Oggi com’è: il parco incolto, i muri scrostati, i vetri in frantumi
Una lapide ricorda ancora i «soci perpetui» del luogo; al primo posto Mussolini, con un’elargizione di cinquemila lire, non poco per i tempi (altri versarono anche di più, ma vollero restare anonimi); si dice, anzi, che quella colonia l’avesse voluta il duce in persona, per i ragazzi delle “élite” milanesi. Né mancano, tra i contributori incisi nella pietra che ormai nessuno più guarda, «la Direzione e Personale della Scala» e Beniamino Gigli. Sulla facciata, un balcone rotondo; potrebbe essere sul lungomare di Rimini, o di qualsiasi altra città. Quattro piani squadrati; scalinata a tenaglia; i pennoni per le bandiere. Diciassettemila metri quadrati di parco; piscina coperta, dormitori da sessanta e anche novanta letti, refettori, un cinema. Un edificio centrale e cinque padiglioni, con nomi come Dux o Arnaldo (Mussolini, il fratello, morto nel 1931).
La “piccola città” viene intitolata a un eroe del Risorgimento: Amatore Sciesa, per errore, allora, ribattezzato Antonio. A scuola, lo abbiamo conosciuto tutti: condannato a morte, lo fanno passare sotto casa, mentre provano a fargli svelare dei nomi in cambio della salvezza; ma lui non cede e replica «tiremm innanz», andiamo avanti, in milanese, passiamo oltre. Sciesopoli nasce così, e prospera; a gestirla è una fondazione che reca il nome anche di due caduti fascisti morti nel 1922 in un assalto squadrista alla sede dell’“Avanti” a Milano. Chissà in quanti vi hanno svolto gli esercizi ginnici mattutini, o quelli dei “sabati fascisti”.
Caduto il regime, diventa il primo approdo per ottocento bambini rimasti soli e sfuggiti allo sterminio. Arrivano in un’altra colonia della zona a partire dal maggio del 1945, quando cominciano a essere troppi si cerca una nuova sede. La vicenda non è molto nota. Alcuni mesi dopo la guerra, per trovare una casa a quei ragazzi due persone vanno dal sindaco di Milano (il Comune era divenuto proprietario del complesso di Sciesopoli) per avere aiuto. Viene incaricato Luigi Gorini, noto chimico, delegato dal Cnl, la giunta partigiana del Nord, a occuparsi dei beni requisiti. I due sono Raffaele Cantoni, che a Milano dirigeva la comunità ebraica («ebreo anticonformista» lo diceva Sergio Minerbi: era stato anche un “fiumano” con D’Annunzio; deportato nel 1943, sfuggì ad Auschwitz lanciandosi dal treno in corsa), e Moshé Zeiri, che faceva parte della compagnia del genio “Solel Boneh” nell’esercito inglese. Gorini, che da docente si era rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, concede loro il luogo; e Zeiri ne diventa il direttore.
Così ottocento ragazzi ricominciano a vivere. Imparano l’ebraico, e provano di nuovo a sorridere. Tra loro parlano in yiddish (ma Zeiri pretendeva che parlassero ebraico). Nel refettorio domina una grande scritta in ebraico sulla parete: «I giovani sono il futuro del nostro popolo»; loro, quel futuro in cui avevano disperato, incominciano a guadagnarselo di nuovo. Tutti senza parenti: papà e mamma sono un ricordo, un rimpianto infinito; la Shoah è negli occhi e nella mente. A fatica escono da un tunnel terribile, e risorgono per davvero. Angela Camozzi, una maestra del tempo, così ne ricorda i primi passi nella vita ritrovata: «Erano magrissimi. Molti avevano visto i genitori entrare nelle camere a gas. Me lo raccontavano in un linguaggio di gesti e qualche parola italiana, spesso piangendo in modo disperato. Mentre giocavano a calcio, o al cinema guardavano una comica di Stanlio e Ollio, qualcuno, all’improvviso, scoppiava a piangere».
Con il tempo, se ne organizza la partenza. Il viaggio clandestino verso Israele, che ancora nemmeno esisteva come tale: la Terra promessa, secoli dopo l’esodo di Mosè. «I primi vengono imbarcati a Genova già a fine 1945», spiega Cavallarin. Mussolini avrebbe mai immaginato che la “sua” colonia sarebbe divenuta, perfetto contrappasso dantesco, un ricovero per gli orfani ebrei sfuggiti allo sterminio? Non fosse che per questo, la si dovrebbe salvare; magari, farne un piccolo Yad Vashem italiano, un memoriale della Shoah imparentato con quello famoso di Gerusalemme. O qualcosa d’altro, magari legato sempre ai conflitti, e a chi ne è sfuggito, che è ormai la “cifra” di Sciesopoli. Era, dice un documento, il più grande orfanotrofio in Italia, e uno dei maggiori in Europa.
Invece no: l’abbandono. Il parco incolto, i muri scrostati, i vetri in frantumi. Si fa fatica perfino a leggerne il nome sulla facciata. Oltre a tutto, spazio e strutture sono sprecati. Il deserto fisico rischia di trasformarsi in quello della memoria. I soli che si ricordano del luogo sono quanti vi hanno ricominciato a vivere. Nel 1983, qui sono arrivati in sessantasei. E da allora ogni anno dei gruppi vi ritornano. Nel 1996, il Comune di Selvino, in cui si trova Sciesopoli, si è gemellato con il kibbutz Tzeelim, fondato in Israele da alcuni di quei bambini, ormai divenuti padri e nonni. Hanno anche scritto un libro, finanziato tra gli altri da una sopravvissuta che ora vive a Boston e pubblicato in Israele; raccoglie storie di peripezie che si stenta perfino a credere vere.
Dopo il 1948, il luogo è stato una colonia estiva per trent’anni; poi rifugio per vietnamiti immigrati; per due anni si è votato ai soggiorni per la terza età. Ma dal 1985 anche queste parentesi di vita sono cessate: più nulla. Da qualche tempo, una società immobiliare di Vallo della Lucania - che aveva comprato edificio e parco a un’asta del Comune di Milano nel 1991 - cerca perfino di vendere l’area; ci sta ancora provando.
Pericolante l’edificio, tutto razziato, tranne la lapide con Mussolini nella prima riga. Il futuro, del luogo e della memoria, è quanto mai incerto. Vi sembra giusto?