Il Corpo è tutto.
tutto è Corpo

Proprio dalla necessità di questa ricerca paziente nasce l’ideologia del corpo perché è il corpo, prima di tutto, che affronta, sostiene e registra il mutamento.

Parlando dell’attore e citando Antonin Artaud, Jan Fabre si dice convinto che questi debba mettere in atto una “crudeltà personale” che lo renda capace di voler superare i propri limiti mentali e fisici(20). Secondo Jan Fabre esiste una relazione fra i due poli estremi della morte e della vita, fra lo scheletro che rappresenta l’immobilità e contiene la memoria del tempo e la carne che rappresenta il movimento e ha in sé il decadimento.

Avviene una lotta fra il desiderio di restare immutabili, eterni e la fascinazione trascinante della vita che, distruggendoci, ci permette di esprimerci.

Pier Paolo Pasolini ha espresso con una frase illuminante questo concetto: «Esprimersi e morire o restare inespressi e immortali». «Viviamo in una società in cui molti degli istinti umani vengono nascosti sotto una spessa coltre di civilizzazione, di buoni comportamenti e costumi, ma io come uomo di teatro sono interessato proprio alla persona non ancora umanizzata, alla persona che commette ancora errori, è piena di impulsi e di reazioni inaspettate, che viene guidata dalle sue pulsioni, dal carattere, dai suoi istinti primordiali... Tutte cose che rendono così umane le persone…»(21). La più ambigua, ma anche più feconda metafora della vita che contiene la morte e viceversa sarà la performance Hey, What a Pleasant Madness (Questa pazzia è fantastica) (1988): sette gufi - simboli del tempo, ma anche autoritratti dell’autore (come lui, vivono di notte) - che vegliano sopra altrettante vasche riempite con l’acqua della Schelda, il fiume di Anversa, simbolo della fertilità e della vita.

«Ho le mani insanguinate. Sono colpevole. Ho realizzato dei disegni», scrive Jan Fabre nel suo diario, a New York, il 19 marzo 1982. Già da molto tempo disegna con il sangue e continuerà a farlo fino a oggi. 


Bruges 3004 (Angel with bones) (2002); Nizza, MAMAC - Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain.
L’immagine dell’installazione qui riprodotta si riferisce alla mostra Jan Fabre au Louvre - L’Ange de la métamorphose (Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures, écoles du Nord aile Richelieu, aprile - luglio 2008).

Nel 1999 dipinge Autoportrait du pendu, un uomo impiccato a un albero, crivellato di colpi e finito con l’accetta. Sempre tracciata con il sangue, sul quadro compare la scritta in stampatello: «Martirio glorioso del servitore dell’arte, nato ad Anversa, eretico crudele». Seguono la firma e l’anno di esecuzione: «Jan Emiel Constant Fabre 1999».

Sanguis/Mantis (2001); Lione, MAC - Musée d’Art Contemporain, performance film collection.


On ne s’habitue pas à l’art (2001).

Nel 2001 mette in scena a Lione la performance Sanguis/Mantis ispirata alle quattordici stazioni della Via crucis. L’autore è vestito con una pesante armatura. L’elmo raffigura la testa ingrandita di una mantide religiosa. Un’infermiera preleva a intervalli regolari il sangue dell’artista che lo userà per disegnare ininterrottamente fino ad arrivare, dopo cinque ore, sull’orlo di uno svenimento. Su un manifesto resta scritto il seguente testo: «Non ci si abitua all’arte. Il mondo è disperato. Siccome non possiamo cambiare il mondo, in un mondo nel quale tutto è dovuto al caso, l’unica speranza che può avere un artista è quella di ottenere una vittoria sul caso. Ogni artista è animalesco verso se stesso, come un marinaio naufrago». Talmente animalesco che Jan Fabre usa nella sua pittura, oltre al sangue, anche le urine, lo sperma e le lacrime, sia quelle fisiche e allergiche, provocate, per esempio, da una cipolla, sia emozionali, cioè causate da un dolore, sia spirituali, originate dalla sindrome di Stendhal. Si tratta di un linguaggio apparentemente più immediato, ma in realtà più spiazzante e oscuro. È difficile abituarsi a uno spettacolo così cruento, se non si riesce a immedesimarsi nell’intento di Fabre che è quello di fondere il proprio corpo con il mondo. «Ho sempre creduto che non si possa pensare o fare l’arte, ma che l’arte sia qualcosa che esce dai pori della pelle»(22).

