Grandi mostre. 2
Arte italiana degli anni Sessanta a Venezia

All’AlbAdi un nuovo
giorno

Gli anni compresi tra il 1960 il 1969, sono al centro di una mostra alla Peggy Guggenheim Collection.
Anni fecondi per la nascita di nuovi linguaggi visivi nella pittura, nel cinema e nella fotografia.

Sileno Salvagnini

È possibile ideare una mostra d’arte italiana che interessi “solo” una decina d’anni, nove per l’esattezza, dal 1960 al 1969, senza per ciò stesso ricorrere a vetuste e inflazionate etichette come Informel, New Dada, Pop Art, Arte programmata, concettuale, povera, ecc.? Con convinzione è quanto suggerisce Luca Massimo Barbero nella scelta della cinquantina di opere e nel relativo catalogo che accompagna la mostra Imagine. Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969 (Venezia, Peggy Guggenheim Collection, 23 aprile - 19 settembre). 

L’idea di fondo è che convenga partire dalle immagini in se stesse e dalle sperimentazioni che in quegli anni fatidici, specialmente a Roma, ma non solo, gli artisti effettuarono, spesso in solitudine; e comunque solo con forzature filologiche e contenutistiche riconducibili a definizioni non di rado provenienti da contesti stranieri. Ulteriore aspetto significativo è che tale convinzione viene suffragata da opere poco o per nulla note, quasi sempre di grandi dimensioni. è da sottolineare ancora, prima di entrare nel vivo di questa mostra, che da ormai almeno una ventina d’anni, lavorando in diversi ambiti espositivi fra cui la Basilica palladiana di Vicenza, la stessa Peggy Guggenheim Collection, la Fondazione Cassa di risparmio di Modena, il Macro - Museo d’arte contemporanea di Roma, e infine la Fondazione Giorgio Cini di Venezia, Barbero con tenacia difende una nozione d’arte italiana dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta mai banale, bensì aspirante a pieno titolo a quel posto che le spetta nell’arengo mondiale.


Tano Festa, La grande odalisca (1964).

Mauri, Lo Savio, Angeli, Festa,
Pistoletto, Schifano maturarono
una specie di supercodice,
di «idioletto estetico», avrebbe
detto Umberto Eco


L’«azzeramento delle neoavanguardie» avvenne attraverso un progressivo superamento, osserva il curatore, di quella che era stata la cultura dell’Arte concreta ma in particolare del monocromo. Mauri, Lo Savio, Angeli, Festa, Pistoletto, Schifano e così via da tale superamento maturarono un linguaggio della “figura” da intendersi come auroralità, quale germinazione di linguaggi altri: una specie di supercodice, di “idioletto estetico”, avrebbe detto Umberto Eco. E questo non solo in pittura, ma anche in fotografia e nel cinema - siamo ancora una quindicina d’anni in anticipo sulla rivoluzione del personal computer e sulla possibilità grafica attraverso i monitor analogici. 

Si parte da una prima sezione, che potrebbe definirsi della “cancellazione” ma anche dello “schermo”, con opere di Fabio Mauri, Francesco Lo Savio, Mario Schifano, Franco Angeli. L’opera iniziale di Fabio Mauri con cui apre la mostra, Cinema e figura (1960) rappresenta in un certo senso una sorta di icona metaforica, meglio, di “sinopia”, visto che la garza parzialmente cela l’immagine sottostante: laddove, per esempio, i coevi manifesti del cinema strappati di Rotella (autore che più avanti troviamo, ma non con le solite tele stereotipate) rimandano a una nozione nostrana di Pop Art, quest’opera di Mauri incarna un linguaggio più intimo, mentale quasi, non gridato, dove l’arte per vie misteriose invia a una presenza antica, e dunque propriamente “italica”. Roma in quegli anni rappresentava quasi una deuteragonista della più “industriale” e moderna Milano, interpretata magistralmente dai monocromi di Fontana e dallo spazialismo in generale, con i loro ammiccamenti alla scienza, alla tecnologia, alla televisione: una sorta di voce sotterranea, non meno autentica, che lasciava trapelare il passato come dato che tende ad aggettare dal quadro gridando la propria esistenza. È il caso, per esempio, di Metallo nero opaco uniforme di Francesco Lo Savio (1960), o ancor più di Monocromo di Schifano (1960), lavoro assai raro ai confini fra la tela e la scultura. 

