancellata la sede di Taranto, sostituita da quelle di Brindisi, Lecce e Foggia e, alla fine del periodo post-terremoto fissata per il 2019, sarà trasferita a Chieti quella dell’Aquila; a Cagliari saranno collocati sia il segretario, sia il polo museale dell’isola. Gran parte degli studiosi, preoccupati, chiedono una sospensiva e un ripensamento.
Dopo la seconda riforma, i dirigenti e il personale saranno riattribuiti alle singole strutture: concorsi internazionali per i dieci musei divenuti anch’essi autonomi, nuovi “interpelli” e trasferimenti di funzionari, opzioni dei dipendenti per le sedi di lavoro. Restano gli istituti centrali esistenti (quelli per il Libro, gli Archivi, i Beni sonori, il Catalogo, la Demoantropologia, il Restauro librario), o dotati di autonomia: l’Archivio centrale dello Stato; le Biblioteche nazionali di Roma e Firenze; l’Istituto per la grafica; l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro e l’Opificio delle pietre dure di Firenze.
L’autonomia attribuita ai trenta istituti non sarà assoluta: anzi andrà “corretta”. Verosimilmente, per poter funzionare, alcuni di loro avranno bisogno di stanziamenti statali. Nel 2014, ultimo dato disponibile, il Museo archeologico di Reggio Calabria, per esempio, ha infatti incassato appena 375mila euro; poco più di 432mila il Bargello a Firenze; nemmeno 173mila il Museo etrusco di Villa Giulia a Roma; neppure 120mila, i palazzi Reale e Spinola a Genova; 53mila e rotti il Museo archeologico di Taranto: davvero pochini per permetterne un corretto funzionamento. Né si capisce da dove trarrà i proventi l’area archeologica dell’Appia antica, che non è nemmeno recintata.
Un merito indubbio dell’amministrazione Franceschini, però, è di avere un po’ rimpolpato il bilancio, che da vent’anni denunciava soltanto regressioni, fino a essere decurtato di un terzo nell’ultimo decennio: dopo otto anni, è infatti tornato sopra i due miliardi di euro, cui andranno aggiunti i benefici dell’Art Bonus, la defiscalizzazione per i privati che investano in arte e cultura. Anche nel campo del personale, qualche passo avanti c’è stato: dopo decenni senza assunzioni, ora negli organici entreranno cinquecento tecnici. Intanto, però, l’età media dei dipendenti è pericolosamente vicina ai sessant’anni: impossibile perfino la semplice trasmissione dei saperi, delle capacità, dei meccanismi, delle individualità, delle professionalità.
Quel che desta maggiori perplessità è l’unificazione dell’archeologia nelle soprintendenze: così, «ha perso lo sbocco verso i musei e le aree archeologiche, mentre questi hanno perso la base solida del territorio e della conoscenza archeologica»; inoltre, «si strappano alle soprintendenze già mutile i magazzini, i laboratori, gli archivi e le biblioteche, cioè tutto ciò che rappresenta ricerca e conoscenza; resterà soltanto una tutela intesa come mera emissione di pareri», lamenta Alessandro Usai, l’archeologo sardo che scava il luogo dei Giganti di Mont’e Prama, e anzi ne ha recuperati altri. E dire che, spiega l’Associazione Bianchi Bandinelli, le soprintendenze archeologiche sono spesso state «baluardo al consumo del suolo e alla speculazione edilizia, e la dirigenza unica non favorirà i dirigenti archeologi e storici dell’arte, in numero veramente esiguo rispetto alle altre categorie». Preconizzando un’Italia in mano agli architetti o, peggio ancora, agli amministrativi. Spadolini prevedeva invece un ministero tecnico-scientifico; qui, dice qualcuno, si corre il rischio di mortificare le professionalità, annegandole in maniera indistinta.
Giuliano Volpe, tra i sostenitori, se non tra i suggeritori, di entrambe le riforme, ammette che «i tempi sono stati troppo rapidi, senza una preventiva fase di confronto e approfondimento»; e i richiami ai «problemi logistici e organizzativi che riguardano inventari, archivi, materiali di scavo, laboratori, biblioteche, oltre al personale da distribuire tra le varie sedi, trasferimenti, scomposizioni e riaccorpamenti, sono del tutto fondati; ma sono problemi risolvibili se ci sarà la volontà di risolverli »; inoltre, «difficilmente si sarebbero ottenuti nuovi posti e risorse senza una profonda riforma del sistema».
Anche lui, però, ammette l’allarme introdotto dalla cosiddetta “legge Madia”, applicata per la prima volta alle soprintendenze (che sarebbero vincolate al silenzio-assenso, e si troverebbero anche, non si capisce bene in che modo, alle dipendenze dei prefetti), «che nemmeno io condivido e ho cercato di contrastare», ma difende la riforma: «È inaccettabile che il patrimonio archeologico possa essere distinto da quello architettonico, artistico e, soprattutto, da quello paesaggistico». I difensori delle novità che vengono introdotte, tuttavia, sono certamente in numero più esiguo di quanti vi si oppongono.
Ci sono stati (elenca Vittorio Emiliani) «sit-in nazionali degli archeologi sotto il ministero, un pesante documento della Consulta archeologica, uno allarmatissimo di bibliotecari e archivisti già allo stremo, una lettera totalmente negativa degli archeologi membri dei Lincei (Coarelli, Giuliano, La Regina, Matthiae, Torelli, Zevi, Pelagatti e altri) che reclamano la sospensione immediata dei decreti, una marcia di centinaia di appassionati sull’Appia antica, e altro ancora», tra cui la Cunsta, Consulta universitaria nazionale per la storia dell’arte, con una severissima presa di posizione. E non sono difese di tipo corporativo; la Cunsta afferma: «Può ritenersi condivisibile accentrare la tutela in un solo ufficio territoriale, purché esso disponga delle necessarie risorse», il che ora non è; quindi, ridistribuire competenze, mezzi e personale, «peraltro già ridotto all’osso», in nuove soprintendenze «dai confini spesso artificiosi, al fine di armonizzarsi a quelli delle prefetture cui saranno di fatto subordinate» vanifica ogni beneficio. È poi impossibile realizzare il tutto «a costo nullo, come vorrebbero le direttive ministeriali »; si rischia di penalizzare proprio la tutela; «storia dell’arte e archeologia sono indebolite proprio in quello che per secoli è stato il punto di forza della cultura italiana e il punto di riferimento per quella internazionale: il rapporto con il territorio, la tutela diffusa, il dialogo tra i musei e il paese che li alimenta».
Staremo a vedere; per ora, non è più possibile nemmeno richiedere delle fotografie, né (quasi) andare in missione; mentre, si è visto a Caserta, i sindacati protestano perché il nuovo dirigente della Reggia, che talora sta al lavoro fino a tarda sera, ne metterebbe a repentaglio la sicurezza; e un altro sindacato, a Firenze, perché il nuovo direttore degli Uffizi è invece troppo assente. Suvvia, perché non siamo un po’ più seri?