Studi e riscoperte. 1
Il Museo Settala

tra scienzae meraviglia

La raccolta messa insieme da Manfredo Settala nel XVII secolo a Milano rappresenta un prezioso momento di passaggio dalla Wunderkammer al museo come centro di ricerca.
Una collezione che ha avuto vicende particolarmente travagliate e che ora è visibile nel nuovo Mudec.

Antonio Aimi

Finalmente il Museo Settala, creato da Manfredo Settala (1600-1680) - figlio del “protofisico” dei Promessi sposi, il medico che si prodiga per debellare la peste -, è stato restituito alla città di Milano. È quindi possibile vedere quanto rimane di una delle più importanti collezioni eclettiche dell’Italia e dell’Europa del XVII secolo. È possibile farlo al Mudec, il nuovo Museo delle culture di Milano, che presenta la raccolta settaliana all’inizio del percorso espositivo della collezione permanente, a rappresentare e a documentare l’origine del collezionismo di reperti etnografici a Milano.


Cesare Fiori, tavola panoramica del museo (da Musaeum Septalianum, Milano 1664), frutto, probabilmente, di un compromesso tra realtà e idealizzazione.

Il merito della rinascita del Museo Settala è di Marina Pugliese (già direttrice del Mudec e del Museo del Novecento, ora in aspettativa per insegnare al California College of the Arts), che ha visto nell’attività di Manfredo la “cifra” del Mudec ed è riuscita a riunire quasi tutti i reperti esistenti. Purtroppo manca il mantello tupinamba, che è rimasto all’Ambrosiana; e, purtroppo, l’allestimento tradisce alquanto la raccolta settaliana, perché dà l’impressione più di una collezione naturalistica che eclettica. 

A dire il vero non è la prima volta che la raccolta settaliana torna alla luce, perché già nel 1906 Achille Ratti (allora “dottore” dell’Ambrosiana, quindi prefetto della stessa e in seguito papa col nome di Pio XI) era stato l’artefice della cosiddetta “risurrezione” del museo Settala. 

Verrebbe quindi da dire che la collezione, un po’ come l’araba fenice, riesce sempre a rinascere dalle sue ceneri, ma purtroppo non è così, perché a ogni “rinascita” appare sempre più magra, povera e malmessa. Anzi, si può sostenere che la storia del museo è un po’ il segno del difficile e travagliato rapporto di Milano e dell’Italia col collezionismo eclettico ed etnografico, un rapporto che nei secoli ha visto la sciatteria di una moltitudine di “addetti ai lavori” vanificare le intuizioni e gli sforzi di pochi. 

Le vicissitudini del Museo Settala cominciarono nel 1680, quando al suo fondatore furono tributate solenni onoranze funebri e i gesuiti di Brera organizzarono un rituale classico-paganeggiante in suo onore. In quella occasione furono esposte alcune delle opere della raccolta, che in parte furono danneggiate o disperse. Nel suo testamento Manfredo aveva deciso di lasciare la sua raccolta all’Ambrosiana, tuttavia un ramo della famiglia si oppose, anche perché Settala aveva cominciato la sua attività collezionistica partendo dalla raccolta paterna. Ne nacque una controversia che si concluse solo nel 1751, quando si acconsentì a che il museo passasse all’Ambrosiana. 

I reperti della raccolta, tuttavia, furono consegnati «nec sponte nec integre», come recita una lapide posta all’ingresso della biblioteca milanese. Ma la cosa più grave fu che, per mancanza di spazio, la collezione fu smembrata e collocata in sale diverse, in una situazione che la esponeva al degrado e alla perdita dei materiali più fragili e meno vistosi. Nel 1906 Achille Ratti, seguendo quel più generale taglio tardopositivistico che già aveva fatto scempio di altre collezioni eclettiche, riordinò quanto restava del museo, ma il rimedio fu peggiore del male, perché la collezione perse la sua identità dato che i reperti settaliani furono esposti insieme a quelli di altre collezioni, soprattutto etnografiche, che nel frattempo erano arrivate all’Ambrosiana. 

