L’ImprIntIng artIstIco:
IL mIto famIgLIare e La strada

Fugge Jan Fabre, fugge al galoppo per non farsi prendere e mentre fugge, con l’arco e le frecce centra degli obiettivi.

A furia di pensare al suo amico scarabeo - l’insetto che ha una struttura organizzativa vicinissima a quella di un computer - è riuscito ad averne in testa lo stesso schema tecnologico, bidimensionale e tridimensionale. Jan Fabre ha un’idea al giorno e la capacità di vederla realizzata avvalendosi dell’aiuto di chi lo circonda, non prima però di aver condiviso con i suoi collaboratori il progetto di questa idea, disegnato con precisione su un foglio con la sua inseparabile biro blu, la più semplice delle penne, in un certo senso la più affascinante, la stessa che aveva ammaliato anche Alighiero Boetti. Anche Rubens, una volta affermato, aveva dei pittori in studio che lo aiutavano. Anche Andy Warhol.

Fabre si è lasciato andare al fiume della vita, la sua non è arte concettuale bensì frutto diretto delle esperienze vissute, sia fisiche sia mentali. Visita il mondo classico e il Rinascimento, frequenta la grande pittura fiamminga, vive nel terzo millennio d.C., ma la sua forza propulsiva viene da più lontano, molto più lontano di seimila anni fa, quando l’uomo inventò la ruota. Più lontano di cento milioni di anni fa, allorché gli scarabei conservavano ancora all’interno delle loro corazze il suono del Big Bang. Se si accosta l’orecchio al dorso di uno scarabeo, questo suono c’è ancora. Guardatelo questo scarabeo, vedrete una luce particolare, diversa dalle altre, cangiante. È come il colore del mare e fa pensare al mistero dell’universo, specialmente all’alba, quando regna l’ora blu e la luce è ancora quella della luna. L’aspetto primitivo gli toglie il senso del tempo e gli consente di viaggiare a suo piacimento, avanti e indietro nei millenni. L’ opera di Jan Fabre, anch’essa priva del senso del tempo, rischia di durare nel tempo.


Avant-grade (1981); Anversa, M HKA - Museum van Hedendaagse Kunst Antwerpen. L’immagine dell’installazione qui riprodotta si riferisce alla mostra Jan Fabre au Louvre - L’Ange de la métamorphose (Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, écoles du Nord aile Richelieu, aprile - luglio 2008).

Jan Fabre nasce nel quartiere popolare di Seefhoek, ad Anversa, nel 1958, terzo di cinque figli, in una famiglia colta, coraggiosa e libera, legata dall’affetto, dall’assoluta indifferenza nei riguardi del denaro, dall’amore per la letteratura e per l’arte. Il padre Edmond proveniva da un ambiente comunista povero; da giovane aveva ammirato suo fratello Jaak, attore e fondatore del teatro giovanile fiammingo e si era iscritto alla Reale accademia di belle arti ad Anversa, senza però poter portare a termine gli studi per ragioni economiche. Aveva dunque deciso di specializzarsi in botanica, ottenendo poi un impiego come giardiniere del Comune. Si sarebbe identificato in seguito in quel suo terzo figlio, Jan, una sorta di gemello spirituale, più spregiudicato e deciso, determinato a essere artista a tutti i costi. Padre e figlio passavano molto tempo insieme girando per la loro città: andavano alla casa di Rubens, osservavano i maestri fiamminghi nei musei e frequentavano spesso il bellissimo zoo con matita e bloc-notes per ritrarre gli animali, fermi e in movimento, proprio come usava fare Rembrandt Bugatti sessant’anni prima. Papà Edmond s’immedesima con entusiasmo nelle fantasie infantili di Jan. Non ci sono soldi per le armature da cavaliere medievale tanto desiderate dal piccolo Jan e, quindi, le costruisce in legno fino al momento di poterne comprare una vera.


Frame da Lancelot (2004).