La sua ricerca sul corpo include, oltre al corpo fisico e al corpo erotico, anche il corpo spirituale: «C’è un grande buco dentro di me, un vuoto a grandezza naturale, uno spazio in cui potrei vivere, lavorare ed esporre»(23). Le sculture dei suoi corpi spirituali - monaci, angeli, creature femminili fatte del solo vestito costruito con frammenti di ossa animali e umane e con gli scheletri esterni degli scarabei - sono il punto d’incontro tra la vita e la morte, esseri intermedi, proprio come lo scarabeo, visto dall’artista come metafora della resurrezione.


Castle of Pierre Bais (2004), dalla serie Teardrawings.

Jan Fabre e Marina Abramovic, Virgin/ Warrior (2004), performance; Parigi, Palais de Tokyo.


In Lancelot (2004) e in Virgin/Warrior con Marina Abramovic´, Fabre difende la vulnerabilità della bellezza e dell’arte. In Virgin/Warrior, performance del 2008, gli artisti indossano corazze medievali. Marina Abramovic´ è una “vespula vulgaris”, Jan Fabre un “rhinoceros beetle”. I due attori difendono l’arte, la bellezza e il perdono e scrivono con il sangue l’uno dell’altro sulle vetrine e sui muri bianchi del Palais de Tokyo a Parigi. Jan Fabre, con il sangue di Marina, scrive: «It takes a long time to become a young artist» e anche: «To forgive is a St. George duty».

Nel monologo Je suis sang (2001) il guerriero, cavaliere medievale, si assoggetta alla morte perché questa dal suo corpo estragga un nuovo corpo creato dalle ferite e dal dissanguamento di quello vecchio: «Sotto la mia corazza, sotto la mia pelle, si nasconde il corpo di domani»(24). Si tratta di un corpo fatto di solo sangue, cioè di sola vita, pura e rigenerata. Si dice infatti, sempre nel monologo: «Astieniti tuttavia dal mangiare sangue perché il sangue è vita. Tu non devi mangiare la vita assieme con la carne»(25). Lo stesso cavaliere della disperazione, in La storia delle lacrime (2005), comprende lo splendore ma anche la tragedia della vita umana, vuole parlare al cuore degli uomini che hanno perso il contatto con i sentimenti e con l’immaginazione. Vuole inondare il mondo di lacrime che però sono finite. «Gli uomini pensano di potersi ritrovare un giorno, paralitici o ciechi ma mai immaginerebbero di mettersi a filosofare»(26). A questo punto il cavaliere della disperazione, pur continuando a credere nella vita, insieme alla sua associazione di anime erranti, muore sbellicandosi dalle risa e ritorna nell’oscurità.
«Perché facciamo arte? Perché facciamo teatro? Che cos’è la performance? Che cos’è la danza? Che cos’è una parola? Se cerchi sempre di farti queste domande con i tuoi collaboratori, alla fine conduci le cose fino al loro limite […] ciò ti dà quella carica di diecimila volt di cui hai bisogno per lavorare, ti spinge a comunicare. Non appena sei nella zona pericolosa, comunichi. Se non superi dei limiti, se non porti all’estremo mente e corpo, allora non ha senso sperare in nuove forme di comunicazione»(27). Il teatro secondo Jan Fabre deve tornare all’origine della tragedia, cioè ai riti dionisiaci. Lo spettatore deve essere messo a confronto con i momenti maggiormente rimossi e oscuri della storia dell’umanità. Questo confronto con la sofferenza profonda purifica il cuore. Solo così può avvenire la catarsi come rito primitivo e purificazione violenta: un processo di metamorfosi non soltanto nell’attore, ma anche nello spettatore.

La novità che Jan Fabre introduce in questo rito è di far irrompere in esso la realtà. Il tempo è tempo reale, il dolore e la stanchezza sono anch’essi reali e l’effetto della finzione sparisce: «La fine dello spettacolo è come un cadavere la cui anima si mette in viaggio nei corpi degli spettatori»(28). Citando Artaud, Fabre dichiara: «Bisogna avere la passione di un assassino senza volere uccidere nessuno»(29). L’attore deve rinunciare alla propria individualità, mettersi nelle mani del regista come un mistico è nelle mani di Dio. Non esprime emozioni ma queste sono leggibili nella perfetta esecuzione dei gesti, conquistata mediante la ripetizione. «Quando l’attore viene assorbito nelle cose in cui è impegnato e conosce la crudeltà personale, allora nasce talvolta qualcosa di divino»(30). Si realizza una complicata alchimia, un’unione delle cellule del cervello e di quelle del cuore. Sono forse i neuroni specchio e non uno slancio sentimentale che portano a essere mimetici con i sentimenti degli altri dimenticandosi, come fanno gli attori, dei propri.