Poi vennero la guerra e il bombardamento del 15-16 agosto 1943: «Le fiamme di quella notte [...] poterono ingrossare per molte e molte ore e raggiungere anche il museo Settala e distruggere gran parte della suppellettile. Rimasero i muri nudi». Tuttavia, nonostante quanto sembra di capire da questo passo della guida dell’Ambrosiana del 1969, una parte significativa della raccolta si salvò. Si salvò dalle fiamme ma non dalle vendite che furono fatte di lì a poco. Uno dei pezzi più importanti, un automa ligneo “urlante”, dopo aver fatto il giro di diversi antiquari milanesi, fu acquistato dal Comune di Milano, mentre un orologio «del 1650 [...] forse appartenuto alla collezione del canonico Manfredo Settala», nell’inverno 1984-1985 fu segnalato da “Repubblica” tra le “occasioni” di un mercante milanese. 

Per fortuna, però, le ricerche che nello stesso periodo cominciarono a fare (oltre a chi scrive) Ezio Bassani, Vincenzo De Michele, Alessandro Morandotti e Carla Tavernari gettarono un fascio di luce sulla storia e sullo stato della raccolta. Su questo piano, la svolta decisiva fu rappresentata dalla mostra Musaeum Septalianum curata ancora da chi scrive, De Michele e Morandotti presso il Museo civico di storia naturale di Milano, allora diretto da Giovanni Pinna. In quell’occasione furono inventariati, classificati, puliti e in parte restaurati (compatibilmente coi magrissimi fondi esistenti) tutti gli oggetti sopravvissuti.


Daniele Crespi, Ritratto di Manfredo Settala (1629-1630), Milano, Pinacoteca ambrosiana.


Automa con faccia grottesca, noto come lo “Schiavo incatenato” (1630-1660).

Cesare Fiori, Tessuto in rafia dell’antico regno del Congo (1660 circa), codice 1.21 (Ms. Campori), f. 20r, Modena, Biblioteca estense;


Lo stesso tessuto oggi esposto nella sezione dedicata al Museo Settala nel Mudec di Milano.

Il Museo Settala era espressione del suo tempo, pertanto molto concedeva alla ricerca della meraviglia


Mentre queste vicende colpivano il Museo Settala nelle sue collezioni, nel corso del tempo un giudizio pesantemente negativo l’aveva colpito nella sua natura e nella sua identità. 

Nel 1908, infatti, Julius Schlosser nel suo fondamentale Raccolte d’arte e di meraviglie del tardo Rinascimento scrisse che il Museo Settala era «il più vicino ai caratteri delle collezioni tedesche», a loro volta assimilate ai «romanticismi da cucina delle streghe». 

E il giudizio fu ribadito ottant’anni dopo dagli studi di Giuseppe Olmi, che individuò nella “curiosità” il centro della raccolta settaliana. Olmi, inoltre, rincarò la dose considerando un elemento pesantemente negativo anche la posizione sociale di Manfredo e il fatto che egli, a differenza di Aldrovandi o di Calzolari, non fosse un medico o un farmacista (e in questo Olmi non si rese conto che mentre Aldrovandi o Calzolari erano collezionisti a tempo perso, Manfredo Settala era “direttore” del suo museo a tempo pieno). 

Giudizi del genere, naturalmente, erano in parte fondati. Ma solo ed esclusivamente su un’analisi superficiale dei cataloghi a stampa della raccolta. Schlosser e Olmi, infatti, ignoravano i sette volumi mezzani (ne sono stati individuati solo cinque) che costituivano il catalogo illustrato del museo e presentavano una classificazione dei reperti molto poco barocca. Soprattutto le note manoscritte dello stesso Manfredo a commento delle immagini degli oggetti mostrano come il collezionista lavorasse a studiare e a classificare i reperti e come prendesse nota delle sue attività tecnico-scientifiche. 

Il Museo Settala, disposto nell’avito palazzo di via Pantano, comprendeva oltre cinquemila oggetti, che spaziavano dall’arte e dall’artigianato (quadri, statue, produzioni di gusto barocco), all’archeologia, alle scienze naturali, all’etnografia, agli strumenti allora di maggiore interesse tecnologico (orologi, strumenti di precisione), ai reperti che erano il risultato della personale sperimentazione tecnico-scientifica di Manfredo (oggetti torniti, specchi ustori e altro). 