Reflecting cross (2013).

Questo regalo resterà nella vita di Fabre come un emblema tante volte riproposto nelle sue performance e nelle sue sculture, corazze di un “Lancillotto solitario” alla perenne ricerca del Graal e dell’amore. La madre, Helena Troubleyn, proviene da una famiglia agiata, cattolica e riceve un’educazione in francese in un istituto di suore. Troubleyn, che in fiammingo significa “restare fedele”, è anche il nome della compagnia teatrale che Jan fonderà nel 1986.

La più affascinante, raffinata ed elegante di tutti “i guerrieri della bellezza”, titolo che Jan Fabre attribuisce agli attori e ai danzatori della sua troupe, è proprio sua madre Helena Troubleyn. È una donna religiosa, di una religiosità fantasiosa e intrisa di superstizioni: non sono mai mancate sotto il tappetino di casa le forbici a forma di croce per tenere lontani gli spiriti maligni. Ritroveremo queste forbici nelle sculture di Jan. In segno di rispetto per il marito, che non è credente, Helena non porta i figli ad assistere alla messa e in occasione del diciottesimo compleanno di Jan gli regala, al posto della tradizionale medaglietta sacra da portare al collo, un piccolo gufo, il più ricco di saggezza e di esperienza tra gli animali, a cui è familiare la morte, come la vita, e con occhi che vedono nel buio. Mamma Helena racconta a Jan storie bibliche commentate appassionatamente e gli legge Baudelaire e Rimbaud facendogli ascoltare anche le canzoni di Georges Brassens, Edith Piaf e Jacques Brel. Sarà la madre, molti anni più tardi, rimasta vedova con un figlio pieno di allori, a dirgli spesso: «Ricordati da dove vieni», un invito a riconoscere le proprie origini con umiltà, ma anche con fierezza. «Mia madre mi ha fatto conoscere la poesia e la forza della lingua, mio padre la poesia e la forza dell’immagine. Questa concordanza di immagine e lingua si ritrova in tutta la mia opera»(1).


L’homme qui mesure les nuages (1998); Namur, La Citadelle, installazione permanente.

La scultura in bronzo, The Man who Bears the Cross (2015), prima acquisizione della cattedrale di Anversa dopo novantun anni di scetticismo nei confronti dell’arte moderna e contemporanea, è somigliante sia all’autore, sia a suo zio paterno Jaak, uno dei primi a riconoscere, assieme a entrambi i genitori, il talento di Jan. Questi famigliari hanno costruito il mito della sua infanzia con i racconti fantastici, la sera, a tavola, per ammaliare ed elettrizzare i bambini invitandoli a celebrare la vita, a non dare nulla per scontato, a indagare nei misteri della natura e nelle profondità dell’arte.

Jan disegna - ricorda egli stesso - fin da quando non sapeva quasi camminare. La sua inclinazione artistica è favorita dai genitori che lo manderanno all’Istituto municipale delle arti decorative di Anversa, non alla Reale accademia di belle arti, perché la retta è troppo costosa. A questa, per capire la sua determinazione, Jan s’iscriverà clandestinamente e illegalmente perché era proibito frequentare i due istituti in contemporanea. Imparerà a procurarsi i soldi.

Ammirava molto due personaggi. Il primo è Robert Stroud (1890-1963), il bandito di Alcatraz che trascorse cinquantaquattro dei suoi settantatré anni in prigione e in carcere divenne un grande ornitologo. Alla fine del film di John Frankenheimer, L’uomo di Alcatraz (1962), che Fabre vide più volte, Robert Stroud confessa un suo sogno: «Vado a misurare le nuvole». Proprio L’homme qui mesure les nuages è il titolo di una grande statua in bronzo che Fabre ha dedicato a Stroud nel 1998. Il secondo nume è Jacques Mesrine (1936-1979), francese, gangster, pericolo pubblico numero uno negli anni Sessanta e Settanta. Era convinto di poter cambiare la società e credeva nell’anarchia dell’amore. Anche Jan Fabre diceva di sé: «Sono un artista in fuga, fuggo il mondo dell’arte, il mondo del teatro, il mondo della moda e quello letterario»(2). Viene in mente il tenente Franz Tunda, protagonista del romanzo di Joseph Roth, Fuga senza fine (1927) che, pur così diverso da Jan Fabre, non smette di scappare.


