Sia la sua arte sia i manga confermano però una forte identità che il Giappone ha saputo tener ben salda nonostante l’invasione e l’influenza della cultura americana. Nel catalogo della sua mostra Little Boy (2005), il cui titolo riprende schiettamente il nomignolo della prima bomba atomica sganciata su Hiroshima, Murakami ripercorre quella generazione di fanatici appassionati di manga e animazione, ovvero gli “otaku”, a cui l’artista stesso sente in parte di appartenere. Il termine, già desueto nella lingua giapponese, veniva originariamente usato dagli appassionati di fumetti per darsi una sorta di “voi” durante le loro goffe relazioni interpersonali. Venne poi adottato non più come pronome, ma come sostantivo, proprio per designare in maniera ironica questi individui. Ben presto, però, la parola “otaku” si connotò molto negativamente, a seguito di una serie di omicidi di bambine da parte di un coetaneo di Murakami, che venne arrestato nel 1989 e definito dai mass media come il “killer otaku”. Si originò così una grande abbondanza di articoli giornalistici che denunciavano il fenomeno sociale diffondendo le foto della stanza dell’assassino, che si presentava piena di videocassette (soprattutto di genere “horror splatter”). Murakami, definendosi «un otaku che non è riuscito a divenirlo completamente », ha dichiarato che quando vide la stanza del serial killer, la trovò essenzialmente simile alla sua e a quelle dei suoi amici.
Tutta la sua attività artistica si presenta come una lotta per tramandare questa subcultura, che l’artista ritiene discriminata. È proprio questo l’obiettivo della corrente artistica denominata Superflat, di cui Murakami è fondatore e che è caratterizzata da un linguaggio senza traccia di prospettiva e profondità di campo, ma accostabile alla tradizione delle antiche stampe e pitture giapponesi, come agli stessi manga, anche per l’estetica tendente alla “carineria”. Tramite un uso del colore, tipico del linguaggio infantile, l’arte di Murakami rispecchia quel Giappone che non ha avuto l’occasione di crescere dopo gli eventi della seconda guerra mondiale e che è rimasto esso stesso un ragazzino, ovvero un “little boy”, nel processo di forzosa americanizzazione: un’azione che Murakami paragona a quella di una società orwelliana, che è di fatto “superflat”, ovvero “superpiatta” e dove l’appagamento estetico risulta facilmente ottenibile grazie a una forte produzione e un elevato consumo.
A Tokyo, il quartiere tecnologico di Akihabara è sempre aggiornato sulle ultime tendenze “otaku”, che la galleria di Murakami, la Kaikai Kiki, testimonia presentando diverse mostre, molte delle quali sono personali di artisti emergenti. Con la consapevolezza che ormai la sua opera sarà riportata nei manuali di storia dell’arte di tutto il mondo civilizzato, Murakami incentiva le attività di giovani artisti anche tramite la fiera d’arte Geisai, che si tiene a Tokyo ben due volte all’anno, mantenendo così viva la testimonianza delle varie generazioni di “otaku”.