Nel 2014 Jan Fabre discute di questo con Giacomo Rizzolati in Do We Feel with Our Brain and Think with Our Heart? Il mondo di Jan Fabre è la proiezione di un sogno, crede nell’utopia.


Cédric Charron in Attends, attends, attends…pour mon pére (2014), balletto-monologo.

Nel mondo reale c’è solo la bellezza a consolare i mortali, anzi a salvarli mantenendo intatta la loro fede. Il teatro, nella versione “fabriana” è un “pharmakon”, un veleno che eventualmente può anche curare. In Prometheus Landscape, messo in scena nel 2013 tratto dal Prometeo incatenato di Eschilo, Fabre suggerisce che il fuoco che miracolosamente si accende per poi venire soffocato e riaccendersi, è un fuoco interno a noi. Risale al 2001 The Problem, in cui l’autore e i filosofi tedeschi Dietmar Kamper e Peter Sloterdijk discutono della vita e dell’arte camminando e spingendo davanti a sé tre enormi sfere di terra come fanno gli scarabei stercorari con le loro deiezioni fisiche allo scopo di conservare in esse le larve. In una variante moderna del mito di Sisifo (l’eroe greco condannato a spingere perpetuamente sino alla cima di un monte un masso che continuamente rotola a valle), l’artista e i due filosofi tentano di arrampicarsi sulla palla ma scivolano ogni volta indietro mentre questa, continuando a rotolare, si ingrandisce. È l’immagine poetica di un problema che, per analogia con il principio di vita contenuto nelle sfere degli scarabei stercorari, è la vita stessa. Essendo complesso come la vita, il problema non si risolve, si può soltanto viverlo, ma questa è già di per sé una cosa grandiosa, anche riferita a Fabre, se pensiamo a quanto spesso egli parli dello stupore di fronte a ciò che esiste. 

Attends, attends, attends… pour mon père (2014) è il balletto-monologo della durata di un’ora che Jan Fabre ha dedicato a Cédric Charron, uno dei suoi interpreti più fedeli. Charron, danzando, vestito di rosso, interpreta Caronte. Egli vuole preparare e accompagnare il padre nell’ultimo viaggio e usa il poco tempo rimasto per parlare ancora con lui e dirgli ciò che non era mai riuscito a dire prima. Jan Fabre ha dichiarato che per ricreare certe atmosfere dove la nebbia e la luce si confondono, si è ispirato ai quadri di Caspar David Friedrich.

(20) Conferenza di Jan Fabre a Bruxelles per il Taalunie Toneelschrijfprijs (un premio teatrale), 21 novembre 2011.

(21) Jan Fabre citato in F. Paris, Il corpo si fa scena, in “Acting Archives Review”, II, 4, 2012, p. 120.

(22) Intervista di Fabre con Germano Celant, cit.

(23) J. Fabre, Giornale notturno (1978-1984), cit., 25 aprile 1982, p. 119.

(24) Id., Je suis sang, monologo, in Id., Teatro, Milano 2010.

(25) Ivi, riprendendo le parole di Deuteronomio, 12, 23.

(26) J. Fabre, La storia delle lacrime, 2005, in Teatro, cit.

(27) Jan Fabre citato in F. Paris, Il corpo si fa scena, cit., p. 119.

(28) Jan Fabre citato in L. van den Dries, Corpus Jan Fabre. Annotazioni su un processo di creazione, cit., p. 269.

(29) Jan Fabre citato in F. Paris, Il corpo si fa scena, cit., p. 119.

(30) Ivi, p.117.

FABRE
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Jean Blanchaert
La presente pubblicazione è dedicata a Jan Fabre. In sommario: L'imprinting artistico: il mito famigliare e la strada; Gli insetti: i maestri di un sapere iniziatico; La precisione del sogno; Il corpo è tutto. Tutto è corpo; Mount Olympus; Le sculture: testimoni di un'assenza; Il verde dell'Africa; Troubleyn Laboratorium. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.