Art Kept me out of Jail/Homage to Jacques Mesrine (2008), performance; Parigi, Musée du Louvre, Galerie Daru et cour Napoléon.

Molti anni dopo, nel 2008, al Louvre, Fabre dedicherà una performance a Jacques Mesrine - Art Kept Me out of Jail - in cui, alla fine, si fa uccidere ai piedi della Nike di Samotracia con lo stesso numero di proiettili che ha ucciso il bandito. Agli esordi della sua avventura artistica, che per il momento è soltanto un’avventura di vita, impara ad approfondire la conoscenza di Anversa finché gli è familiare ogni strada, ogni negozio, ogni monumento, ogni spazio vuoto. Riesce con innumerevoli piccoli espedienti a sopravvivere. Lavora nei ristoranti e quando può s’intrufola nelle più lussuose ville di Anversa sottraendo piccoli oggetti da rivendere. Dirà più tardi: «La città è sempre stata dalla mia parte.

La città è stata il mio campo da gioco. La città è stata il mio primo palcoscenico: la strada è stata la mia tela, la mia prima amante»(3).

Il lavoro è un apprendistato alla vita, ma anche alla libertà di espressione. Porta in dono la capacità inventiva e le parole pronunciate nel dialetto fiammingo di Anversa, la vera lingua di Jan. Elias Canetti direbbe, come nel titolo del suo libro: Die gerettete Zunge (La lingua salvata, 1977). L’assoluta autenticità del suo linguaggio, parlato e scritto, è la grande forza dell’artista fiammingo.

Jan Fabre, ragazzo, lavora anche nel porto dove, tramortito dalla fatica per non essere abituato a trasportare pesi, viene ironicamente chiamato “Rubens” dai suoi compagni. Del porto ricorda la pervasività inebriante degli odori, su tutti il profumo del mare del Nord, «quello splendido ricettacolo delle lacrime di Dio»(4). A sedici anni, durante il secondo anno all’Istituto di arti decorative, quando è richiesto agli allievi di allestire una vetrina, gli viene l’idea di sostituirsi a un manichino, soltanto per provare il terrore e l’emozione di esporsi in vetrina davanti al pubblico. Gli diranno più tardi che quello che sta facendo si chiama Performing Art.


My Body, my Blood, my Landscape (1978), performance dalla serie omonima.

Altre esperienze hanno contribuito a farlo continuare nella direzione della performance. Compiuti i diciotto anni, Jan visita a Bruges una mostra di dipinti di maestri fiamminghi primitivi che rappresentano Cristo, le sue ferite, la fustigazione. Ha una reazione immediata: torna ad Anversa, si tagliuzza la fronte con delle lamette da barba facendo sgocciolare il sangue sulla carta. È la sua prima presa di coscienza che il corpo è qualcosa che si può violare e indagare «cercando di capire lo strano involucro in cui ci svegliamo ogni mattina»(5). Nella performance My Body, My Blood, My Landscape (1978) rifà quello stesso gesto davanti al pubblico, come se volesse disegnare con le gocce di sangue i suoi pensieri.

Un anno prima, nel 1977, c’era stato un tentativo scherzoso e provocatorio di inserirsi nella tradizione, come se lui fosse già un leggendario artista. Aveva sostituito la scritta del nome della via in cui viveva con la famiglia, Lange Beeldekensstraat, con il suo nome Jan Fabrestraat. Questo episodio, al di là della sua giocosità goliardica, anticipa le sue intenzioni sulla vita.