La collezione si era andata formando verso il 1630, dopo un viaggio nel Vicino Oriente, dal quale Manfredo era tornato con antichità egizie e parti di una mummia. 

Da allora, pur ricoprendo la carica di canonico di San Nazaro, o forse grazie a essa, poté dedicarsi totalmente alla sua attività di collezionista e alle sue ricerche. 

Il Museo Settala naturalmente era espressione del suo tempo, pertanto molti oggetti e gli stessi cataloghi a stampa molto concedevano alla ricerca della meraviglia. Tuttavia, le glosse di Manfredo ai codici illustrati e la sua corrispondenza con Redi, Magliabechi, Kircher e Oldenburg dimostrano chiaramente che egli concepiva la sua raccolta come un centro di ricerca. Da questo punto di vista particolarmente interessanti furono i suoi tentativi di produrre la porcellana dura. Non è noto se Manfredo raggiunse l’obiettivo, dato che il vaso che aveva realizzato imitando il blu su bianco delle produzioni cinesi è andato perduto. Certo è che nel 1676 Ehrenfried Walther von Tschirnhaus, l’inventore della porcellana dura europea, venne a Milano appositamente per incontrare Manfredo. 

Altrettanto importanti furono le sue ricerche preetnografiche. Infatti, a differenza di quanto avveniva in quasi tutte le raccolte europee del tempo, nel Museo Settala i reperti americani, africani, asiatici non erano genericamente inseriti tra i “curiosa”, ma erano individuati nella loro specificità ed erano suddivisi per aree tematiche con un’impostazione ormai comparativistica. Tuttavia, al contrario dei suoi contemporanei Athanasius Kircher o Lorenzo Pignoria che cercavano di spiegare le caratteristiche delle culture lontane nello spazio (India e Cina) utilizzando le categorie interpretative che servivano per studiare società lontane nel tempo (l’antico Egitto), Settala non si cimentò in avventate teorizzazioni e si limitò allo studio dei singoli reperti, di quella che oggi si chiama la cultura materiale, evitando quella lettura simbolica dell’oggetto, tipica del Cinquecento e del Seicento e presente anche in scienziati come Aldrovandi.


Mantello tupinamba, codice 1.21 (Ms. Campori), f. 5r, Modena, Biblioteca estense. La glossa di Manfredo Settala recita: «Vesta di sacerdote d’India fatta di piume di corvo preciosa donatami dall’Ecc.mo Sig.re Principe Landi come nel historia del Brasile alla pagina 228 delle navegatione nel libro terzo dove si vedono tutte le loro foncioni con musica alla loro usanza in stampa di rame».


L’incisione cui rimanda Settala nella glossa al mantello tupinamba, alla pagina 228 delle Historiae Antipodum, tomo terzo (1590-1630), di Theodore De Bry; illustra un passo della Navigatio in Brasiliam dove si parla delle danze tupinamba.

Ovale con santa Rosa da Lima fatto con piume di colibrì e due colibrì (1660 circa), codice 1.21 (Ms. Campori), f. 8, Modena, Biblioteca estense;


Francesco Porro, riproduzione di vaso, forse in porcellana, realizzato da Manfredo Settala, Ms. Z 387, f. 2r (1660 circa), Milano, Biblioteca ambrosiana.

Mudec - Museo delle culture

Milano, via Tortona 56
orario lunedì 14.30-19.30; martedì. mercoledì, venerdì,
domenica 9.30-19.30; giovedì, sabato 9.30-22.30
telefono 02-54917
www.mudec.it

ART E DOSSIER N. 332
ART E DOSSIER N. 332
MAGGIO 2016
In questo numero: LA VERTIGINE DELL'ACCUMULO Wunderkammer e collezionismi seriali. LA CUCINA E' ARTE?. BENI CULTURALI: il punto sulla riforma. EROINE E CONCUBINE: il mondo di Delacroix in mostra a Londra. IN MOSTRA Boccioni a Milano, Imagine a Venezia, Dimitrijevic a Torino.Direttore: Philippe Daverio