Non meno penetranti le immagini quasi “araldiche” di Franco Angeli, pure loro velate, quali Testa di lupa capitolina (1965) e Stemma pontificio (1964): opere che denotano, osserva Barbero, un “impegno” politico affatto nostrano, mille miglia lontano dalla Pop Art.


Mario Schifano, Corpo in moto e in equilibrio (1963), Milano, Fondazione Marconi.


Mario Schifano, Central Park East (1964), Milano, Fondazione Marconi.


Giosetta Fioroni, Particolare della nascita di Venere (1965), Milano, Gallerie d’Italia.

L’idea dell’“inciampo”,
della dissonanza pare essere
il leitmotiv della mostra


Si passa quindi a capolavori dove si potrebbe dire fiorisce un rapporto nuovo - starei quasi per dire “postmoderno” - con i giacimenti culturali dell’immaginario artistico e urbano di casa nostra. Vi spiccano lavori giganteschi come La grande odalisca di Tano Festa (1964); Particolare della nascita di Venere di Giosetta Fioroni (1965), che solo assai da lontano dialoga con le Marilyn Monroe di Warhol; Nostalgia dell’infinito (Obelisco) di Tano Festa (1963), con un obelisco che ricorda - e credo fosse questa l’intenzione - il principio duchampiano di mettere ironicamente in “scatola” cose di dimensioni ben maggiori; Corpo in moto e in equilibrio di Mario Schifano (1963), che sembra voler asserire la propria contiguità con l’Uomo vitruviano leonardesco delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ma che rispetto a quello quasi pare “inciampare”, trovarsi spaesato come in un tempo non proprio. 

L’idea dell’“inciampo”, della dissonanza che questi artisti rappresentano almeno secondo la tradizionale loro collocazione, prima ancora come uomini del loro tempo che come artisti, pare proprio essere il leitmotiv che accompagna tutta la mostra. E restando a Schifano, come non scorgere la sensazione di trovarsi in un posto “altro”, alieno quasi, in un quadro come Central Park East (1964), frutto del suo contatto con New York? Le immagini quasi si solidificano nelle ultime sezioni della mostra, sia perché si assiste all’ingresso della tecnica fotografica, sia nel senso che esse tendono alla tridimensionalità. Penso a opere come l’enorme Mappamondo, in cartapesta e tondini di ferro, di Michelangelo Pistoletto (1966-1968); oppure Posso? (1963-1965) di Mimmo Rotella, con l’interno di un’auto americana riportata fotograficamente su tela; o ancora Armi (1965) di Pino Pascali, con analogo processo di riproduzione; o infine Rosa bruciata, ancora di Pistoletto (1965), dove la figura fitomorfa si trasforma in presenza inquietante. Da ricordare, da ultimo, l’impressionante White Bed di Domenico Gnoli (1968), specie di letto di contenzione degli Achromes manzoniani purificati attraverso il Cristo morto di Mantegna.


Mimmo Rotella Posso? (1963-1965).

Fabio Mauri, Cinema e figura (1960).


Domenico Gnoli, Letto bianco (1968), Roma, MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo.

Imagine. Nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969

a cura di Luca Massimo Barbero
Venezia, Peggy Guggenheim Collection
Dorsoduro 701
dal 23 aprile al 19 settembre
orario 10-18
telefono 041-2405411
catalogo Marsilio
www.guggenheim-venice.it

ART E DOSSIER N. 332
ART E DOSSIER N. 332
MAGGIO 2016
In questo numero: LA VERTIGINE DELL'ACCUMULO Wunderkammer e collezionismi seriali. LA CUCINA E' ARTE?. BENI CULTURALI: il punto sulla riforma. EROINE E CONCUBINE: il mondo di Delacroix in mostra a Londra. IN MOSTRA Boccioni a Milano, Imagine a Venezia, Dimitrijevic a Torino.Direttore: Philippe Daverio