Le scuLture:
testimoni di un’assenza

La scultura è uno dei tanti modi per rinnegare la morte.

In essa può rinascere tutto ciò che ci è caro. L’homme qui mesure les nuages ha le sembianze del fratello di Fabre, Emile, prematuramente scomparso. È un’opera in bronzo dorato rivestita da vernici per aereo resistenti alle intemperie. La scaletta pericolante su cui egli è arrampicato ha la forma tipica di quelle da biblioteca, come se l’universo stesso fosse una biblioteca infinita e si potesse arrivare a comprenderlo con il solo aiuto del più elementare degli strumenti, una semplice riga millimetrata. Allo stesso modo, Jan Fabre sembra pensare che il lontano futuro utopico si possa raggiungere al ritmo lentissimo, ma inarrestabile, degli spostamenti di una tartaruga. Nella scultura Searching for Utopia (2003) egli raffigura se stesso, con le redini ben salde in mano, a cavallo di questo saggio e lungimirante animale. È anche un omaggio a Janneke e Mieke, le tartarughe della sua infanzia.

L’uomo che dona il fuoco (2002), moderno Prometeo, non resta confinato nella sua antica storia. Realisticamente il suo mito rinasce nella vita vissuta da chi fa accendere una sigaretta a un amico. L’opera raffigura l’artista stesso che, tirandosi la giacca sopra la testa con un gesto particolarmente intimo e quotidiano, cerca di proteggere dal vento la fiamma di un accendino.


L’uomo che dona il fuoco (2002); Bruges, Guido Gezelle Museum.

Nelle opere di Fabre non vi è soltanto il sogno, ma anche la consapevolezza della potenza della morte. In Sanguis sum (2001), l’agnello, che con la sua presenza cita la Passione di Cristo, è qui rappresentato con un cappello a punta di carnevale e ha accanto il suo gemello, o forse se stesso, disteso nella posizione di cadavere.

Salvator mundi (1999) è un’opera che riunisce tutti i materiali utilizzati in precedenza dall’artista e cioè elitre di coleotteri, ossa, armatura, fil di ferro e capelli d’angelo (bambagia silicea). È composta da tre elementi: il guanto di un’armatura che tiene una sfera ricoperta con ali scarabei alla quale è annessa una colonna vertebrale. In quest’opera, nella quale si concretizza l’ideale cavalleresco, l’armatura destinata a proteggere il corpo di un uomo e le corazze degli scarabei sono accomunate.

Il soggetto di Me, Dreaming (1978) è l’autore stesso seduto a un tavolo, chino su un cannocchiale con in testa l’amato capello a bombetta con cui vuole imitare scherzosamente Magritte. Ha il corpo ricoperto di puntine da disegno come se avesse emesso delle piccole spine per difendersi dal mondo. È una tecnica che Fabre riprenderà più tardi; le puntine sono omologhe alla biro blu, semplici, poco costose e, quando sono utilizzate su vaste superfici, in grande quantità, creano un effetto molto suggestivo. Le ritroviamo nel 2012 in un autoritratto dell’artista eseguito in bronzo e cera (Thumb-tack Pig). Sempre nel 2012, Fabre è invitato dal Museo d’arte moderna di Bruxelles ad allestire, accanto alla sala dei Rubens, la sua galleria di diciotto autoritratti in bronzo e diciotto in cera colorata. Il titolo è Chapters I-XVIII perché essi sono declinati come i capitoli di un libro riferiti a momenti diversi della vita. Si tratta di autoritratti particolari in cui le teste, integrate da elementi provenienti dal regno animale, emanano una vitalità intensa, magica e primitiva.


Sanguis Sum (2001). L’immagine dell’installazione qui riprodotta si riferisce alla mostra Jan Fabre au Louvre - L’Ange de la métamorphose (Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, écoles du Nord aile Richelieu, aprile - luglio 2008).

Me, Dreaming (1978); Anversa, M HKA - Museum van Hedendaagse Kunst Antwerpen, Collection Flemish Community.


Merciful Dream (Pietà V) (2011), dalla serie Pietas.

La scultura Merciful Dream (Pietà V) (2011), in marmo bianco di Carrara, fa parte di un progetto più complessivo per celebrare il dialogo tra arte e scienza. Si tratta di una rivisitazione della Pietà vaticana di Michelangelo in scala 1:1, vista come un dialogo tra la vita e la morte. Il volto della Vergine è un teschio e il figlio fra le sue braccia è l’artista stesso che tiene in una mano un cervello: sono infatti i neuroni che attivano il sentimento della compassione. Giacinto Di Pietrantonio, critico d’arte e direttore della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo, parlandomi dell’attenzione che Jan Fabre ha anche verso la cultura popolare, racconta come questo volto scarnificato di Maria Vergine faccia parte dell’iconografia religiosa messicana, eredità precolombiana del culto dei morti. Inoltre, il teschio è anche un’icona rock, pop, heavy metal, mondi musicali ai quali Jan Fabre, assolutamente scevro da snobismi culturali, è legato. Di questo progetto fanno parte sculture in marmo bianco di Carrara a forma di cervelli dalle cui vene e arterie, che spesso sembrano le radici di una pianta, spuntano coralli, bonsai, forbici a forma di croce a altri simboli religiosi relativi a vari culti, dallo scintoismo giapponese alla religiosità cinese, al cristianesimo.
La fascinazione del marmo non ha abbandonato Jan Fabre che ritorna a Carrara nel 2015 per realizzare ventiquattro sculture in marmo bianco statuario. Fanno parte della serie Sacrum Cerebrum e raffigurano cervelli e simbologie sacre scolpiti con grande perizia dai maestri carrarini guidati passo per passo da Fabre. Tredici di queste opere sono state esposte alla galleria Guy Pieters nella cornice di BRAFA 2016 (Bruxelles Art Fair), in una mostra curata da Melania Rossi.

FABRE
FABRE
Jean Blanchaert
La presente pubblicazione è dedicata a Jan Fabre. In sommario: L'imprinting artistico: il mito famigliare e la strada; Gli insetti: i maestri di un sapere iniziatico; La precisione del sogno; Il corpo è tutto. Tutto è corpo; Mount Olympus; Le sculture: testimoni di un'assenza; Il verde dell'Africa; Troubleyn Laboratorium. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.