Studi e riscoperte. 2
Le antichità siriane tra sopravvivenza e distruzione

gli ultimi volti
di palmira

Niente o quasi rimane di Palmira, il sito archeologico siriano distrutto lo scorso anno per mano dell’Isis.
Solo testimonianze disperse in diversi musei, europei e americani: volti di uomini e donne, pochi superstiti di una catastrofe.

Sergio Rinaldi Tufi

La sorte di Palmira, gioiello dell’archeologia siriana caduto in mano all’Isis, ha scosso il mondo: prima la pubblica esecuzione di prigionieri nel teatro antico, poi l’uccisione del direttore degli scavi Khaled al-Asaad, infine la distruzione dei monumenti più noti. Che cosa resta, allora, della grande città del deserto? Resta la gente. Gente di Palmira. In che senso? Vediamo. 

Da quando, nel Sei-Settecento, viaggiatori ed eruditi occidentali ne riscoprirono le rovine, moltissime delle sculture che decoravano i principali monumenti furono asportate a beneficio di tanti musei: Washington, Copenaghen, Parigi, San Pietroburgo, Beirut, Ginevra e anche Roma. Un fenomeno diffuso, frutto dei rapporti di forza fra i paesi, poi man mano scomparso nel corso del Novecento. 

Per Palmira, in un certo senso, quella migrazione di sculture è stata una fortuna: ora sono sfuggite alla devastazione, insieme con quelle conservate a Damasco e con quelle che i funzionari siriani sono riusciti a mettere al sicuro. Conosciamo così statue e rilievi; tantissimi questi ultimi, talvolta votivi ma più spesso provenienti da contesti funerari. Volti di palmireni. 

Per capire meglio, ripercorriamo la storia del sito. 

Nel deserto siriano, duecentocinquanta chilometri a nord-est di Damasco, si trova una grande oasi, punto di passaggio obbligato per le carovane che dall’Asia puntavano verso il Mediterraneo (e viceversa): qui sorse un’antichissima città, citata dalla Bibbia come Tadmor, che poi, con il nome di Palmira, conobbe nuovi sviluppi in età ellenistica (quando i Seleucidi di Siria controllavano un’area estesa fino all’Iran) e una grande fioritura in età imperiale romana. 


Alcuni dettagli (ovale del volto, grandi occhi, labbra sottili) sembrano ricordare una “kore” greca arcaica


La città fu una sorta di snodo fra Occidente e Oriente, fra Roma e la terra dei Parti, che dominavano la zona fra Turchia e Persia nel III secolo d.C. 

Insomma un opulento porto franco nel mare di sabbia, una città carovaniera come Petra, Gerasa, Dura Europos. Un luogo di passaggio per il trasporto di merci per le quali si pagava anche il dazio: incenso, mirra e aromi d’Arabia; avorio, legni rari, pietre preziose, perle, profumi dall’India; ma anche - provenienti da Occidente per i mercati asiatici - armi, tessuti, vino, olio. C’era la mediazione dei palmireni anche sulla seta che giungeva dalla Cina (un convegno su questo tema, tenutosi a Damasco nel 1992, fu coordinato proprio da Khaled al-Asaad). Una minuziosa regolamentazione fiscale, doganale, amministrativa è contenuta nella Tariffa palmirena, gigantesca iscrizione risalente al 137 d.C. e conservata nell’Ermitage di San Pietroburgo.


Stele raffigurante una dama con copricapo ricamato (inizio del III secolo d.C.), Città del Vaticano, Musei vaticani.

Stele frammentaria con testa femminile (I secolo d.C.), Città del Vaticano, Musei vaticani.


Stele con figura femminile a ondulazioni (II secolo d.C.), Città del Vaticano, Musei vaticani.

La città era da tempo sotto il controllo dell’Urbe, ma era divenuta colonia romana (nella provincia di “Syria et Palaestina”) solo nel 183 d.C. 

Più tardi, in un momento di grave debolezza di Roma - e cioè quando l’imperatore Valeriano cadde prigioniero del re persiano Shapur -, Odenato e la moglie Zenobia, della famiglia principesca romanizzata degli Julii Aurelii Septimii, si sostituirono all’autorità della potenza egemone, combattendo contro i persiani stessi, e conducendo addirittura con Zenobia, divenuta regina dopo la morte del marito, campagne di conquista in Arabia, Egitto, Asia Minore. Aureliano, imperatore dal 270, aveva riconosciuto l’indipendenza della sovrana, ma poi decise di ripristinare il potere imperiale e la sconfisse, portandola a Roma come prigioniera e poi confinandola a Tivoli. Finì così, con un esilio dorato, l’avventura di una regina d’Oriente: ma la città visse ancora a lungo. 

L’opulenza di Palmira era visibile nell’urbanistica e nell’architettura. I vari settori della città mutavano di orientamento, ma la via colonnata centrale (le colonne presentavano mensole che sostenevano statue, e l’impatto visivo doveva essere notevole) dava unità all’impianto, dissimulando i necessari cambi di direzione con complessi raccordi, fra cui spiccava proprio l’arco monumentale distrutto dall’Isis nell’estateautunno 2015. Nell’impianto erano presenti monumenti di tipo classico, come il teatro e l’agorà: in quest’ultima le colonne del portico perimetrale recavano, come quelle della via centrale, mensole che in origine sostenevano statue, alcune delle quali raffiguravano capi di carovane. Ed erano presenti (anch’essi ora distrutti) monumenti sapientemente “ibridi”. 