Telling the Passion of Art and Christ (1978), dalla serie My Body, my Blood, my Landscape.

Dal 1976 al 1980 le performance si susseguono e si apre un dialogo costante, a volte controverso, con il pubblico. In Money Performance (12 settembre 1979), usa delle banconote, il ricavato del biglietto d’ingresso, nei modi più imprevedibili: mangiandole, facendone degli aeroplanini da lanciare, incendiati, verso gli astanti in segno di protesta contro la scelta del governo belga di investire in armi da guerra e, infine, bruciandole e usandone poi la cenere per disegnare. Il pubblico reagisce riempiendolo di botte. Il giorno successivo, 13 settembre, a commento della reazione della gente, scrive: «Il mio corpo è un campo di battaglia, ho male alle costole, sono pieno di lividi, indosso con orgoglio le medaglie blu che ho ricevuto per la mia Money Performance».

In I Want to Be a Killer, I Want to Be Fred Astaire si celebrano due eroi: Jacques Mesrine, che nell’immaginario popolare è portatore di una visione e il cui istinto di morte è una sfida nei confronti della vita, e Fred Astaire, il ballerino agile, acrobatico, leggero come un gatto, che si esercita anche diecimila volte per ottenere la naturalezza di una sola mossa. Nella stessa performance si poteva vedere un disegno raffigurante Fred Astaire circondato da gatti. È eseguito con la biro Bic blu, la penna dal colore ipnotico che non costa nulla, della quale ci si può facilmente appropriare e che Jan Fabre usa da sempre compulsivamente per registrare la vita che altrimenti si vanificherebbe come un sogno subito dimenticato. «Disegno», dice in un’intervista allo storico dell’arte e curatore Jan Hoet, «e i segni che traccio sono il mio modo di parlare, di sopravvivere e di capire me stesso, di capire cosa stia succedendo […] ma anche il modo più semplice di fare di un quadrato un tappeto magico e di un insetto un corpo astrale»(6). Il disegno accompagna il fluire dei fatti quotidiani e crea il momento magico fuori dal tempo, oppure può essere linguaggio, parola più immediata, anche se non ripetibile, in cui si condensa con maggiore precisione il senso di un discorso: «Disegnare diventa un modo di parlare, una lingua che ha l’immediatezza di un balbettio illuminato che si avvicina ai confini del pensiero coerente»(7). A volte, il disegno è un linguaggio che si autogenera: «Per me disegnare è una specie di danza che eseguo sui polsi»(8). «È la linea che mi porge il significato che si dirige verso i contenuti»(9).


Fred Astaire (1983), dalla serie The Friends; Anversa, Università, collezione Dorian van der Brempt.



Due immagini di Money Performance (1979), performance.

(1) Jan Fabre, Beyond the Artist, film-documentario, regia di Giulio Boato, 2014.
(2) Intervista di Fabre con Germano Celant, in Jan Fabre. Stigmata. Actions & Performances 1976-2013, catalogo della mostra (Roma, Maxxi, 16 ottobre 2013 - 16 febbraio 2014), a cura di G. Celant, Milano 2014, p. 628.
(3) Ivi, p. 170.
(4) Ivi, p. 172.
(5) Ivi, p. 162.
(6) J. Fabre, Arti&insetti&teatri, a cura di G. Celant, Genova 1994, p. 29.
(7) Ivi, p. 40.
(8) Ivi, p. 14.
(9) Ivi, p. 17.

FABRE
FABRE
Jean Blanchaert
La presente pubblicazione è dedicata a Jan Fabre. In sommario: L'imprinting artistico: il mito famigliare e la strada; Gli insetti: i maestri di un sapere iniziatico; La precisione del sogno; Il corpo è tutto. Tutto è corpo; Mount Olympus; Le sculture: testimoni di un'assenza; Il verde dell'Africa; Troubleyn Laboratorium. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.