La sorte di Palmira, gioiello dell’archeologia siriana caduto in mano all’Isis, ha scosso il mondo: prima la pubblica esecuzione di prigionieri nel teatro antico, poi l’uccisione del direttore degli scavi Khaled al-Asaad, infine la distruzione dei monumenti più noti. Che cosa resta, allora, della grande città del deserto? Resta la gente. Gente di Palmira. In che senso? Vediamo.
Da quando, nel Sei-Settecento, viaggiatori ed eruditi occidentali ne riscoprirono le rovine, moltissime delle sculture che decoravano i principali monumenti furono asportate a beneficio di tanti musei: Washington, Copenaghen, Parigi, San Pietroburgo, Beirut, Ginevra e anche Roma. Un fenomeno diffuso, frutto dei rapporti di forza fra i paesi, poi man mano scomparso nel corso del Novecento.
Per Palmira, in un certo senso, quella migrazione di sculture è stata una fortuna: ora sono sfuggite alla devastazione, insieme con quelle conservate a Damasco e con quelle che i funzionari siriani sono riusciti a mettere al sicuro. Conosciamo così statue e rilievi; tantissimi questi ultimi, talvolta votivi ma più spesso provenienti da contesti funerari. Volti di palmireni.
Per capire meglio, ripercorriamo la storia del sito.
Nel deserto siriano, duecentocinquanta chilometri a nord-est di Damasco, si trova una grande oasi, punto di passaggio obbligato per le carovane che dall’Asia puntavano verso il Mediterraneo (e viceversa): qui sorse un’antichissima città, citata dalla Bibbia come Tadmor, che poi, con il nome di Palmira, conobbe nuovi sviluppi in età ellenistica (quando i Seleucidi di Siria controllavano un’area estesa fino all’Iran) e una grande fioritura in età imperiale romana.
Alcuni dettagli (ovale del volto, grandi occhi, labbra sottili) sembrano ricordare una “kore” greca arcaica
La città fu una sorta di snodo fra Occidente e Oriente, fra Roma e la terra dei Parti, che dominavano la zona fra Turchia e Persia nel III secolo d.C.
Insomma un opulento porto franco nel mare di sabbia, una città carovaniera come Petra, Gerasa, Dura Europos. Un luogo di passaggio per il trasporto di merci per le quali si pagava anche il dazio: incenso, mirra e aromi d’Arabia; avorio, legni rari, pietre preziose, perle, profumi dall’India; ma anche - provenienti da Occidente per i mercati asiatici - armi, tessuti, vino, olio. C’era la mediazione dei palmireni anche sulla seta che giungeva dalla Cina (un convegno su questo tema, tenutosi a Damasco nel 1992, fu coordinato proprio da Khaled al-Asaad). Una minuziosa regolamentazione fiscale, doganale, amministrativa è contenuta nella Tariffa palmirena, gigantesca iscrizione risalente al 137 d.C. e conservata nell’Ermitage di San Pietroburgo.