Nel tempio di Bel, eretto in età tiberiana (14-37 d.C.) e più tardi circondato da un gran cortile porticato, la pianta rettangolare, i frontoni e le colonne corinzie di tipo classico si combinavano con elementi di tipo orientale: copertura a terrazza, merli dentati, porta di ingresso su un lato lungo e non su un lato breve. Nel santuario di Baalshamin (II secolo d.C.), un tempio tetrastilo prostilo era inserito in una serie di cortili, come in un complesso architettonico iranico. 

Aspetti suggestivamente compositi si riscontrano anche nelle sculture. Scomparse le statue, certo di bronzo (le mensole non avrebbero sostenuto il peso del marmo), delle colonne dell’Agorà e dell’arteria centrale, poco numerosi i rilievi (pur notevoli) che decoravano le architetture, restano numerosissimi quelli pertinenti ai monumenti funerari: tombe a tempio, come quella di un potente palmireno romanizzato, Giulio Settimio Aurelio Vorodes; tombe a torre, come quelle che caratterizzavano il panorama a ovest della città, fra cui spiccavano la torre di Giamblico, a cinque piani (83 d.C.) e la torre di Elahbel (103); tombe a ipogeo, come quella di Yarhai (108). Le datazioni (si usa l’era seleucidica, che comincia nel 312 a.C.) e altre informazioni sono fornite dalle tante iscrizioni, eleganti come arabeschi, in un dialetto aramaico espresso in alfabeto locale.


Stele con figura femminile velata e panneggiata (II secolo d.C.), Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire.

Un volto estremamente concentrato è sormontato da un copricapo cilindrico: un elegante contrassegno del potere


Interessanti i rilievi raffiguranti banchetti funebri, ma molto più numerose sono le stele, che in realtà erano lastre di chiusura dei loculi. La loro “provvidenziale” dispersione per il mondo interessa (come s’è detto) anche musei di Roma: il Barracco, il Tucci, e infine i Vaticani, dove alcuni esemplari sono giunti in eredità da Federico Zeri, grande critico e collezionista. In tutte queste stele sono raffigurati i defunti, talvolta vestiti alla romana, ma spesso (soprattutto i personaggi femminili) con acconciature, vesti e gioielli di tipo orientale, sempre più fastosi con il passare del tempo. Si coglie quindi una molteplicità di influssi culturali: la varia combinazione di questi elementi contribuisce a “personalizzare” le immagini, anche se i tratti somatici sono di per sé generici e non fisiognomicamente aderenti ai soggetti raffigurati. Vediamo proprio una delle stele dei Vaticani. Una dama esibisce un’acconciatura complessa: un’elaborata pettinatura si combina con un diadema riccamente decorato e con il velo, che - in varie forme - nei ritratti femminili di Palmira è sempre presente. Ma altri dettagli (ovale del volto, grandi occhi, labbra sottili) sembrano addirittura ricordare una “kore” greca arcaica. Simili, pur non identiche, sono le acconciature di altre due donne, i cui eleganti busti panneggiati sono effigiati in due stele conservate a Ginevra e a Washington; in un’altra (eredità Zeri) vediamo invece un’elaborata chioma troncoconica che in alto si raccoglie in una crocchia. Ed è addirittura nota come Bella di Palmira una dama raffigurata in una stele di età più tarda, conservata a Copenaghen; è quasi interamente coperta di gioielli: orecchini, diademi, pendenti, collane, bracciali. Un’esibizione di fasto quasi regale. 

Notevolmente variato anche il panorama dei ritratti maschili. Qualche esempio fra i tanti. In un’altra stele dei Vaticani un meditabondo personaggio barbato mostra una spiga: era un importatore di grano. Non è certo raro che nelle sculture funerarie compaiano riferimenti alle attività svolte in vita dai personaggi commemorati: a Palmira sono pure da ricordare, fra l’altro, figure simboliche di dromedari in stele di capi da carovana. 

Le figure maschili appaiono predominanti nei rilievi (talvolta molto alti, quasi a tutto tondo) con scene di banchetto funebre. In genere un uomo con tunica e pantaloni ricamati è semidisteso su una “kline”, il cui materasso è pure riccamente decorato: l’uomo occupa quasi tutta la scena, anche se spesso è presente una figura femminile (come nel caso dei fratelli Mâle e Bâlayâ i cui nomi sono desumibili dalle iscrizioni del rilevo conservato a Damasco, qui pubblicato). Quel personaggio principale in molti casi è un sacerdote. 

In un ultimo frammento dei Vaticani, splendido, il volto estremamente concentrato è sormontato da un “modius”, tipico copricapo cilindrico decorato da un piccolo busto fiancheggiato da motivi vegetali. 

Un elegante contrassegno del potere.


Testa di sacerdote (prima metà del II secolo d.C.), Città del Vaticano, Musei vaticani.


Stele con importatore di grano con in mano una spiga (II secolo d.C.), Città del Vaticano, Musei vaticani.

Nella ricostruzione dell’archeologo Robert Amy, una restituzione grafica del tempio di Bel (età di Tiberio, 14-37 d.C.), ora distrutto.


Scena di banchetto funebre con i fratelli Mâle e Bâlayâ (fine del II secolo d.C.), Damasco, Museo archeologico nazionale.

ART E DOSSIER N. 330
ART E DOSSIER N. 330
MARZO 2016
In questo numero: VENEZIA DOCET Un pittore per il re d'Etiopia; La maniera veneta; Il libro e la pittura; L'oriente di Zecchin. PALMIRA I ritratti sopravvissuti allo scempio. IN MOSTRA Schiavone, Manuzio, Giardini, Art Brut.Direttore: Philippe Daverio